Anche il Cln chiede a Palatucci di fuggire

La situazione nella questura di Fiume peggiorò in modo evidente in seguito ad un episodio marginale del febbraio 1944. Fu in seguito a tale evento che Roberto Tommaselli, questore reggente di Fiume dopo l’8 settembre, affiderà le sue funzioni a Palatucci e chiederà il trasferimento. Tommaselli scrive al consigliere germanico Carlo Paknek che «La mattina del 26 corrente si presentò nell’ufficio del Comm. Agg. Di P.S. Palatucci dr. Giovanni di questa questura un sottufficiale della Polizia germanica, il quale, a mezzo di un interprete di sua fiducia, chiedeva notizie di un apparecchio radio già di proprietà di certa Weisz, ebrea da tempo allontanatasi da Fiume» <411. Palatucci spiegò che l’apparecchio era stato restituito alla signora tempo addietro, ma il medesimo giorno, solo un paio di ore prima, degli agenti delle SS erano entrati nell’abitazione in cui viveva in affitto ed avevano interrogato la proprietaria, chiedendo se il commissario avesse nella sua camera una radio e ricevendo risposta positiva. Le SS inviarono quindi a Palatucci un ordine di citazione per il giorno successivo al comando di polizia di Sussa. Lì egli si difese affermando che l’apparecchio, al momento non funzionante, gli era stato regalato tempo addietro dalla madre. Si tratta di un episodio secondario, certo, ma che dimostra come il cerchio gli si stesse ormai stringendo intorno, lentamente ma inesorabilmente.
Risale alla prima metà del 1944 un altro evento marginale che secondo la storiografia revisionista dimostrerebbe come Palatucci fosse in realtà un collaboratore dei nazisti. In marzo il commissario ricevette dalla questura di Ravenna una richiesta di informazioni riguardo una famiglia ebrea in teoria nascosta utilizzando dei nomi falsi. Palatucci avrebbe risposto con una missiva in cui scriveva: “Trattasi di ebrei apolidi fiumani qui irreperibili che identificansi per…”, con i dati anagrafici dei membri della famiglia» <412. Come fa giustamente notare lo storico della Shoah Roberto Malini: «i “Giusti tra le nazioni” che operavano dall’interno delle istituzioni nazifasciste dovevano conquistare la
fiducia delle stesse, apparendo zelanti e ligi alle regole. Se i superiori avessero nutrito il minimo sospetto sulle loro attività a favore degli ebrei, essi non avrebbero più avuto alcun campo d’azione» <412. Si trattava, prosegue Malini, della stessa tattica utilizzata, in modo ben più enfatico, da Oskar Schindler, il quale era solito mantenere dei contatti civili con le SS che controllavano la zona in cui era sita la ‘sua’ azienda. Di più: Schindler arrivava ad organizzare feste e banchetti per le SS, partecipando attivamente, ridendo e scherzando con i gerarchi nazisti.
[…] Nell’aprile del 1944 la situazione peggiora ulteriormente: Palatucci è costretto ad inviare una lettera riservata (intitolata “Incidenti tra italiani e croati”) a Carlo Paknek, consigliere germanico per la provincia del Carnaro. In essa si critica il comportamento degli ustascia, i quali «avrebbero la pretesa di godere dell’immunità solo perché girano in uniforme». I militari croati «sono soliti da qualche giorno presentarsi in certo numero alle Ferrovie all’arrivo dei treni, per favorire l’esodo clandestino dei loro connazionali che operano il contrabbando» <414. In una successiva missiva del 9 maggio il questore porta all’evidenza del reggente tedesco le problematiche intercorse l’8 settembre
precedente e censura il comportamento dell’ex questore reggente «che, mentre parlava per sè solo, impegnò in una grave responsabilità tutto il personale, portò praticamente allo scioglimento della questura» … «Seguì l’umiliazione della consegna di tutte le armi, che vennero rapidamente depositate in prefettura, a disposizione del comando germanico, senza che si avesse neppure il tempo di compilare un inventario» … «Vi chiedo, dunque, le nostre armi, dolorosamente consegnate nel settembre scorso, e l’apporto di questi mezzi, che riterrete di poter offrire» <414.
Nonostante le difficoltà e i sospetti dei nazisti, il funzionario continua la sua opera di protezione degli ebrei… anche a tavola: Ernesto Iacovella, che dirigeva la mensa della questura di Fiume, racconta del questore e dei particolari ospiti presenti al suo desco: «Tutte le mattine veniva da me, mi prendeva sotto braccio, si passeggiava, si chiacchierava e mi chiedeva informazioni sul mangiare» … «dopo che avevano mangiato agenti e funzionari toccava agli ebrei. Erano dieci-venti in media al giorno, e cambiavano sempre, a volte erano anche trenta-quaranta. Era Palatucci a mandare alla mensa chiunque avesse bisogno e io non facevo mai mancare la roba. Bastava sempre per tutti» <415. Iacovella racconta anche di possibili contatti fra Palatucci e gli alleati: «credo che avesse dei contatti con gli alleati, perché sapeva in anticipo quando venivano a bombardare e quando potevamo stare tranquilli. E ce lo diceva» <415.
Gli ultimi giorni di un giusto
L’inizio dell’estate del 1944 è particolarmente difficile per la Questura di Fiume: la ferrovia che connette la città al territorio della Repubblica Sociale viene ripetutamente danneggiata da atti di sabotaggio dei partigiani titini; la quasi completa assenza di mezzi di trasporto per i militari italiani rende praticamente impossibile il trasporto di qualsiasi merce. Manca inoltre il carburante a causa dei bombardamenti delle raffinerie di Fiume e Trieste. Il risultato è che i prezzi dei generi alimentari aumentano drammaticamente giorno dopo giorno. Palatucci decide quindi di scrivere un’ennesima relazione ai suoi superiori, il 26 luglio 1944. Sarà la sua ultima missiva.
La situazione precaria è ulteriormente peggiorata dalle milizie del Partito Fascista Repubblicano e della Guardia Nazionale Repubblicana: entrambe cercano di mettere in cattiva luce agli occhi dei tedeschi l’autorità della questura, probabilmente per sostituirla al potere. «Nulla si può opporre agli abusi e ai maltrattamenti perpetrati a danno dei cittadini italiani, perché le autorità italiane o rimangono assolutamente estranee a tali operazioni di polizia, in quanto ridotte all’impossibilità di una concreta azione in tale campo (questura), o le avallano e le appoggiano mediante opera di delazione, spesso a fini di vendetta personale (milizia e Pfr). Il prefetto poi, che dovrebbe svolgere almeno opera di moderazione e tutela, è del tutto passivo» <416.
Palatucci teme che le milizie fasciste possano addirittura passare all’azione: «Mentre io mi sforzavo di risalire faticosamente la corrente a forti bracciate, ebbi sentore di un attacco, che si andava ordendo ai danni della questura, a opera del Comando del 3º Rgt. Milizia Territoriale (Gnr)». La missiva si conclude con una richiesta urgente di armi per difendere i suoi uomini: «134 pistole, 50 mitra, 95 moschetti, quattro fucili» <416. Non otterrà nulla. Nel tentativo di salvare i ‘suoi’ ebrei, il questore arriva a cercare una sorta di accordo, o quanto meno di unità di intenti, con il movimento partigiano. Sebbene nei suoi rapporti ufficiali critichi le attività di sabotaggio da loro organizzate, in realtà si tiene in contatto con essi per assistere gli ebrei ed i perseguitati politici. Antonio Luksich Jamini, che rappresentava la Democrazia Cristiana nel comitato antifascista fiumano, afferma che «Particolare adesione alle direttive della Resistenza, in favore della protezione degli ebrei spietatamente perseguitati per odio razziale dai nazisti e dai fascisti, fu quella dell’Ufficio controllo stranieri della questura, il cui capo dott. Palatucci (in cospirazione col dott. Danieli) sacrificò la vita nel campo di Dachau» <417.
Nella già tragica situazione degli ebrei fiumani e slavi si innesta la tragedia dell’abbandono di Fiume da parte degli alleati. Il questore decide di sondare possibili contatti anche col movimento autonomista fiumano e viene avvicinato da Giuseppe Sincich, figlio di un agente immobiliare che all’epoca finanziava e dirigeva il circolo autonomista. Nel mezzo dell’estate del 1944 il giovane Sincich gli consegnerà una missiva da parte del padre. A suo parere la busta conteneva «un documento volto a ripristinare a Fiume il trattato di Rapallo, da far pervenire alle forze alleate in Svizzera» <418. È forse questo il famoso documento che condannò Palatucci? Sincich afferma che «Confidavamo nell’aiuto degli angloamericani, perciò era stato affidato a Palatucci quel documento, si sperava nel loro arrivo, c’era già un triumvirato che avrebbe dovuto prendere il potere (Blasich, Peteani e Bossi). Ma gli alleati hanno tradito» <417. Il ‘tradimento’ di cui parla Sincich è il mancato sbarco delle truppe angloamericane nell’Alto Adriatico. La possibilità fu probabilmente considerata da Churchill, ma Roosevelt aveva già deciso da tempo di non ostacolare i piani di Tito nei Balcani: Fiume e l’Istria sarebbero dovute entrare nella sua zona di influenza. Il giornalista Alfio Colussi, che in quei giorni scriveva per “La Vedetta d’Italia”, afferma che «questi territori venivano a trovarsi in una situazione di
fondamentale ambiguità. Reciso il legame con il governo legittimo, rifugiatosi a Brindisi, non ne fu mai stabilito uno neppure con la Repubblica di Salò. L’annessione non fu mai esplicitamente dichiarata dai tedeschi, ma avvenne in forma strisciante» <419.
Palatucci si rende conto che la resa dei conti è vicina? Probabilmente sì, perché nell’agosto di quell’anno si dirige verso Salò insieme al fedele collaboratore Alberino Palumbo; ufficialmente per effettuare una missione nelle province di Bergamo, Brescia e Como, ma in realtà per accompagnare la fidanzata Mika Eisler e la di lei madre fino al confine svizzero. Fu questa l’ultima occasione in cui il giovane vide la donna che avrebbe desiderato sposare e con la quale, se avesse voluto, avrebbe potuto facilmente fuggire oltre confine <420. Cosa accadde a Mika Eisler? Trasferitasi nell’Est Europa, nel 1990 venne ritrovata dallo scrittore Goffredo Raimo che riuscì a telefonarle e ad ottenere questa dichiarazione per l’uomo che l’aveva amata e salvata dalla morte: «Egli era una persona unica. Lei non può immaginare la sua bontà. Ricordo tutto come se fosse ora. Parli di lui, di quello che ha fatto, e che si sappia di lui, della sua bontà» <421.
Palatucci quindi pur potendo fuggire decide di ritornare a Fiume. Nella notte fra il 12 ed il 13 settembre 1944 le SS irrompono nel suo appartamento e lo traggono in arresto. Quali le ragioni di questo provvedimento: il salvataggio di numerosissimi ebrei sviluppatosi nel corso di lunghi anni o l’azione politico-diplomatica dell’ultimo periodo a favore di una Fiume indipendente? È ipotizzabile che le due motivazioni siano connesse: ricorda Luskich Jamini che «Il Cln fiumano esortò il dott. Palatucci a restare al suo posto, onde il “canale” continuasse a funzionare per gli ebrei e per tutti gli altri bisogni della Resistenza, che iniziava la lotta aperta contro il nazismo» <422. Come Mika Eisler, come il console in Svizzera, anche il Cln chiede a Palatucci di fuggire, di salvarsi la vita: «Le autorità tedesche, constatata la scarsità di prede, si convinsero che a Fiume si agiva per sottrargliele: per cui aumentarono e inasprirono la vigilanza, sia per mezzo dei loro confidenti, sia attraverso la questura, il cui ufficio politico puntò i propri sospetti sul Palatucci, del quale aveva notato il distacco assoluto dalla cricca repubblichina» … «Il Cln, informato di ciò, fece presente al dott. Palatucci che era necessario il suo ritiro, egli però si preoccupò della conferma dei sospetti che un suo repentino ritiro avrebbe costituito e del possibile riflesso che essa avrebbe potuto avere su altre persone i cui rapporti con lui potevano essere stati notati; e rimase al suo posto per combattere i sospetti, per continuare la sua preziosa e patriottica opera, fiducioso del destino, ma soprattutto deciso a non mutare strada e non fuggire» <422.
Dall’altro lato l’avvocato Franchi, che aveva vissuto a Fiume fino al 1949, in una missiva a Monsignor Giuseppe Maria Palatucci scrive che la causa dell’arresto e della morte del nipote fu la sua opera per una Fiume libera dal giogo nazifascista: «Nei miei frequenti rapporti professionali avuti col dott. Palatucci so quanto egli fece a innumerevoli ebrei», ma «si verrebbe meno alla verità storica dei fatti se si volesse dire che quell’opera di vero cristiano sia stata la causa determinante dell’arresto e della deportazione» … «nei miei contatti personali avuti, durante la dominazione tedesca col dott. Palatucci e coll’ing. Giovanni Rubini (successivamente fatto trucidare dai partigiani) ho saputo che suo nipote ebbe ad affrontare la morte per un motivo ancora più apprezzabile (dal lato nazionale), ossia per amore di Patria» <423. A questa missiva il Vescovo rispose con una considerazione condivisibile: «So bene che mio nipote lavorava per mettersi in relazione con gli alleati contro i nazifascismi. Ma so pure che il fatto di aver salvato gli ebrei era già mal visto da un pezzo, sì che egli era tenuto d’occhio, e fu presa ben volentieri l’occasione di quella denunzia per ragioni politiche per colpirlo anche per l’aiuto agli ebrei. E questi lo sanno molto bene, come ebbi a sapere poco dopo la morte di lui, nel 1945 stesso» <424.
Successivamente all’arresto la reggenza della questura di Fiume venne momentaneamente assegnata al commissario aggiunto Giuseppe Hamerl, l’ultimo reggente italiano. Hamerl ordinerà l’apertura dei cassetti chiusi a chiave dello studio di Palatucci, in cui si troveranno «Lire 21,701 in biglietti bancari; lire 130,00 in assegni bancari emessi dalla Banca Commerciale Italiana, filiale di Fiume, a nome del dott. Palatucci» <425. Incrociando il denaro trovato e le ricevute di spesa del commissario, rimase un ‘buco’ di circa 140 lire, denaro che probabilmente Palatucci aveva utilizzato per pagare i contrabbandieri che si occupavano della fuga degli ebrei da lui protetti <426.
Successivamente all’arresto Palatucci subì degli interrogatori di cui non abbiamo testimonianza ma che si possono supporre assai duri <427. Seguì un processo sommario da parte delle SS, anche di esso non esistono al momento documentazioni, che si concluse con la condanna a morte dell’arrestato.
Ci fu qualcuno che difese Palatucci? Qualche collega, superiore od amico che tentò di testimoniare a suo favore? Fino ad oggi non sono stati ritrovati documenti o testimonianze che indichino qualsivoglia iniziativa da parte delle istituzioni che egli aveva così fedelmente servito per anni. C’è però l’interessamento del maresciallo Maione, del brigadiere Capuozzo e del vescovo di Trieste Santin, originario di Fiume e conoscente dell’arrestato. L’unica figura politica che si muoverà per difendere Palatucci sarà il console svizzero Emilio Borzanigo; la sua azione sarà fondamentale per tramutare la condanna alla pena capitale in una deportazione a Dachau. Nonostante i duri interrogatori,
nonostante la condanna a morte, Palatucci non parlò: non rivelò alcuno dei segreti che pure le SS stavano cercando da mesi. Come afferma un testimone diretto, il già citato Antonio Luskich Jamini, «Il suo senso di responsabilità civica era così alto che tenne per sé ogni segreto della cospirazione e lo conservò fino alla morte rendendo possibile la continuità del “canale” in favore del movimento delle province e dei perseguitati razziali. Praticamente il dottor Palatucci con il proprio sacrificio salvò il “canale” medesimo» … «poichè nessun arresto seguì quello di Palatucci, ciò prova che egli rifiutò alle SS ogni rivelazione» <428.
Del periodo intercorso fra il carcere e la deportazione non ci sono testimonianze dirette, ma tramite i ricordi della moglie di Pietro Capuozzo, brigadiere di P.S. ed aiutante di Palatucci, possiamo ricostruire gli ultimi momenti a Fiume immediatamente prima della partenza per il campo di Dachau: «Mio marito andò al treno, ma si fece accompagnare da un collega della Polfer, perché i deportati erano chiusi nei vagoni, e lui per far sapere al commissario che era lì, alla pensilina, doveva parlare ad alta voce ma non poteva chiamarlo per nome. Camminando su e giù per i vagoni si trovò un bigliettino tra i piedi e la voce di Palatucci che diceva: “Capuozzo, accontenta questo ragazzo, avverti sua madre che lui sta partendo per la Germania. Addio”» <429.
La data di partenza da Fiume è il 18 ottobre 1944 <430, l’arrivo a Dachau avvenne intorno al 20 di ottobre. Il campo sarebbe stato liberato pochi mesi dopo, il 29 Aprile 1945, ma per Palatucci sarebbe stato troppo tardi. Coloro che entrarono per primi a Dachau raccontano che «Le baracche erano impregnate dell’odore della morte e della malattia. In sei di esse erano coricati l’uno sull’altro moribondi e malati d’inedia: 1.200 persone in spazi che ne potevano contenere duecento» … «Sui cadaveri macilenti si potevano leggere i segni dell’inedia, e molti sopravvissuti erano troppo deboli perché si potesse pensare a una loro guarigione. In un bosco vicino, i reclusi, sotto la sorveglianza delle SS, avevano costruito un nuovo edificio, al cui interno, nelle due stanze usate per la tortura, erano accatastati circa 1.200 corpi senza vita» <431.
[NOTE]
411 Dal Fondo Documentale Giovanni Palatucci.
412 Roberto Malini, Giovanni Palatucci fu un Giusto. Una risposta allo studio del Centro Primo Levi.
413 Sito dell’università della Pennsylvania. Estratto dall’intervista a Oskar Schinlder. http://www.writing.upenn.edu/~afilreis/Holocaust/steinhouse.html
414 Angelo Picariello, Capuozzo, accontenta questo ragazzo, Op. cit., pp. 178-182.
415 Ibidem, p. 202.
416 Angelo Picariello, Capuozzo, accontenta questo ragazzo, Op. cit., p. 205-207.
417 Antonio Luksich Jamini, Fiume nella resistenza e nella lotta per la difesa dell’unità d’Italia (1943-1947), in Fiume – Rivista di Studi Fiumani, III 3-4, luglio-dicembre 1955, p. 153.
418 Angelo Picariello, Capuozzo, accontenta questo ragazzo, Op. cit., pp. 214, 215.
419 Goffredo Raimo, A Dachau per amore, Op. cit., pp.232 e ss.
420 Non va dimenticato che Palatucci era all’epoca una delle persone più informate sulla situazione fiumana. Le sua approfondita conoscenza dei fatti e delle dinamiche in corso in quella delicatissima regione lo rendeva particolarmente prezioso. Lo stesso Console italiano in Svizzera, Emilio Borzanigo, gli offrì ospitalità.
421 Goffredo Raimo, A Dachau per amore, Op. cit., p.246.
422 Antonio Luksich Jamini, Fiume nella resistenza e nella lotta per la difesa dell’unità d’Italia (1943-1947), Op. cit., pp. 126 e ss.
423 Lettera conservata nel Fondo Documentale Giovanni Palatucci. Citato in Angelo Picariello, Capuozzo, accontenta questo ragazzo, Op. cit., p. 229.
424 Ibidem. In un’intervista alla radio israeliana, il Vescovo disse di sapere anche il nome di colui che tradì il nipote, consegnandolo di fatto ai nazisti.
425 Da un documento custodito presso il dipartimento di P.S., pubblicato in Giovanni Palatucci, il poliziotto che salvò migliaia di ebrei, op. cit., p. 96.
426 È probabilmente in base a questo documento che i detrattori di Palatucci hanno ritenuto lecito lanciare una campagna mediatica in cui il ‘questore’ di Fiume è raffigurato come un persecutore di ebrei ed un volgare ladro. (Vedasi il paragrafo ‘Riguardo la polemica sulla figura di Palatucci’)
427 Lo Yad Vashem parla chiaramente di torture: « He was imprisoned and tortured in Trieste and condemned to death.» Righteous Database, Yad Vashem
428 Antonio Luksich Jamini, Il salvataggio degli ebrei a Fiume, Op. cit., p. 126.
429 Angelo Picariello, Capuozzo, accontenta questo ragazzo, Op. Cit., p. 251.
430 Il certificato di detenzione di Palatucci è conservato nel Fondo Documentale Giovanni Palatucci.
431 Wolfgang Sofsky, L’ordine del terrore. Il campo di concentramento, Bari, Laterza, 1993, p. 8.
Davide Spada Pianezzola, Le ragioni dei Giusti. Azioni, tecniche e motivazioni dei “Giusti” italiani durante la Seconda Guerra Mondiale, 1941-1945, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Padova, Anno Accademico 2013-2014

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Pensionato di Bordighera (IM)
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