
La prima presenza dei Gruppi di Difesa della Donna all’interno del panorama della presenza femminile nella Resistenza è attestata già nel novembre del 1943. Il loro nome completo era “Gruppi di Difesa della Donna e per l’Assistenza ai Combattenti della Libertà” (spesso abbreviato in Gdd) e il loro manifesto costitutivo sarebbe poi diventato un punto di riferimento per ogni nuovo nucleo in formazione. La volontà era quella di creare le basi per un’organizzazione femminile di massa, raccogliendo così quello che era già stato un desiderio di azione spontaneo di molte donne, soprattutto nell’avvicinarsi al mondo partigiano dopo l’8 settembre all’interno di un gruppo organizzato. Non poteva esserci in quel momento alcuna azione di supporto o di collaborazione attiva con la resistenza che non necessitasse di un coordinamento efficace ed efficiente, in modo da poter consentire sostegno e continuità. In questo tempo di guerra le donne costituivano l’animo della vita civile ed era necessario che potessero disporre una struttura trasversale e di massa, che andasse al di là dei partiti politici e che riunisse in una solida alleanza tutte le energie antifasciste.
Per primi si crearono così i nuovi Gruppi tra le operaie nelle fabbriche (a Milano, Torino e Genova), che presero poi a diramarsi capillarmente fino a raggiungere anche le realtà più rurali, al punto che nel 1944 il Cln riconobbe questa come “organizzazione unitaria di massa che agisce secondo nel quadro delle proprie direttive” nonché “la sola organizzazione femminile nella lotta contro il nazi-fascismo” <27. Il primo congresso nazionale dell’Unione delle Donne Italiane si tenne nell’ottobre del 1945, e in quell’occasione Lucia Corti, nel suo rapporto, poté affermare che, alla vigilia dell’insurrezione, le attiviste dei Gruppi di Difesa nei territori occupati avevano raggiunto le 40 000 presenze, senza tener conto che “oltre alle organizzate altre migliaia si stringono attorno ai gruppi di difesa, prestano la loro opera, si preparano ad entrare con la propria volontà ed esperienza nella vita e nella lotta” <28.
Per quanto ormai sia assodato il carattere organizzato ed indispensabile della partecipazione alla politica e alla resistenza da parte delle donne, spesso questa viene ancora trattata come un fenomeno distaccato dal resto, privo di complessità e conflitti, anonimo, non previsto e non determinante, sebbene molto efficace dal punto di vista narrativo. La realtà è che i Gruppi di Difesa della Donna, come organizzazione integrata nel complesso movimento della Resistenza, stanno vivendo solo ora un rinnovato interesse, che potrebbe finalmente farli uscire dal buio a cui sono relegati insieme alla più generale, ma comunque estesa, rappresentazione della memoria femminile della guerra. Sono gruppi e organizzazioni, questi, che hanno raggiunto una complessa ed articolata realtà associativa, che raggiunse un’importante diffusione e che dovette misurarsi e trovare il proprio spazio all’interno del fronte antifascista, che presenta l’originalità di una proposta di massa e trasversale in un contesto sottoposto a regole cospirative. È proprio all’interno dei presupposti costruiti dalla rete femminile organizzata durante i mesi dell’occupazione nazista che si possono cogliere le basi della partecipazione politica e sociale del dopoguerra, e probabilmente anche i fondamenti della stessa proposta democratica.
A partire dal novembre del 1944, quindi, donne provenienti da regioni e da partiti politici diversi si riversarono in uno stesso movimento comune per dar vita “ad un’organizzazione intesa a promuovere e sviluppare il contributo della donna nella liberazione nazionale” <29.
“Nella denominazione di questo movimento “Gruppi di difesa della donna e per l’assistenza ai combattenti della libertà” si riassumono gli essenziali obiettivi immediati di esso: organizzare la donna per le conquiste dei propri diritti, come donna e come italiana, nel quadro della lotta che tutto il popolo conduce per la liberazione della patria” <30.
Le prime fasi embrionali di questi gruppi risalgono in realtà già al 1943, precisamente nella zona di Milano, per iniziativa di alcune dotte militanti nei partiti antifascisti, nonché firmatarie del primo manifesto programmatico. Questo manifesto, al fine di mantenere l’anonimato di queste donne per evidenti ragioni, non reca le reali firme del comitato fondatore, e per questo sulla sua formazione la storiografia diverge. Secondo alcuni si sarebbe trattato di Giovanna Barcellona, Giulietta Fibbi e Rina Picolato del Partito comunista, le socialiste Laura Conti e Lina Merlin, le azioniste Elena Dreher e Ada Gobetti. La testimonianza diretta di Lina Merlin riporta anche i nomi della democristiana Laura Bianchini e della liberale Collino Pansa, non riportando però la presenza di Fibbi, Barcellona, Conti e Dreher, che avrebbero però in seguito ricoperto ruoli fondamentali nei Gdd <31.
Il 28 novembre dello stesso 1944 il Pci diffondeva clandestinamente le proprie Direttive per il lavoro tra le masse femminili, in cui invitava tutte le donne ad aiutare attivamente la formazione ed il lavoro di questi Gruppi di Difesa della Donna. Il manifesto costitutivo dei Gruppi era anche stato allegato al programma d’azione del Partito Comunista “in difesa delle donne lavoratrici”, in cui si precisava che il Pci richiedeva alle sue militanti di far proprio quanto in esso scritto, precisando l’importanza dell’organizzazione e dell’insurrezione delle maestranze femminili nelle fabbriche. Diviene quindi questo il battesimo dei Gruppi <32, poiché segna il momento in cui il Pci inizia ad adoperarsi per garantirne la massima diffusione, ovvero a garantire la presenza del partito nella costituzione della nuova organizzazione.
La testimonianza fornita dal diario di Ada Gobetti, un’altra delle fondatrici dei Gruppi, è molto meno lineare, e risale al 27 novembre, quando Eugenio Libois (amico di vecchia data e rappresentante della DC nel Cln) le chiede personalmente di occuparsi di “un’organizzazione femminile, che [aveva] lo scopo di attivizzare le donne nella lotta clandestina <33. La proposta fu accolta con perplessità da Ada Gobetti, che si chiede quanto si possa ancora parlare di “questioni femminili” quando le questioni che riguardano le donne sono le stesse che riguardano gli uomini. Che ci sia stata quindi una reale riunione fondativa pare pertanto poco probabile, altrimenti la Gobetti lo avrebbe riportato nel suo diario, ma quello che è certo è che subito si mosse per prendere i contatti con donne provenienti da altri partiti politici antifascisti.
Ada Merlin, invece, riporta una testimonianza carica del fervore di chi è, sin dal principio, pienamente partecipe alla necessità di creare un’unione nazionale tra le donne “al di sopra di ogni credo politico e religioso” <34, la cui realizzazione in tempo di guerra poteva richiamare alcune esperienze di mutuo soccorso messe in opera clandestinamente durante il fascismo.
Probabilmente, già prima di questo cruciale ottobre – novembre, altri gruppi di antifasciste avevano cercato di dar voce alla loro necessità di un’organizzazione femminile, senza però ottenere risultati, che vennero poi raggiunti dai Gdd, che seppe coordinarsi e strutturarsi con efficienza e misurare la propria autonomia all’interno del fronte antifascista.
In seguito alla diffusione del manifesto si presenta la necessità di costituire dei gruppi territoriali, collegati al comitato centrale, e di prendere contatto con quante più donne possibile, al fine di coinvolgerle attivamente nell’attività politica. Come prevedibile, la prima zona di estensione del movimento fu quello delle relazioni sociali dirette, di conoscenza e fiducia, contando soprattutto sulla discrezione e la segretezza del movimento. Le attività che queste donne erano chiamate a svolgere erano diverse, tutte necessarie allo sforzo comune con le forze partigiane, ovvero “assistenza; corsi sanitari e organizzazione dei posti di pronto soccorso; raccolta del materiale sanitario, indumenti, generi alimentari, denari, cancelleria, ecc.” <35. inoltre, i gruppi si occupavano di assistere le famiglie dei partigiani e di inviare nelle formazioni nuovi volontari, partecipando anche attivamente ai Gap. Il giornale periodico “Noi Donne” era segnalato come foglio di riferimento dell’organizzazione, distribuito dalle stesse partecipanti. Inoltre, si dichiarava la partecipazione e manifestazioni e dimostrazioni in collaborazione con un’altra realtà politicamente trasversale della Resistenza antifascista, il Fronte della Gioventù <36.
Già nel primo manifesto costitutivo si sottolineava come le promotrici fossero mosse da una volontà di azione che affiancasse un duplice obiettivo, quello programmatico di collaborazione effettiva con la guerra partigiana, e quello più strettamente politico, di “mobilitazione di forze in tutti i ceti e strati sociali” e di “rivendicazioni propriamente femminili” <37; tra queste vi erano “il voto, la partecipazione politica e civile, l’equiparazione delle retribuzioni salariali per uguale lavoro dei confronti degli uomini” <38. Chiaramente, i due piani sono fortemente intrecciati, ed entrambi evidenziati dalle primissime comunicazioni: l’uno riguardante il rapporto con tutta la Resistenza organizzata, l’altro rivolto in senso più specifico verso la mobilitazione femminile, nelle sue rivendicazioni peculiari e nel suo percorso di emancipazione.
Milano si presenta quindi come il centro propulsivo del movimento nei primi mesi della sua costituzione. La base sociale era di matrice operaia, già legata ad una rete di contatti sorta in occasione degli scioperi della primavera del 1943 e mantenuta in vita dal Cln. Le prime a rispondere all’appello furono le città del triangolo industriale, grazie al lavoro delle attiviste impegnate dal primo momento a mettere in moto i loro contatti, formati soprattutto dalla massiccia presenza delle operaie delle fabbriche. Nella già citata riunione della segreteria provinciale milanese, tenutasi nel gennaio del 1944, si parlava di un rapido sviluppo dell’organizzazione e del raggiungimento delle duemila cinquecento iscritte, le quali, seppure registrate clandestinamente, erano tenute a versare una quota di sottoscrizione, che serviva anche a tenere la contabilità della crescita del movimento.
Una relazione del Comitato nazionale di pochi mesi successiva descriveva con evidente soddisfazione l’espansione del movimento, che da proposta sorta tra le fila del movimento antifascista milanese era diventato il riferimento per una fitta rete organizzata su un vasto territorio.
“I Gruppi sono sorti e si sono sviluppati, nei grandi come nei piccoli centri: a Milano solo nelle fabbriche possiamo contare con 25 gruppi circa 2000 aderenti, un uguale numero nei gruppi di Torino, a Genova vi sono più di 300 aderenti, parecchie centinaia di donne partecipano alla vita dei Gruppi, nell’Emilia e in Toscana, nelle Marche e in Veneto” <39.
Dunque, alla consistente presenza operaia a Milano e a Torino, seguiva quella della terza città industriale con qualche centinaio di iscritte, e la formazione di gruppi di attiviste in tutto il territorio occupato dai nazisti, fino a raggiungere la Toscana e le Marche. Tale relazione metteva in luce come, oltre alla rete organizzata delle aderenti, fosse presente una vasta base di contatto con donne che avevano avuto l’occasione di collaborare con i Gruppi o che si erano messe a loro disposizione. Il Comitato nazionale inoltre descrive come, accanto agli iniziali gruppi sorti nelle fabbriche, si fosse formata una partecipazione sociale più articolata e complessa, segnalando la creazione di “gruppi di contadine, di intellettuali, di massaie” <40 nonché “gruppi di ricamo, di cucito e di studio nelle case e nelle scuole” <41. L’azione era attentamente coordinata dai diversi comitati femminili, divisi gerarchicamente e territorialmente secondo le direttive indicate dal Comitato nazionale.
Pur supponendo una componente di esaltazione dell’attività svolta, poiché venivano redatte appositamente per essere mandate al Cln ed ottenere da questo supporto, non bisogna dimenticare che i Gruppi avevano sin dal principio tentato di mantenere una precisa contabilità delle iscrizioni e dei contatti attivi, necessaria ed inevitabile a causa delle esigenze di clandestinità. A livello locale venivano regolarmente compilati rapporti sul numero e sulle attività delle componenti, benché purtroppo non sia ad oggi possibile ricostruire precisamente un quadro complessivo su tutto il territorio. In un comunicato rivolto alla segreteria nazionale nell’estate del 1944 il “centro studi” dei Gruppi di Difesa in Piemonte proponeva infatti, data la rapida espansione del movimento, l’elaborazione di uno statuto nel quale figurasse la necessità di tenere in costante aggiornamento l’organizzazione centrale per quello che riguardava l’attività svolta e le persone coinvolte:
“Ogni GdD che si costituisce deve dare comunicazione della sua costituzione e composizione alla Segreteria Regionale che gli farà pervenire il riconoscimento. I singoli comitati di lavoro, i comitati provinciali, i vari GdD, sono tenuti a far pervenire una regolare e dettagliata relazione della loro attività alla Segreteria Regionale” <42.
A questa data, il Clnai aveva concesso ai Gruppi di Difesa della Donna il riconoscimento ufficiale, e aveva a sua volta rivolto un appello “a tutti i partiti che lo compongono di chiamare le proprie aderenti a collaborare e ad aderire ai Gruppi di Difesa della Donna” <43, permettendo al movimento di compiere un decisivo salto in avanti in quanto a presenza territoriale e ad efficacia operativa. I Gruppi, dal canto loro, si impegnano ad accogliere nelle loro file “tutte le donne italiane che partecipano alla guerra di liberazione” [44 e quindi a “collegare, convogliare coordinare tutte le iniziative femminili volte alla ricostruzione del paese, al risanamento sociale, all’affermazione della donna in campo politico, sociale, economico” <45.
Si stava proponendo così la necessità di costruire una organizzazione più strutturata, attivamente collegata al comitato centrale e al contempo più attenta rispetto alle esigenze cospirative. I comunicati interni affermavano l’inadeguatezza delle direzioni locali rispetto alle nuove dimensioni raggiunte dal movimento e quindi la necessità di elaborare una rete operativa più estesa e complessa, in modo da evitare che la responsabilità e il controllo dell’attività cadessero nelle mani di poche e solite persone. “Occorre rinforzare le nostre direzioni provinciali, i Comitati di zona e di settore includendo in essi quegli elementi che hanno dato buoni risultati nel dirigere il loro gruppo” <46, intimava il Comitato nazionale nell’agosto del 1944, sostenendo che “soltanto a condizione e nella misura in cui noi formeremo altri quadri dirigenti, il nostro movimento potrà continuare a progredire” <47.
Muovendosi verso un’organizzazione più razionale del lavoro, i Gruppi promossero il costituirsi di commissioni nei diversi ambiti di attività, che andavano dalla stampa alla propaganda, all’assistenza, all’organizzazione, al rapporto con le brigate partigiane, per arrivare ai gruppi di studio e di lavoro interni; le commissioni erano formate al massimo da tre o quattro persone , una delle quali avrebbe preso parte alla Segreteria provinciale, seguendo uno schema di organizzazione piramidale che portava al vertice del Comitato nazionale. Ad ogni livello, dunque, veniva scelta solo una persona che avrebbe avuto la responsabilità della relazione con il livello superiore, in modo da garantire la tutela della clandestinità; per la sua sopravvivenza era però necessario che questa rete si mantenesse in contatto con una partecipazione femminile orizzontale in ciascun territorio di azione, poiché proprio il rapporto con la base civile e con la collettività delle donne era il fondamento identitario del movimento. “Certo non si tratta di voler applicare in modo meccanico e formale questa spartizione di lavoro” proseguiva il medesimo comunicato, “senza tener conto della reale situazione esistente” <48:
“Se nei grandi centri, nelle provincie dove la nostra organizzazione è già forte questo si può fare subito, nelle provincie più deboli si deve procedere a seconda delle forze esistenti, ma orientare fin da ora ad organizzare il lavoro in questo senso” <49.
Risulta evidente come, a partire dall’estate del 1944, quando la guerra si spostava sempre di più verso nord e mentre stava crescendo sempre di più l’illusione di una rapida conclusione del conflitto (in seguito alla liberazione di Roma e Firenze), i Gruppi di Difesa della Donna abbiano progressivamente assunto il ruolo di entità di riferimento per il movimento di resistenza civile portato avanti dalle donne, rafforzando la propria estensione capillare sul territorio e sostituendosi al Clnai come interlocutore indispensabile.
Lontano dai grandi centri, nelle zone di campagna, iniziarono a prendere forma nuovi gruppi la cui base sociale era molto diversa da quella delle prime formazioni originarie: contadine, massaie, artigiane cominciarono a essere coinvolte in prima persona, giovani donne del tutto nuove alla politica si costituirono parte attiva del movimento arrivando presto anche ad assumere posizioni di responsabilità.
Per avere un’idea dell’estensione del movimento e di quanto questo ben presto superò le aspettative iniziali e le originali aree di influenza è utile leggere i bollettini relativi alla provincia di Milano:
Per dare un’idea del ritmo di sviluppo della nostra organizzazione, diamo i dati seguenti: in aprile, dopo quattro mesi di attività, i gruppi erano diciannove, con un centinaio di aderenti; nel luglio, tre mesi dopo, i gruppi erano saliti a trenta con trecento iscritte; il 28 agosto, un mese e mezzo dopo, i gruppi erano 60 con 900 iscritte. A queste cifre vanno aggiunti nuovi gruppi, già esistenti, coi quali non siamo ancora collegate […]. Crediamo di essere al di sotto della verità, calcolando 2500 iscritte e 7000 collegate <50.
Oltre a questa espansione del numero di iscritte e collegate, era segnalata a Milano una notevole vivacità della stampa e della propaganda, sempre interamente ideata, prodotta e diffusa clandestinamente dai Gruppi stessi:
“In questi mesi abbiamo fatto uscire il numero speciale di “Noi Donne” ciclostilato, dedicato alle Volontarie della libertà. Ragioni di ordine tecnico ci hanno impedito di farne uscire più di 500 copie. Il numero 4 di “Noi Donne” è stato tirato in 1200 copie. Il numero 5 ha avuto una tiratura di 6000 copie” <51.
All’estensione della base sociale corrispose una rinnovata capacità del movimento di ramificarsi nei territori, fino ad avere presenza operative quasi in ogni piccolo centro abitato. Alla vigilia dell’insurrezione, nel marzo del 1945, si segnalavano nella sola valle Pelice, in Piemonte, otto gruppi con rispettive segretarie, situati nei borghi principali della zona e facenti riferimento a una responsabile di vallata. Si riporta, inoltre, una collaborativa ed efficace collaborazione con il Fronte della Gioventù locale, la cui componente femminile manteneva stretta comunicazione con i Gruppi di Difesa <52.
Non bisogna fare però l’errore di considerare il radicamento dei GdD come della medesima entità su tutto il territorio. È più verosimile immaginare una distribuzione territoriale determinata variamente dalla rete di conoscenza diretta, dall’impegno di un partito ben collegato nella zona, dalle esigenze della guerra partigiana in corso. Le zone considerate strategiche o sensibili, non appena giungeva la notizia di agitazioni o di terreno fertile per il movimento, erano subito oggetto di interesse per i Gruppi, che vi inviavano una militante a prendere contatti e a valutare l’opportunità di costituire un nuovo nucleo. Talvolta erano invece le segreterie regionali a segnalare l’esistenza di Gruppi di cui non erano ancora venute a conoscenza, con i quali si cercava di entrare in contatto in modo da avere un maggior controllo sull’attività complessiva del movimento. Anche per queste ragioni possiamo definire i Gruppi di Difesa della Donna una realtà ibrida, data appunto la differenziata e spesso spontanea genesi dell’organizzazione centrale, e la conseguente opportunità di una rete di supporto la cui complessità organizzativa variava a seconda dell’evoluzione del movimento nei singoli centri.
Inevitabile fu per il movimento il confronto con le diverse identità politiche che ne costituivano l’ossatura, oltre che con l’estremamente varia componente sociale al suo interno. Si presentava però con maggiore urgenza il problema del rapporto tra la militanza nelle formazioni femminili dei partiti antifascisti e la partecipazione ai Gruppi di Difesa, che doveva per forza di cose essere trasversale e aspirare a un coinvolgimento di massa.
[NOTE]
27 Il Comitato Nazionale dei “Gruppi di Difesa della Donna e per l’Assistenza ai Combattenti della Libertà” alle direzioni provinciali, 25 agosto 1944; in Archivio Fondazione Gramsci Emilia Romagna (Iger), Fondo Triumvirato Insurrezionale Emilia Romagna, sezione Direttive, busta 1, fascicolo 9.
28 Rapporto di Lucia Corti al I Congresso nazionale dell’Udi, 20 settembre 1945; Archivio generale Unione Donne in Italia, busta 1, fascicolo 149.
29 Il Comitato Nazionale dei Gruppi di Difesa della Donna al Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia, 18 giugno 1944; in Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia (Ismil), fondo Clnai, busta 14, fascicolo 37.
30 Ibid.
31 Lina Merlin, La mia vita, Firenze, Giunti, 1989.
32 Secondo Anna Rossi Doria la diffusione delle direttive del Pci sarebbe da considerare come il vero atto di fondazione dei Gruppi di Difesa della Donna: si veda Rossi Doria, Dare forma al silenzio
33 Ada Gobetti, Diario partigiano, Torino Einaudi, 1972.
34 “questa frase, divenuta poi un luogo comune, fu il mio primo messaggio alle donne italiane e non so quale fine abbia fatto. Ne avevo proposto anche la presidente, la vedova di Cesare Battisti, che aveva accettato la mia richiesta, ma la sua lettera di adesione sparì”. Merlin, La mia vita.
35 Anna Rossi Doria, Dare forma al silenzio
36 Il Fronte della Gioventù fu una realtà attiva principalmente nella vita civile e capace di riunire giovani e studenti antifascisti in nome della collaborazione con le forze partigiane. Pur avendo avuto una scarsa eco negli studi dedicati alla resistenza, si trattò dell’unica organizzazione di carattere anagrafico e sociale e non partitica (almeno nelle intenzioni iniziali). Inoltre, fu l’unica ad essere attiva nella Resistenza che comprendesse sin dalla genesi una piena partecipazione di uomini e donne nel medesimo ambito. Si veda Primo de Lazzari, Storia del Fronte della Gioventù nella Resistenza, 1943-45, Milano, Mursia, 1996.
37 Riunione della Segreteria provinciale dei Gruppi di Difesa della Donna, Milano, 1 gennaio 1944; in Archivio Centrale Udi, busta 1, fascicolo 2.
38 Ibid.
39 Il Comitato nazionale dei Gruppi di Difesa della Donna al Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia, 18 giugno 1944; in Ismli, Fondo Clnai, busta 14, fascicolo 37.
40 Ibid.
41 Ibid.
42 Statuto dei Gruppi di Difesa della Donna, il Centro Studi dei Gruppi di Difesa della Donna alla Segreteria Regionale [circa agosto 1944]; in Istituto piemontese per la Storia della Resistenza e dell’Età Contemporanea “Giorgio Agosti” (Istoreto), Fondo Anna Marullo, busta A. Ma. 1, fascicolo 5.
43 Ibid.
44 Ibid.
45 Ibid.
46 Il Comitato Nazionale dei “Gruppi di Difesa della Donna e per l’assistenza ai Combattenti della Libertà” alle direzioni provinciali, 25 agosto 1944; in Iger, Fondo Triumvirato Insurrezionale Emilia Romagna, sezione Direttive, busta 1, fascicolo 9.
47 Ibid.
48 Ibid.
49 Ibid.
50 Relazione del Comitato provinciale dei Gruppi di Difesa della Donna di Milano, diretta al Comitato Nazionale, 5 novembre 1944, in Insmli, Fondo Spetrino, busta 1, fascicolo 5.
51 Ibid.
52 I borghi citati sono: Bobbio, Rorà, Angrogna, Torre Pellice, Luserna san Giovanni, Bibiena, Bricherasio. L’incaricata responsabile per la valle Pelice era Anna Marullo, nome di partigiana Sofia, militante nel Movimento femminile di Giustizia e Libertà. Attività svolta dai Gruppi di Difesa della Donna e dai Gruppi femminili di Giustizia e Libertà, Firmata da Anna Marullo, Torre Pelice, 3 maggio 1945; in Istoreto, Fondo Anna Marullo, busta A. Ma. 1, fascicolo 5
Giulia Arnaldi, Partigiane tra guerra e dopoguerra: donne e politica in Veneto, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Padova, Anno Accademico 2021/2022