Longo scrisse che il generale Cadorna era stato «inviato dagli Alleati nel Nord con il preciso compito di controllare e contenere il movimento partigiano»

Il governo del Sud, monarchico e conservatore, nutriva una certa diffidenza nei confronti del movimento di liberazione del Nord, egemonizzato dai partiti di sinistra. E va qui inserita un’analisi sui rapporti tra servizi italiani e quelli britannici (SOE) e statunitensi (OSS). Peter Tompkins (che dell’OSS fu uno dei membri più importanti ed attivi) afferma che la politica britannica era favorevole alla ristabilizzazione di una monarchia liberale in Italia e voleva impedire che in Italia vi fosse un vero e proprio cambiamento dovuto al fatto che la Resistenza al Nord era sempre più politicamente orientata a sinistra; temendo una ripetizione della situazione greca, le autorità britanniche decisero di sostenere esclusivamente la Resistenza militare e monarchica (le formazioni autonome del generale Cadorna) e pertanto il SOE prese contatti con i servizi del Regno del Sud: il SIM con i suoi residuati fascisti. Churchill inviò a Brindisi uno “sciame di servizi segreti” che però non essendo ancora disposti a recarsi oltre le linee si appoggiarono al SIM, su disposizione di Alexander [42]. A Brindisi Badoglio cercò di convincere gli inglesi che la resistenza nell’Italia occupata dai tedeschi era organizzata in gran parte da personale del disciolto esercito regolare con il quale i monarchici affermavano di essere in contatto grazie a un canale radio segreto del SIM. Badoglio e il re con l’arma del SIM intendevano impedire la formazione di un movimento armato antifascista nell’Italia occupata dai tedeschi, per mantenere solo quello che richiedevano gli inglesi, cioè “piccoli gruppi di agenti adibiti unicamente ad operazioni di sabotaggio e di ricerca di informazioni militari”: in pratica la Special force creata dall’Intelligence service [43].
[NOTE]
[42] P. Tompkins, op. cit., p. 42 [Peter Tompkins, L’altra Resistenza. Servizi segreti, partigiani e guerra di liberazione nel racconto di un protagonista, Il Saggiatore, 2009]
[43] P. Tompkins, op. cit., p. 42 e seguenti.
Claudia Cernigoi, Alla ricerca di Nemo. Una spy- story non solo italiana in La Nuova Alabarda e la Coda del Diavolo, supplemento al n. 303, Trieste, 2013

Il movimento resistenziale nacque dall’opera di piccoli gruppi di esponenti dell’antifascismo storico fortemente motivati e dall’apporto di un certo numero di militari sbandati mossi dai sentimenti più diversi. Laddove questi due elementi si manifestarono da subito la Resistenza si sviluppò più rapidamente.
[…] La prima forma di resistenza offerta dalle forze armate del disciolto esercito era però fragile, specie quando gli ufficiali che si trovarono a capo di quelle precarie aggregazioni rimanevano ancorati alla logica dello scontro tra eserciti tradizionali, non sapendosi adattare alla nuova situazione che richiedeva altre tecniche di combattimento. I primi gruppi di militi che scelsero di attuare gli schemi di una difesa rigida, muro contro muro, furono spazzati via dall’ineluttabile superiorità della Wehrmacht, un esercito regolare a tutti gli effetti superiore in uomini, mezzi ed organizzazione.
[…] Gli anglo-americani non volevano che l’Italia una volta liberata dai nazifascisti potesse diventare teatro di una resistenza antialleata. Il timore che la nascita delle brigate partigiane, inquadranti forze in continua crescita, organizzate unitariamente dalla fitta rete dei Cln nazionali nati capillarmente sul territorio italiano, divenissero l’“avanguardia armata di correnti politiche indocili ai piani americani per il futuro del paese” <84, fece sì che gli alleati sostenessero, almeno inizialmente, tiepidamente l’opera partigiana. Essi chiedevano alla Resistenza di limitare il proprio contributo militare al servizio informazioni sulle attività tedesche e ai sabotaggi delle infrastrutture in quei luoghi ritenuti di enorme importanza nell’ottica dell’avanzata alleata; sperando così di scongiurare la politicizzazione della lotta armata. Non era un caso che le brigate Garibaldi venissero di norma escluse dai rifornimenti aerei degli alleati. Ma anche i quantitativi di materiale bellico concessi alle altre formazioni partigiani, in testa vi erano le formazioni autonome inquadrate da ufficiali del disciolto esercito, erano dosate.
[…] Appariva dunque chiaro come gli scopi della guerra alleata poco si armonizzassero con quelli del movimento di Resistenza italiano, aprendo così una questione istituzionale imperniata sull’atteggiamento da assumere nei confronti del re e del suo governo che tenne in scacco i partiti ciellenisti fino alla svolta di Salerno.
Durante quei primi lunghi sette mesi la Resistenza rimase sola, senza aiuti dalle forze alleate, con forti contrasti interni e con l’inverno alle porte da affrontare con scarse risorse, proprio nel momento in cui il rallentamento delle operazione militari concedeva agli occupanti di concentrare maggiori forze contro le bande partigiane <85.
[NOTE]
84 Giovana, La Resistenza in Piemonte, cit., p. 133
85 Peli, La Resistenza in Italia, p. 54
Marco Pollano, La 17a Brigata Garibaldi “Felice Cima”. Storia di una formazione partigiana, Tesi di laurea, Università degli Studi di Torino, Anno Accademico 2006-2007

La propaganda alleata insistette, dunque, sul fatto che il comportamento degli italiani che avevano spodestato Mussolini e rovesciato il regime politico fascista fosse reputato tanto più onorevole, perché essi erano stati i primi tra le Potenze dell’Asse a ribellarsi al nazifascismo e ciò avrebbe prodotto importanti ripercussioni in tutta l’Europa. Dal canto loro, dopo la caduta di Mussolini, Badoglio e il Re, da un lato, proclamarono al pubblico e al mondo “la guerra continua” e con i rappresentanti diplomatici e militari tedeschi in Italia finsero sino all’annuncio dell’armistizio con gli anglo-americani la continuazione dell’alleanza con la Germania perché temevano la vendetta tedesca <22, timore confermato dalla circostanza che, nonostante i proclami di Badoglio e del Re, Hitler, diffidando del nuovo governo italiano, aveva provveduto a incrementare le truppe tedesche sul territorio italiano; dall’altro, in una conferenza del 31 luglio 1943, cui parteciparono il Re, Badoglio, il duca Acquarone, il generale Ambrosio e il nuovo ministro degli Esteri Guariglia, fu adottata la decisione di avviare nella massima segretezza, per fugare il pericolo incombente di un’occupazione tedesca del territorio italiano, i negoziati con gli angloamericani.
Invero, com’è stato da più parti evidenziato, tale segretezza costituì una sorta di “segreto di Pulcinella”, giacché i tedeschi furono consapevoli, attraverso i loro apparati informativi segreti, sia della doppiogiochismo italiano sia dello stato d’animo eminentemente antitedesco della popolazione italiana, come emerge, in particolare, da un rapporto del 5 settembre redatto dalle SS sull’orientamento della popolazione civile e del suo governo <23, e, pur ignorando le trattative per la capitolazione che gli italiani avevano già definito alle loro spalle, disposero con brutale egoismo del loro debole “alleato”, sicché, “quando il 3 settembre fu firmato l’armistizio, l’occupazione tedesca dell’Italia era già un fatto compiuto” <24.
Fu, così, deciso di inviare emissari a Tangeri tra il 4 e il 5 agosto ’43 <25 e, in seguito, a Lisbona, a partire dal 16 agosto dello stesso anno, tra i quali il generale della marina italiana, Giuseppe Castellano, presso le Autorità militari alleate al fine di consentire nel più breve tempo possibile una cessazione delle ostilità. Il generale Castellano, a colloquio con i rappresentanti anglo-americani, il maggiore generale W. B. Smith e il brigadiere K. W. D. Strong dello Stato Maggiore del generale Eisenhower, non solo offrì la resa delle Forze Armate del paese ma chiese, altresì, che fosse consentito loro di contribuire alla guerra contro la Germania dal momento dello sbarco alleato nel paese. I rappresentanti delle potenze angloamericane risposero, tuttavia, di non essere stati autorizzati a discutere altra soluzione se non la resa incondizionata, come emerge anche dalla testimonianza di Churchill che, in un discorso alla House of Commons del 21 settembre 1943, dichiarò che “il militare italiano non si oppose alle condizioni dell’armistizio [breve], sebbene fossero dure, ma replicò che lo scopo della sua missione era discutere del contributo dell’Italia alle Nazioni Unite nella guerra contro la Germania. Egli chiese altresì come le condizioni armistiziali potessero essere eseguite di fronte all’opposizione tedesca. I delegati inglesi e americani risposero però che erano autorizzati a discutere esclusivamente una resa incondizionata” <26. I delegati anglo-americani, infine, consegnarono a Castellano un aide-mémoire redatto dai capi di governo alleati a Quebec, noto come “Documento di Quebec”, su cui si sarebbe, poi, fondata, come si vedrà nel capitolo quarto, la politica estera italiana dopo l’armistizio.
[NOTE]
22 I testi dei proclami sono rinvenibili in P. Badoglio, L’Italia nella seconda guerra mondiale cit., p. 84 e ss.
23 “Il popolo italiano, nel suo complesso, è stanco della guerra e desidera ad ogni costo la pace. Le truppe tedesche concorrono solo a ritardare la pace e, eventualmente, a trasformare l’Italia in un teatro di guerra. Scoraggiati dagli insuccessi militari, la massa della popolazione e il governo, concordi su questo punto, cercano una soluzione favorevole alla pace, il traguardo agognato, e la cercano più al fianco degli alleati che al nostro”. Si cfr. C. Gentile, Settembre 1943. Documenti sull’attività della divisione ‘Leibstandarte Adolf Hitler’ in Piemonte in “Il Presente e la Storia”, n. 47 del 1995, pp. 75-123.
24 Si cfr. Lutz Klinkhammer, L’occupazione tedesca in Italia. 1943-1945, Bollati Boringhieri, Torino 1993, p. 32
25 I primi emissari furono due diplomatici, il marchese Blasco Lanza d’Aieta inviato a Lisbona, e Alberto Berio, mandato a Tangeri, dove fu nominato console. Entrambe le missioni fallirono: la risposta inglese fu la capitolazione senza condizioni.
26 “Prime Minister Churchill said the General Castellano (…) did not oppose those (military) terms, drastic though they were, but he replied that the purpose of his visit was to discuss how Italy could join the United Nations in the war against Germany. He also asked how the terms could be executed in the face of German opposition. The British and American officers replied that they were empowered to discuss only unconditionall surrender [sic]”. Italy. Developments Dating from Armistice Negotiations cit., cap. 1, p. 4.
Michaela Sapio, Servizi e segreti in Italia (1943-1945). Lo spionaggio americano dalla caduta di Mussolini alla liberazione, Tesi di Dottorato, Università degli Studi del Molise, 2012

Il contributo delle Forze armate italiane alla guerra di liberazione dall’occupazione tedesca della penisola, benché spesso posto in secondo piano dall’ingombrante presenza della Resistenza clandestina nel discorso pubblico e nella storiografia, è stato al centro di diversi studi nei decenni scorsi <1. Durante la fase post-armistiziale della cobelligeranza, l’Esercito, la Marina e l’Aviazione, o meglio ciò che rimaneva delle Forze armate regie a seguito dello sbandamento del settembre 1943 e della sconfitta militare subìta per mano delle potenze anglo-americane, mettevano a disposizione degli occupanti quasi un milione di uomini nello sforzo antitedesco <2.
La collaborazione dello Stato italiano con i paesi vincitori non aveva seguìto, tuttavia, un percorso né agevole né coerente. Gli ostacoli alla piena partecipazione italiana alle attività belliche della campagna d’Italia erano infatti diversi: da una parte, le precarie condizioni in cui versavano gli organi istituzionali e militari dello Stato italiano, ridotto alla fine del 1943 ad un distaccamento brindisino di quanto era sopravvissuto alla fuga da Roma e al crollo delle strutture tradizionali di comando [3; dall’altra, la forte volontà dei vertici politici anglo-americani di limitare il coinvolgimento, a qualsiasi livello, delle autorità italiane nelle operazioni militari che accompagnavano la risalita della penisola delle truppe alleate [4. Ciononostante, la partecipazione del ricostituito Regio esercito alle operazioni alleate in Italia aveva costituito un importante passaggio della legittimazione cui i governi di Badoglio e
Bonomi avevano aspirato. Tra gli esponenti della classe politica e militare italiana che aveva ereditato le redini del Paese a seguito della caduta del fascismo ferma era la convinzione che esistesse uno stretto legame fra l’inclusione delle forze italiane nella lotta contro i tedeschi e la concessione di un tanto agognato status di alleato, e di tutto era stato fatto in quei mesi per garantirsi un’apertura sempre maggiore da parte dei governi anglo-americani e del comando alleato in tal senso <5.
[NOTE]
1 Le attività delle Forze armate italiane nel periodo della cobelligeranza sono analizzate in dettaglio da una serie di lavori a cura dell’Ufficio storico dello Stato maggiore dell’esercito, in particolare S. LOI, I rapporti tra alleati e italiani nella cobelligeranza: MMIA-SMRE, Ussme, Roma 1986. Si vedano inoltre in merito gli atti di due convegni sul tema, Le divisioni ausiliarie nella guerra di liberazione: atti del Convegno, 8-9-10 ottobre 1994, Scena illustrata, Lucca 1994, e Il secondo risorgimento d’Italia: riorganizzazione e contributo delle forze armate regolari italiane, la cobelligeranza: atti del Convegno, 28-29-30 aprile 1994, Associazione nazionale combattenti della Guerra di liberazione inquadrati nei reparti regolari delle Forze armate, 1996. Sulle vicende dell’occupazione tedesca in Italia nella fase conclusiva della guerra si veda il fondamentale L. KLINKHAMMER, L’occupazione tedesca in Italia, 1943-1945, Bollati Boringhieri, Torino 1993.
2 Degli uomini utilizzati, 400.000 facevano parte dei tre rami delle Forze armate (300 mila provenienti dall’Esercito, 70 mila dalla Marina, 30 mila dall’Aviazione), 150.000 erano i patrioti impegnati in attività di resistenza nelle aree occupate, e 380.000 i prigionieri di guerra. Particolarmente importante era stato il ruolo delle unità ausiliarie, come si evince dal saggio di Giovanni Cecini in questo stesso volume; i dati sono tratti dalla relazione inviata dal capo di Stato maggiore generale Giovanni Messe al presidente del Consiglio dei ministri, Ivanoe Bonomi, il 31 dicembre 1944, Contributo italiano alla guerra delle Nazioni Unite in quindici mesi di cobelligeranza, in Aussme, fondo
L-13, b. L(13).
3 La letteratura sui problematici inizi del Regno del Sud e del governo Badoglio è ricca, ma presenta ancora diverse lacune. Mancano infatti studi approfonditi sulla ricostruzione delle strutture governative e amministrative all’indomani del crollo delle istituzioni tradizionali e del loro controllo sul territorio dovuto al sovrapporsi dell’occupazione militare alla crisi interna dello Stato. Per una prima panoramica sulla bibliografia esistente si rimanda a L’altro dopoguerra: Roma e il Sud 1943-1945, a cura di N. GALLERANO, Franco Angeli, Milano 1985; R. CIUNI, L’Italia di Badoglio, Rizzoli, Milano 1993; A.G. RICCI, Aspettando la Repubblica: i governi della transizione, 1943-1946, Donzelli, Roma 1996.
4 Diverso è invece il discorso per il supporto amministrativo chiesto al governo italiano nella gestione delle aree occupate. A termine di un lungo dibattito sull’opportunità di servirsi delle preesistenti strutture amministrative nelle regioni sotto il controllo dell’Allied Military Government, le potenze alleate adottavano di fatto una soluzione che permettesse loro di poggiare il governo militare sugli organi e sugli uomini che avevano rappresentato gli enti locali anche nel periodo fascista; si veda in merito M.M. ATERRANO, Unconditional Surrender? La pianificazione istituzionale angloamericana e la genesi dell’amministrazione alleata nell’Italia occupata, 1943, «Annali della Fondazione Luigi Einaudi», vol. 49, 2015, pp. 167-90, e, per una panoramica sul tema della mancata epurazione, H. WOLLER, I conti con il fascismo: l’epurazione in Italia, 1943-1948, Il Mulino, Bologna 2004.
5 Significativo a tal proposito un telegramma inviato da Badoglio all’ambasciatore italiano a Madrid Giacomo Paulucci di Calboli il 30 novembre 1943, in cui si dichiarava in modo inequivocabile un “firm desire to concentrate our efforts for reconstruction of country and participation in war”, in Documenti Diplomatici Italiani (DDI), Serie X, 1943-1948, vol. I, 9 settembre 1943-11 dicembre 1944, a cura di P. PASTORELLI, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma 1992, doc. 84, pp. 99-100. Sulla volontà italiana di contribuire maggiormente allo sforzo bellico nella penisola e, più in generale, sul difficile rapporto esistente tra i governi alleati e l’esecutivo brindisino si vedano i Verbali del Consiglio dei ministri: luglio 1943-maggio 1948, voll. I-IV, a cura di Aldo Ricci, Presidenza del Consiglio dei ministri, Roma 1994-1995.
Marco Maria Aterrano, Gli uffici di collegamento tra le Forze armate italiane e le autorità anglo-america nella cobelligeranza in La ricostituzione del Regio esercito dalla resa alla liberazione, 1943-1945, Introduzione di Francesco Anghelone, a cura di Marco Maria Aterrano, Rodorigo editore, 2018

Qui preme evidenziare che, poco meno di un anno dopo gli eventi del settembre 1943, Bonomi, al fine precipuo di ottenere la revisione delle severe condizioni armistiziali imposte all’Italia, rivendicava di fronte a Roosevelt il merito del suo governo che, ancorché all’oscuro della data dello sbarco alleato in Italia che gli emissari alleati si erano astenuti dal comunicare e, soprattutto, nonostante il rifiuto degli angloamericani di rinviare di qualche giorno, rispetto allo sbarco in terra italiana, l’annuncio dell’armistizio al fine di consentire al governo italiano di preparare le forze armate contro i tedeschi, si offrì, comunque, di effettuare da solo la difesa di Roma in attesa dell’arrivo delle truppe alleate, al fine di distogliere le forze militari tedesche dal respingimento di quelle alleate durante lo sbarco a Salerno. Il risultato fu che, grazie allo sforzo delle forze armate italiane, ai tedeschi fu impedito di occupare Roma e una consistente concentrazione delle loro truppe fu costretta a mantenersi al di fuori del perimetro della città, anziché essere dirottata verso il Golfo di Salerno. Tale importante contributo italiano
fu, peraltro, riconosciuto dal Primo Ministro inglese nel citato discorso del 21 settembre 1943, quale manifestazione di coraggio e buona fede da parte dello “sciagurato” governo italiano ancorché fosse afflitto da “insolubili problemi”.
[…] E’ noto che gli Alleati premevano affinché l’Italia dichiarasse guerra alla Germania ma il Re resistette. Il 23 settembre 1943, il generale MacFarlane presentò un documento del Comando Supremo Alleato che, in nome dei rispettivi governi, esortava l’Italia alla dichiarazione di guerra alla Germania e, in cambio, prometteva la concessione della “cobelligeranza” subito dopo la dichiarazione di guerra nonché l’appoggio al governo Badoglio e alla Monarchia sino alla fine delle ostilità, salvo il principio per cui il Sovrano, dopo la cacciata dei tedeschi, avrebbe dovuto consentire al popolo la libera scelta della forma istituzionale e Badoglio, dal canto suo, avrebbe dovuto costituire un governo
democratico a larga base, che includesse i rappresentanti di tutti i partiti antifascisti <58. Il Re però non cedette: Vittorio Emanuele III fu a lungo riluttante rispetto alla decisione di dichiarare ufficialmente guerra alla Germania per ragioni che, a tutt’oggi, è difficile conoscere e che, probabilmente, non si esaurivano nel timore che i tedeschi, occupando ancora la maggior parte dell’Italia, avrebbero perpetrato violente rappresaglie ai danni della popolazione civile <59 né in una spontanea ripugnanza ad attaccare l’ex alleato. A tal proposito, è stato ipotizzato <60 che la titubanza del Re nell’azione ufficiale contro la Germania fosse ascrivibile ai seguenti fattori: la formula della “cobelligeranza” quale promessa dagli Alleati all’Italia era vaga e assolutamente insoddisfacente rispetto allo status di “alleato”, quale invece auspicato dal Sovrano; la prospettiva della costituzione di un governo “a larga base” non piaceva al Re, come non gli era, e non poteva essergli, gradita l’imposizione di libere elezioni al paese; l’estensione del suo Regno era limitata a quattro piccole province (Bari, Brindisi, Lecce e Taranto, oltre la Sardegna) e non comprendeva, invece, l’Italia liberata né la Sicilia che erano ancora sottoposte all’autorità dell’AMG; il contributo delle forze armate italiane alla guerra era sottoposto a limiti e restrizioni non tollerabili che lo menomavano, compromettendo, così, la posizione dell’Italia a una futura conferenza di pace.
Tale ricostruzione riceve sicura conferma storica dalla corrispondenza tra Vittorio Emanuele III e Roosevelt e, in particolare, una missiva del 21 settembre 1943 che il Re indirizzò al Presidente degli Stati Uniti, avvalendosi dell’intercessione del generale Eisenhower, il quale l’allegò a un accurato Memorandum for President del 29 settembre 1943.
[NOTE]
58 Il documento è sintetizzato da P. Badoglio in L’Italia nella seconda guerra mondiale cit., pp. 134–135. Le ultime due condizioni sono riconducibili alla volontà di Roosevelt e, in particolare, l’ultima costituirà un leitmotiv della corrispondenza tra il Governo italiano e il Presidente americano, come si vedrà nel quarto capitolo.
59 Questa fu la ragione secondo la testimonianza di Badoglio. Si cfr. P. Badoglio, L’Italia nella seconda guerra mondiale cit., p. 134.
60 Sul punto, si veda l’egregia trattazione di K. Norman, L’Italia e gli Alleati cit., pp. 58-62.
Michaela Sapio, Op. cit.

Paradossalmente, furono dapprima alcuni studiosi stranieri che cominciarono a dar risalto a quanto i combattenti italiani avevano fatto (1); e (a parte i meritori contributi degli Uffici Storici delle Forze Armate) (2) si dovette addirittura attendere fino allo scorso anno perché uno storico professionista italiano colmasse alfine la lacuna in modo del tutto meritorio (3). Questi dovette però denunciare l’opera di quei suoi colleghi i quali avevano “preferito eliminare quegli oggetti che davano fastidio alle loro tesi, una vera e propria opera – cosciente o meno – di alterazione della realtà”, che fu “all’origine di una diffusa disinformazione” (4).
È a causa di tale falsificazione della storia che pochi si rendono conto ora di quale fosse l’entità della partecipazione militare italiana alla Guerra di Liberazione.
Ed anche qui a porle in luce nella loro drammatica interezza fu uno straniero, a suo tempo ufficiale di collegamento alleato con le unità italiane: Charles T. O’Reilly (5), il quale non a caso intitolò polemicamente la sua opera “Forgotten Battles”, “Battaglie dimenticate”.
Vediamo dunque queste cifre un po’ più da vicino. All’atto della Liberazione, i combattenti nelle unità italiane schierate sul fronte a fianco degli Alleati e inquadrate nell’Ottava Armata del Commonwealth erano 99.000; altri 196.000 facevano parte delle così dette “Divisioni Ausiliarie” sulle quali gravava praticamente l’intera attività logistica nella zona di combattimento e che operavano quasi costantemente sulla linea del fuoco o presso di essa; le forze di sicurezza, distribuite sia nelle immediate retrovie che nell’intera Penisola, contavano 66.000 uomini mentre complessivamente altri 100.000 servivano in tutte le formazioni e le attività della Marina e dell’Aeronautica.
In sostanza, alla cessazione delle ostilità, più del 400/0 delle truppe alleate in Italia erano composte da membri in uniforme delle Forze Armate italiane. Ad essi si devono tuttavia aggiungere i combattenti del Corpo Volontari della Libertà, vale a dire le forze partigiane che, al comando del generale Raffaele Cadorna, operavano dietro le linee nemiche.
All’indomani dell’8 settembre 1943 il legittimo governo italiano aveva invitato tutti i componenti le Forze armate rimasti isolati in terra occupata a darsi alla macchia e ad organizzare la resistenza armata; ed a questo appello migliaia di ufficiali, di sottufficiali e di soldati dell’Esercito, della Marina e dell’Aeronautica avevano risposto con tenacia e determinazione.
È ad essi che fu dovuta la nascita della lotta armata partigiana.
Nel complesso, oltre 200.000 erano stati, nei venti, terribili mesi di guerriglia i componenti di essa; e malgrado le gravissime perdite subite, i fucilati, i deportati nei campi di sterminio, all’atto della Liberazione ne rimanevano in campo ancora più di 70.000. Infine, occorre ancora aggiungere i militari partigiani all’estero (circa 60.000); e non vanno dimenticati quei 600.000 ufficiali, sottufficiali e soldati che, internati in Germania, sottoposti ad ogni sorta di vessazioni, ridotti alla fame, non si piegarono mai, non tradirono il giuramento prestato rifiutando la collaborazione con il nemico nazista (6).
Sempre al momento della Liberazione, a quella data del 2 maggio 1945 quando fu dichiarata ufficialmente la cessazione delle ostilità sul fronte italiano (7), il contributo di sangue dato dai nostri combattenti saliva ad oltre 170.000 caduti: 26.000 nelle unità operanti sul fronte, 70.000 tra i partigiani del Corpo Volontari della Libertà e dei partigiani all’estero (tra cui una maggioranza di membri delle Forze Armate); altri 80.000 circa morti di fame e di stenti nei campi di internamento e in quelli di sterminio piuttosto che piegarsi alle intimazioni del nemico.
Se si pensa che le truppe del Commonwealth britannico ebbero nella campagna d’Italia 45.000 caduti e gli americani ne ebbero 35.040, cioè in totale 80.040, risulta che il sacrificio di sangue italiano fu maggiore per lo meno del doppio.
(1) Cfr. ad es.: R. Lamb, War in Italy. A Brutal Story, London, Fullam, 1993.
(2) Cfr.: Commissione Italiana di Storia Militare, La partecipazione delle Forze Armate alla Guerra di Liberazione e di Resistenza, 8 settembre 1943-8 maggio 1945, Roma, 2003; id., L’Italia in Guerra: il Sesto alti/O, 1945, Roma, 1996.
(3) Carlo Vallauri, Soldati. Le Forze armate italiane dell’armistizio alla Liberazione, Torino, UTET, 2003.
(4) C. Vallauri, op. cit., p. XVI.
(5) Charles T. O’Reilly, Forgotten Battles. Italy’s War or Liberation, 1943-1945, Lanham, Maryland, US, Lexington Books, 2001.
(6) Raimondo Luraghi, “l soldati combattenti della Guerra di Liberazione”, in: Nuova Storia Contemporanea, a. VIII, n. 3, p. 155 sgg.
(7) Orlando di Collalto, 1945-1955. Un appello nel Cinquantenario della Liberazione, (stampato privatamente).
Raimondo Luraghi (Prof. Emerito dell’Università di Genova), Le Forze Armate italiane dalla Guerra di Liberazione alla Guerra Fredda in Le Forze Armate e la Nazione Italiana (1944-1989). Atti del Convegno di Studi tenuto a Bologna nei giorni 27- 28 ottobre 2004, CISM (Commissione Italiana di Storia Militare), Roma, 2004

La preparazione dei lanci di rifornimenti e di uomini, così come la preparazione di agenti di collegamento, rientrava nei compiti dei servizi segreti anglo-americani, ricchi di mezzi ma gelosi delle rispettive competenze e poco inclini a collaborare: la già citata Special Force inglese e l’OSS (Office of Strategie Services) statunitense. Oltre che a San Vito dei Normanni gli allievi paracadutisti erano addestrati in Algeria: lì formò la sua esperienza, tra gli altri, Edgardo Sogno, poi intrepido capo delle formazioni Franchi (di impronta liberale e monarchica), che sempre intrattenne ottimi rapporti con gli Alleati non solo per la sua moderazione ideologica, ma anche perché parlava perfettamente l’inglese. Sogno stesso ha raccontato come fosse stato accolto, al Club des Pins di Algeri (un villaggio balneare) dall’allora capitano di artiglieria Alberto Li Gobbi – anch’egli poi paracadutato sul nord – che gli mostrò le attrezzature e gli spiegò la tecnica dell’addestramento: questo durò una decina di giorni, con molta ginnastica e cinque lanci.
I rapporti di Cadorna con i vice comandanti Parri e Longo (in particolare con il secondo, sospettoso e, nonostante la linea ufficiale del suo Partito, deciso a mantenere al movimento partigiano una forte impronta di sinistra) non furono facili. Cadorna era visto insieme come un possibile restauratore dei classici princìpi gerarchici militari contro la spontaneità popolare delle bande, e come un interprete dei disegni strategici degli Alleati contro la volontà rivoluzionaria delle masse. Senza ammorbidimenti diplomatici, Longo scrisse che il generale era stato «inviato dagli Alleati nel Nord con il preciso compito di controllare e contenere il movimento partigiano». Sogno ha spiegato a Franco Fucci, autore di un libro (Spie per la libertà) sui servizi segreti nella Resistenza, come fosse difficile per Cadorna far valere le sue prerogative di comandante. «Ceixai – ha detto Sogno – di rafforzare il più possibile la posizione di Cadorna in seno al Comando generale del CVL fornendogli servizi quali i trasporti e i collegamenti, ma soprattutto facendo passare attraverso il generale e il suo staff militare le informazioni di cui venivo in possesso. Ciò perché ogni partito cercava di far passare le informazioni attraverso i propri canali e non attraverso Cadorna. Il PCI e il Partito d’azione per esempio mandavano il loro materiale al Sud scavalcando il comandante generale del CVL.»
E certo che Alexander, attenendosi del resto alle istruzioni di Churchill, preferiva destinare i suoi lanci alle «bande» non comuniste, e organizzare i contatti delle sue missioni segrete in modo da favorire il meno possibile quella parte della Resistenza che ostentava propositi non solo antimonarchici, ma antiborghesi, anticapitalisti, e – per quanto riguarda i comunisti – filosovietici. Tuttavia un foglio di istruzioni di cui Cadorna fu munito prima di raggiungere il Nord era abbastanza imparziale: «Purché ogni organizzazione in Alta Italia si dimostri capace e pronta ad effettuare operazioni offensive contro i tedeschi, il colore politico di tale organizzazione non ci interessa». Ma, aggiungeva il documento, «dove le tendenze politiche interferiscono con l’organizzazione e con i piani di operazione che formano una parte integrale della avanzata alleata in Italia, l’aiuto non verrà fornito da questo Quartier generale».
Le direttive di massima di Alexander erano poi tradotte in pratica in maniera farraginosa, a volte contraddittoria, dai servizi segreti. «Gli Alleati – ha rilevato Parri, e su questo non possiamo dargli torto – conoscevano poco l’Italia e noi, né erano sempre bene informati e quindi ben orientati.» La linea politica generale spettava agli inglesi, ma capitava che gli americani si intromettessero con il loro ottimismo schematico e impiccione aggravando la confusione e le incertezze. Il timore del comunismo influiva sul comportamento degli inglesi, e ciò che stava avvenendo nel quadro generale della guerra (e nella azione di Stalin) legittimava pienamente le loro diffidenze. Il sospetto – anch’esso rievocato da Parri – che i comunisti «avrebbero fatalmente assorbito e fagocitato le altre correnti, almeno sul piano militare» e che gli azionisti avrebbero potuto aderire a «un frontismo generico a direzione comunista» era avvalorato dai fatti. Cadorna e Sogno rappresentarono una qualche garanzia contro questo rischio.
Ancora da un ricordo di Parri – per concludere con questa sintesi della struttura partigiana – citiamo alcuni dati: con l’avvertenza che, nello schema da lui tracciato, comandi e reparti sembrano assai più organici, razionali e collegati al centro di quanto in concreto fossero. Mentre la fine della Germania si approssimava inesorabilmente, le «bande» acquistavano consistenza numerica e determinazione. Non divennero mai, né lo potevano in quelle condizioni, un vero esercito, o un vero controesercito.
Spiegò dunque Parri: «Dipendevano dal Comando generale i comandi regionali costituiti a Torino, Genova, Milano, Padova e Bologna e formati da un comandante militare, che fu spesso un valente generale, assistito da rappresentanti dei gruppi di formazioni… Si venne elaborando nel tempo un organico dell’esercito partigiano semplice ed uniforme: dall’unità elementare, che era la squadra, si saliva al distaccamento, forte di 3-5 squadre: 2-3 distaccamenti componevano generalmente un battaglione, 2-3 battaglioni si raggruppavano in una brigata che era la nostra unità tattica fondamentale, legata ad una determinata valle, della forza tipica di circa 300 uomini. Col tempo si formarono le divisioni che organizzarono militarmente o una grande valle o alcune valli collegate: ebbero forza assai variabile che passò, secondo le regioni, da cinquecento a cinquemila uomini… Ai reparti corrispondevano i gradi: per noi valeva soltanto la gerarchia partigiana; ed un ex cuoco od un sergente degli alpini potè comandare una divisione… Volemmo cioè, resistendo ad ogni sollecitazione e pressione in contrario, salvaguardare il carattere borghese del movimento». Dove il termine borghese significa, in realtà, carattere politico e non tecnico.
Indro Montanelli – Mario Cervi, Storia d’Italia. L’Italia della guerra civile. Dall’8 settembre 1943 al 9 maggio 1946, Rizzoli, 1983

Il 13 novembre 1944, il generale Alexander, comandante delle forze alleate sul fronte del Mediterraneo, impartisce le “Nuove istruzioni ai patrioti italiani”. Le operazioni militari su vasta scala devono essere sospese. Riprenderanno quando saranno superate le difficoltà, soprattutto di ordine logistico, che il sopraggiungere dell”inverno comporta.
La diffusione del proclama provoca reazioni contrastanti: stupore, disorientamento, rabbia <852. C’è il rischio di non riuscire a gestire le ripercussioni politiche e psicologiche che potrebbero allentare la tensione morale, fino a rinunciare a combattere in attesa di “tempi migliori” o, all’opposto, c’è il rischio di intraprendere iniziative tanto ardite quanto dannose e controproducenti.
Il 2 dicembre giunge la risposta da parte del comando generale partigiano che “interpreta” le direttive alleate e rilancia la parola d”ordine “La battaglia continua” <853. È un segnale di volontà e determinazione, nel momento di maggiore difficoltà per la resistenza italiana.
Negli ultimi mesi del 1944 si avverte una sensazione di crisi anche a Roma dove, dopo la liberazione, si è insediato il Governo Bonomi, espressione dei partiti del CLN. La crisi è profonda e si manifesta nei diversi settori della vita politica e sociale.
[NOTE]
852 “Il proclama è un madornale errore psicologico, esso fa precipitare le stanchezze, le ansie, i dubbi che il partigianato si porta dentro, accentua il vittimismo comunista giunto in alcuni dirigenti garibaldini a forme maniache. Si riascoltano le romanzesche supposizioni di diabolici intrighi. A prova del dolo, della volontà alleata di esporre a rischi mortali l’esercito partigiano, si dice: “Vedete, il proclama poteva essere comunicato ai reparti tramite il comando generale. Invece lo si è ripetuto alla radio per alcuni giorni per rendere edotti i nemici”. Ma la trasmissione per radio è una necessità, l’unico mezzo per far giungere subito e a tutti l’ordine; e non rivela al nemico cose che già non conosca”, Giorgio Bocca, Storia dell’Italia partigiana, cit., p. 444.
853 “La battaglia continua e deve continuare per gli eserciti alleati e anche per le forze partigiane. Le istruzioni di Alexander si sono proposte solamente, come del resto è stato precisato in successive dichiarazioni alla radio, di adeguare la lotta partigiana al ritmo delle operazioni militari alleate […]”, in ivi, p.445.
Antonio Gioia, Guerra, Fascismo, Resistenza. Avvenimenti e dibattito storiografico nei manuali di storia, Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Salerno, Anno Accademico 2010-2011

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