
A differenza di quanto avvenne durante e dopo la Grande Guerra, in questo secondo conflitto le donne non occuparono solamente i posti dei mariti, dei padri e dei figli chiamati al fronte, ma si coalizzarono per rendersi parte attiva dei combattimenti, anche se poi furono pochi gli uomini riconoscenti. Pur scegliendo schieramenti opposti, sia le partigiane che le fasciste di Salò ebbero in comune la volontà di onorare la patria e liberarla dal nemico, sentendosi ugualmente tradite: le prime dal regime e dal Re, le seconde da quegli italiani che abbandonarono il Duce e la patria nelle mani degli stranieri. Come al risveglio da un sonno profondo, la gran parte delle italiane si era chiesta se era valsa veramente la pena di sottostare al Fascismo e se realmente il Duce aveva reso l’Italia la grande potenza che prometteva. Almeno stando all’esito della guerra, evidentemente no.
Per rispondere invece alle domande poste all’inizio dell’elaborato, e constatare se le politiche fasciste adottate nei confronti della popolazione femminile avessero avuto il successo sperato, anche qui in base a quello spiegato nella tesi i risultati sono dubbi. Ad esempio per quanto riguarda la campagna natalista scatenata da Mussolini i dati riportati nel secondo capitolo ne dimostrano infatti l’insuccesso, poiché ebbe seguito solamente tra alcune donne e finì, al contrario, per incrementare gli aborti e gli abbandoni dei neonati. Il Duce esaltava le prolifiche, non perché le stimasse realmente, ma per cercare di coinvolgere la totalità delle italiane, pur riconoscendo che nonostante i premi e gli elogi non riuscì nel suo intento. Amareggiato, cercò altre soluzioni per costringerle ad assecondarlo e si concentrò dunque sul lavoro, ostacolandole con continui emendamenti: ma se le lavoratrici erano la causa dell’infecondità dell’Italia e peggio ancora della disoccupazione maschile, come mai nonostante il loro allontanamento forzato, la prima continuò a diminuire e la seconda ad aumentare? Un’altra dimostrazione che il problema non erano le donne in quanto tali ma i progressivi cambiamenti che la modernità portava con sé, contro cui nemmeno il Duce poté fare qualcosa.
Tuttavia facendo due calcoli molte delle donne affermate nel mondo del lavoro in pieno Ventennio erano già abbastanza mature, cresciute in un contesto e con un’educazione non propriamente fascista. Allora Mussolini dovette puntare sulle altre, le bambine e le adolescenti, influenzando la loro mentalità sin dall’infanzia. Dunque se per le prime usò la forza e le obbligò a piegarsi, per le seconde sfruttò il condizionamento imposto dalla società che lui stesso aveva creato: le rese concretamente partecipi della comunità per la prima volta nella storia italiana, attraverso le organizzazioni, le manifestazioni e le adunate fasciste, sempre però rimarcando la differenza con i ragazzi. Ecco perché, come spiegato nella tesi, molte si lasciarono coinvolgere e ricordano quel periodo di giovinezza senza rancore, quando finalmente si sentirono anche loro, in quanto donne, parte del sistema, sfruttando l’occasione per fuggire dal controllo ossessivo delle famiglie e ritrovarsi in compagnia. Ed ecco come spiegare il perché del consenso femminile al Duce che, pur sottolineando nei suoi discorsi aulici la soggezione delle donne in quanto esseri inferiori, fu capace di dare loro ugualmente l’impressione di essere protagoniste insieme agli uomini. Si capisce perché, quindi, alcune risposero all’appello degli ultimi fascisti i quali accusarono di tradimento quegli uomini vigliacchi ed esaltarono le donne che invece scesero in piazza per onorare la patria, come si legge in un articolo de La Stampa di Torino nel gennaio 1944. <88
Seguirono perciò il progetto fascista fino alla fine, e dalle scarse testimonianze delle fasciste di Salò si percepisce l’amarezza per quel fallimento, causato secondo loro dal tradimento della popolazione stessa: non si sa con certezza cosa conoscevano all’epoca delle violenze inaudite dei “repubblichini”, delle stragi compiute in Italia dai nazisti, delle deportazioni, probabilmente molto poco, chiuse com’erano in quella piccola realtà ricostruita sul lago di Garda; quello che però risulta incomprensibile è come sia possibile che una volta denunciate tutte le atrocità a guerra finita, la maggior parte delle ex Ausiliarie giustificarono quelle brutalità, anzi le negarono fermamente, arrivando a negare addirittura l’olocausto. Riassumendo, quindi è improprio parlare di un peggioramento della condizione femminile durante il Fascismo, o meglio, se è evidente agli occhi di chi studia oggi quella storia, soprattutto per le donne emancipate e affermate nella modernità del ventunesimo secolo, non lo era altrettanto per molte delle italiane vissute in quegl’anni, in particolare per quelle di cui si è parlato nel quarto capitolo. La loro percezione della realtà infatti fu vincolata dal contesto in cui vissero, e nella totale assenza di qualsiasi accenno al femminismo, non potevano certo pretendere la parità di genere se non ne avevano mai sentito parlare; mentre quelle che erano nate prima dell’avvento del Fascismo avevano ricevuto ugualmente indifferenza e disinteresse da parte dei governi liberali e solo le poche più istruite e indipendenti si preoccuparono delle lotte femministe. E la situazione non cambiò molto nel secondo dopoguerra.
Infatti, come detto precedentemente, specialmente tra gli uomini della Resistenza (di cui fecero parte 70000 donne) che dovevano molto alle partigiane, non ci fu la giusta gratitudine, ma anzi riemerse quella mentalità finta perbenista nei confronti delle italiane. È vero che, finalmente, le donne votarono al referendum istituzionale nel 1946, ed esercitarono il diritto di voto il 18 aprile 1948 per la prima volta in delle elezioni politiche. Il risultato delle elezioni decretò vincitori gli uomini della Democrazia Cristiana deludendo le forze di sinistra che, invece di riflettere sugli errori commessi e sulla loro unione fallimentare, diedero la colpa alle italiane, rimpiangendo il fatto di aver concesso loro il diritto di votare. Effettivamente la maggior parte di esse furono ancora una volta condizionate nella loro scelta: le dichiarazioni della Chiesa e dei politici della DC contro l’avanzata dei rossi le influenzarono a tal punto da votare in massa contro la sinistra. In alcuni libri di storia addirittura si parla di “totalitarismo” della DC e la situazione delle italiane effettivamente non subì quel cambiamento sperato, ma rimasero fortemente vincolate dalle decisioni degli uomini. Eppure cominciavano a rifiorire i gruppi femministi, le donne più consapevoli e con una concreta coscienza politica ripresero a combattere per vecchi e nuovi diritti e, quando l’ondata femminista negli anni Settanta invase anche l’Italia, ottennero i primi successi, che iniziarono a incrinare il potere, fino ad allora, incontrastato della Dc: nel 1974 il referendum sul divorzio per abrogare la legge Fortuna-Baslini decretò la vittoria dei NO, il primo dei futuri traguardi che diedero inizio all’indipendenza e alla libertà di scelta anche per il gentil sesso.
Concludere con queste parole scritte dalla Macciocchi è un chiaro messaggio e un esempio calzante che sintetizza il pensiero e lo svolgimento che sta dietro alla stesura di questa tesi:
“Sono le donne che fanno la storia. Perché le prese di posizione della donna toccano il funzionamento stesso della specie. Perché le donne sono sempre nel punto più sensibile del tessuto sociale politico. E svelano meglio di tutte (si dice, volgarmente, intuizione femminile) il fronte su cui la società è impegnata/battuta/vittoriosa: le poste ideologiche e politiche si trovano, quasi sempre, là dove sono le donne, dalla parte delle donne. “I’ son Beatrice che ti faccio andare,” voleva dire esattamente questo. Capirlo: vuol dire farla finita per sempre, almeno un giorno, con il fascismo.” <89
[NOTE]
88 Marina Addis Saba, La scelta. Ragazze partigiane, ragazze di Salò, Editori Riuniti, Roma, 2005, p. 162.
89 Maria Antonietta Macciocchi, La donna nera, Feltrinelli, Milano, 1976, p. 22.
Giorgia Malara, “CREDERE, OBBEDIRE… NON COMBATTERE” LA CONDIZIONE FEMMINILE DURANTE IL FASCISMO, Tesi di Laurea, Università LUISS Guido Carli, Anno Accademico 2013/2014
Insomma, a partire dagli anni trenta il Pnf, con il suo obiettivo di “mettere in divisa fascista l’intera nazione” <81, soppresse le associazioni e i giornali femminili e procedette alla costituzione di un sistema in grado di “isolare l’azione pubblica della donna e […] restringerla in attività organizzative, ma preordinate, assistenziali, ma esecutive, anche culturali, ma conformiste e del tutto marginali” <82. Il dato numerico è sconcertante (alla vigilia della seconda guerra mondiale le iscritte a una organizzazione fascista erano 3.280.000) <83 e frutto di una mobilitazione femminile costruita dal Pnf a partire dal 1930 che seguì diverse fasi a seconda della necessità propagandistica contingente entro cui occorreva incanalare questa mobilitazione.
Il primo vero appello fu lanciato all’inizio della depressione, quando le volontarie fasciste furono chiamate ad “andare verso il popolo” prestando la propria opera in attività assistenziali ai poveri, a dimostrazione del “buon cuore” del regime. Un lavoro straordinario che le volontarie affrontarono impegnandosi assiduamente nella gestione di mense o nella distribuzione di beni cibo al domicilio dei poveri, ma anche nell’organizzazione di corsi (di cucito, economia domestica) e centri di informazioni per contadine e domestiche, e molto altro, facendo spesso ricorso alle sole entrate finanziarie che derivavano da lotterie, pesche di beneficenza e donazioni da loro organizzate. Il secondo appello risale ai tempi della guerra d’Etiopia (1935), quando i Fasci femminili furono chiamati a uno sforzo propagandistico ulteriore: dovevano mobilitare le donne nella campagna autarchica avviata in seguito alle “inique sanzioni” imposte dalla Società delle Nazioni e spronarle al sostegno della guerra imperialistica. La “giornata della fede”, oggetto dello studio di Petra Terhoeven pubblicato nel 2003 <84, rappresenta il caso più eclatante di questa pagina di consenso al regime, che portò decine di migliaia di donne italiane a donare la propria fede nuziale allo Stato – sull’esempio della regina Elena, di Rachele ed Edda Mussolini -, oltre che, “nel quadro della mobilitazione psicologica della società,
una illustrazione simbolica delle richieste che la nazione in guerra avrebbe posto alle donne, complementari a ciò che chiedeva alla parte maschile della popolazione” <85. E di lì a poco le donne se ne sarebbero accorte; le pretese del regime – dalla fede, ai figli, alle stoviglie – sarebbero diventate troppe e insopportabili, al punto da minare definitivamente, e forse per primo, il consenso femminile.
Il terzo e ultimo appello doveva preparare e predisporre le donne alla guerra, per questo il Partito nazionale fascista affidò ai Fasci Femminili il compito di divulgare e coordinare delle “iniziative di resistenza alle sanzioni, da esplicare attraverso conversazioni e incontri con le donne di ogni ceto e categoria”, cioè sfruttando “le reti di contatti e di aiuto reciproco del mondo femminile” <86. In questa fase le volontarie videro moltiplicarsi e intensificarsi i loro compiti. Fu persino istituita la nuova figura, la prima stipendiata, della “ispettrice nazionale” che, scelta fra le volontarie con più anzianità e considerate più affidabili, doveva garantire la traduzione della politica centrale
a livello locale. Inizialmente prive di qualsiasi importanza politica, nel 1940 queste fiduciarie furono ammesse all’interno delle direzioni provinciali del Partito e dei comitati “corporativi” provinciali. Inoltre, sempre in questo periodo, i Fasci femminili ottennero il proprio comitato centrale. Ma si trattò in realtà di conquiste dall’alto valore simbolico più che reale; le vicende della guerra vanificarono qualsiasi processo di inclusione delle fiduciarie e i Fasci femminili, pur dotati di comitati, rimasero sostanzialmente subordinati alla gerarchia del partito, mentre “l’unico ambito in cui le donne fasciste ebbero mai la possibilità di esercitare un potere reale fu su altre donne, più povere, beneficiarie dell’assistenza erogata dal partito” <87.
La “politica sessuale” del fascismo, insomma, se da una parte accese nelle donne l’idea che il fascismo potesse offrire loro uno spazio e un ruolo pubblico equiparabile a quello che avevano gli uomini, grazie all’importanza che il partito attribuì alla partecipazione femminile nella vita sociale e politica del paese, dall’altra, relegando questa partecipazione a funzioni specifiche (educazione e assistenza in primis), secondo il principio che queste fossero le funzioni “naturalmente” femminili che dalla famiglia dovevano estendersi alla società per il bene della nazione, insisteva su una distinzione di genere di carattere gerarchico che assegnava un ruolo subalterno delle donne tradendo le stesse aspettative delle donne che si erano avvicinate. Le conflittualità che abbiamo visto emergere nella realizzazione di ogni aspetto della “politica sessuale” del fascismo implosero alla fine degli anni trenta. Un’indagine del 1937 condotta presso alcune scuole professionali e istituti magistrali di Roma mostra il fallimento della battaglia demografica (il 27% delle intervistate definiva repellente il lavoro domestico e solo circa il 10% mostrava interesse per questa mansione) e l’aspirazione a stili di vita molto diversi da quelli proposti dal regime e dalla chiesa. Dal 1939, poi, il tesseramento per lo zucchero e per il caffè e dal ’41 quello del pane eliminarono qualsiasi illusione tra coloro che speravano in un’economia di regime volta al benessere dei cittadini, mentre il progressivo avvicinamento alla Germania cancellava qualsiasi ambiguità che fino ad allora aveva garantito il sostegno di parte dell’opinione collettiva.
Così la resistenza delle donne a conformarsi alle norme imposte dal regime, insieme alla diffusione del modello di una “donna nuova”, sono la manifestazione più evidente del fallimento del controllo dei processi sociali esercitato dal fascismo. <88
Questo però non significa che le donne non siano state attraversate rovinosamente della politica del regime. Oltre al sacrificio fisico e psicologico imposto dalla sua “politica sessuale”, come abbiamo visto particolarmente incisiva tra le fasce sociali meno abbienti, il fascismo determinò l’oblio di qualsiasi battaglia femminista, quella per il diritto di voto in primis, attraverso un aggravamento dell’esclusione delle donne dalla sfera politica sulla base del principio secondo cui i compiti “materni” sarebbero inconciliabili con le “vere” capacità. Conseguenze principali di tale oblio furono un ulteriore allontanamento delle donne dalla sfera politica come campo di autodeterminazione e l’aggravamento della difficoltà congenita al movimento femminista di trasmettere la propria eredità intellettuale da una generazione all’altra. Tutto questo risulta particolarmente evidente se si osserva l’iter che portò in Italia al riconoscimento del diritto di voto alle donne. Il suffragio femminile – sancito dal decreto “De Gasperi‑Togliatti”, <89 dal nome dei due ministri che con più nettezza si erano espressi a favore del voto alle donne nel periodo precedente – colse di sorpresa le donne, mostrandosi “sul momento – scrive Anna Rossi‑Doria – una sorta di ovvio corollario della nuova democrazia” <90. L’iniziativa del voto alle donne fu presa sin dall’estate del 1944 da due dei tre partiti di massa – Dc e Pci – in seguito alle pressioni del Cln (Comitato liberazione nazionale), all’imminenza delle prime convocazioni amministrative del dopoguerra e solo in parte e con molti limiti alla campagna pro voto condotta dalle
associazioni femminili <91. Nell’autunno di quell’anno nacquero quasi contemporaneamente Udi (Unione donne italiane) e Cif (Centro italiano femminile), “veri e propri organi del collateralismo – scrive ancora Anna Rossi‑Doria -, rispettivamente del Pci e dell’Azione cattolica, nell’ambito di un’elaborazione strategica avviata in entrambi i casi fin dal 1943, in vista della sfida decisiva rappresentata dal futuro elettorato femminile” <92. Subito dopo la guerra questi due organismi, profondamente differenti tra loro, coordinano la grande mobilitazione femminile di assistenza alla popolazione proprio mentre il Consiglio dei ministri, dopo un brevissimo dibattito, decide di approvare il decreto che ammetteva le donne al suffragio. La rapidità con cui venne presa questa decisione, lo scarso rilievo che ebbe sulla stampa nazionale e lo stupore con cui fu accolta dal nuovo elettorato mostrano la sostanziale estraneità delle donne del dopoguerra alla vita politica attiva, mentre continuavano a proporre una partecipazione politica “nella forma della gestione diretta dei settori di loro specifico interesse” <93. È vero che varie associazioni femminili (Udi, Alleanza femminile pro suffragio e Fildis) chiesero il diritto di voto, costituendo il 25 ottobre 1944 il “Comitato pro‑voto”, ma la sua azione non fu decisiva – il Comitato ebbe vita brevissima (appena tre mesi) e agì quando i partiti avevano deciso per il suffragio femminile – quanto semmai per il senso che riuscirono a dare a questa battaglia e al nuovo diritto. Per la prima volta, cioè, erano le donne dei partiti a gestire in modo diretto una battaglia politica per i diritti delle donne e lo fecero – questo è forse il dato più rilevante – rappresentando il voto non più come un “dovere collettivo” bensì come un “diritto individuale di ognuna di loro” <94. Un valore altissimo, che tuttavia fu simbolico più che reale e che aveva come controparte un moltitudine di donne entusiasta ma stupita, piuttosto che consapevole, di fronte al nuovo diritto di cittadine.
[NOTE]
81 WILLSON, P. Italiane, cit., p. 161.
82 VACCARI, Ilva La donna nel Ventennio fascista (1919‑1943), Milano, Vangelista,
1978, p. 116.
83 DE GRAZIA, V. Il patriarcato fascista, cit., p. 167.
84 TERHOEVEN, Petra Oro alla patria: donne, guerra e propaganda nella giornata della Fede fascista, Bologna, Il Mulino, 2006 [ed. or. Liebespfand fürs Vaterland. Krieg, Geschlecht und faschistische Nation in der italienischen Gold‑und Eheringsammlung 1935/36, Tübingen, Max Niemeyer Verlag, 2003].
85 Ivi, p. 235.
86 WANROOIJ, Bruno. “Mobilitazione, modernizzazione, tradizione”, in: SABBATUCCI, Giovanni; VIDOTTO, Vittorio (a cura di). Storia d’Italia. 4: Guerra e Fascismo, Laterza, Roma‑Bari, 1997, p. 404.
87 WILSON, P. Italiane, cit., pp. 158‑159.
88 WANROOIJ, B., Mobilitazione, modernizzazione, tradizione, cit., pp. 430‑435.
89 Il Decreto Legislativo luogotenenziale n. 23 del 2 febbraio 1945, Estensione alle donne del diritto di voto, concesse il diritto di voto alle donne che avessero compiuto 21 anni al 31 dicembre 1944, mentre il diritto di eleggibilità arrivò solo con il Decreto Legislativo luogotenenziale n. 74 del 10 marzo 1946, Norme per l’elezione dei deputati all’Assemblea costituente. Le donne, dunque, partecipano per la prima volta all’esercizio del diritto di voto e di eleggibilità nelle elezioni amministrative della primavera 1946, quindi alle politiche del 2 giugno 1946.
90 ROSSI‑DORIA, Anna Le donne sulla scena politica italiana agli inizi della Repubblica, in: Ead., Dare forma al silenzio. Scritti di storia politica delle donne, Roma, Viella, 2007, [1° ed. pubblicata con il titolo Le donne sulla scena politica, in Storia dell’Italia repubblicana. Vol. I. La costruzione della democrazia, Einaudi, Torino, 1994, pp. 779‑846], p. 167.
91 Ivi, p. 168.
92 Ivi, p. 147.
93 Ivi, p. 166.
94 Ivi, p. 180.
Elena Bignami, La donna nella propaganda fascista (1919‑1943), Università di Coimbra, 2021
La concezione fascista della donna risente, dalle origini al suo tramonto, delle sue due componenti fondamentali, quella nazionalista-conservatrice e quella movimentista-vitalistica. Da queste due anime scaturisce un ideale della femminilità che non è monolitico, ma ambivalente e può essere definito nel trinomio “madre-sposa-cittadina”. A questo proposito Victoria De Grazia ha parlato di bifrontismo, sostenendo che le donne durante il Ventennio si trovarono costantemente in bilico tra due poli:
come riproduttrici della razza, le donne dovevano incarnare i ruoli tradizionali, essere stoiche, silenziose, e sempre disponibili; come cittadine e patriote, dovevano essere moderne, cioè combattive, presenti sulla scena pubblica e pronte alla chiamata <59.
Se infatti per il regime fascista la donna rimane fondamentalmente “sposa e madre esemplare”, in linea soprattutto con la politica demografica del ventennio, a partire dagli anni Trenta, nel periodo sanzionista e nell’imminenza della costruzione dell’impero, viene esaltato maggiormente il ruolo della “cittadina”, una donna che partecipa attivamente alla vita della nazione e che si ispira alla figura della domina romana, punto di riferimento saldo e sicuro della famiglia, ma piena di energia e d’orgoglio per la Patria <60.
Nel quadro della realizzazione della Nazione militare, anche per le donne si prospettano quindi interventi più attivi e partecipati: Mussolini sottolinea il compito della donna nel contesto di una mobilitazione civile, quello cioè di educatrice e di dispensatrice di principi etico – formativi del cittadino-soldato, e affida per la prima volta ai Fasci Femminili un uso più esteso dei mezzi di propaganda, tramite i Comitati per l’organizzazione della resistenza interna. Alcune voci prendono posizione a favore di un’educazione militare da impartire alle donne, come per esempio quella di Wanda Gorjux, secondo la quale alla giovane italiana doveva essere elargita una educazione militare, cioè un’educazione che le consent[isse] di prendere il suo posto attivo, di adempiere il suo compito, di assolvere la propria funzione in una nazione militarizzata <61.
Un’educazione militare pertanto si realizza sia nei corsi organizzati dall’Unpa, per la difesa antiaerea, ma soprattutto durante i corsi per la preparazione delle donne alla vita coloniale, in cui vengono addestrate per la prima volta anche all’uso delle armi per scopo difensivo <62.
È però soprattutto a partire dall’entrata in guerra, quando l’intera popolazione viene chiamata a stringersi “totalitariamente” compatta intorno al partito-regime, che inizia ad essere valorizzato il contributo femminile alla vita della nazione in armi <63. Mussolini è infatti consapevole che la mobilitazione delle donne costituisce una risorsa cospicua su cui poter contare e, in un discorso del 2 dicembre 1942, in una riunione plenaria delle commissioni legislative della Camera dei fasci e delle corporazioni, definisce le donne “la grande, inesauribile riserva vitale e morale della Nazione”64. Viene però ribadito che la mobilitazione femminile, in questa fase della guerra, risulta prettamente una mobilitazione civile: i settori in cui le donne vengono maggiormente impiegate sono infatti quelli dell’assistenza, per un presunto atavico codice muliebre che porterebbe le donne a dedicarsi alle opere solidaristico-umanitarie, e quello della propaganda.
Non emergono infatti nella pubblicistica fascista le voci, certo isolate, di donne che chiedono di prendere parte più attiva e armata a fianco dei soldati <65, come per esempio quella di Fanny Dini, aviatrice e paracadutista, che chiede ripetutamente a Mussolini di essere impiegata in operazioni belliche, come scrive per esempio in due lettere:
“[…] una donna potrebbe rendere servigi assai più importanti di un uomo, in quanto sfuggirebbe all’attenzione del nemico. […] Compiti di guerra e di pace, le missioni più rischiose, gli incarichi più delicati, tutto sarà compiuto secondo i vostri ordini. Ho una salute ottima, so adoperare un’arma, so sopportare senza danni disagi e privazioni, posso fare tutto quello che volete. La gioia suprema sarebbe quella di dare la mia vita per la Vostra Vittoria, ma se il privilegio non mi sarà riserbato, lasciate che almeno lavori per la Vostra Vittoria” <66.
Le fonti ufficiali e la stampa riconoscono invece alle donne la sola potenzialità di infondere incoraggiamento o scoramento: esse sono considerate le responsabili del morale dei combattenti e del fronte interno, che doveva essere mantenuto “alla temperatura più idonea per infiammare e sorreggere il fronte di combattimento” <67.
In una sorta di memorandum anche il partito evidenziava l’importanza dell’opera propagandistica delle donne, sottolineando il loro fondamentale ruolo, “sia perché in tempo di guerra la massa lavoratrice è prevalentemente femminile, sia per la forza di persuasione che dalla donna si propaga all’ambiente che la circonda”. Venivano poi passati in rassegna i doveri della donna italiana, che si riteneva non potessero esaurirsi nei compiti famigliari e domestici, ricordando che “si tratta anche di saper parlare e qui ci rivolgiamo soprattutto a voi donne colte e intelligenti, animate di fede e di forza persuasiva che, ovunque, nelle vostre case come nei salotti delle amiche, nelle scuole e negli stabilimenti, per le vie e i negozi, potete compiere una benintesa propaganda. Si tratta soltanto di affermare sempre e dovunque la nostra incrollabile fiducia nei combattenti e nella vittoria, si tratta di parlare forte, di parlare chiaro, oserei dire inesorabilmente a tutti gli uomini e tutte le donne che in quest’ora non sono all’altezza della situazione […]” <68
La medesima retorica che esaltava le virtù materne e muliebri delle donne, pronte a sacrificarsi, a spronare e a donare i corpi dei propri mariti e dei propri figli per la patria, era già stata diffusa durante la mobilitazione per la Prima guerra mondiale in tutti i paesi europei: Women of Britain say – Go! proclamava per esempio un famoso manifesto inglese del War Office, accompagnato dall’immagine di una donna contornata dai figli, in stoica attesa di fronte alla finestra <69.
L’opera propagandistica delle donne viene reputata ancora più importante in seguito all’8 settembre e alla costituzione del governo fascista repubblicano. Esso aveva individuato nel progetto di ricostituzione dell’esercito uno degli obbiettivi principali del risorto fascismo, indicato infatti sia tra i cinque ordini costitutivi della Rsi nell’annuncio alla radio tedesca del 15 settembre, sia nel discorso del 18 settembre trasmesso da radio Monaco <70. La presenza dell’alleato-occupante poneva infatti i fascisti repubblicani di fronte al problema di riacquisire autorità e credibilità, di riscattarsi in seguito al presunto tradimento del re e di Badoglio, di presentarsi come alleati fedeli ma al tempo stesso autonomi. Ricostruire un esercito “nazionale e apolitico”, secondo il piano di Graziani <71, avrebbe infatti conferito piena legittimità alla Rsi e avrebbe ristabilito un ruolo più paritario nei confronti dei tedeschi, dimostrando da un lato la legittimità e la vitalità come nuovo stato, e dall’altro provandone il radicamento e la tenuta tra la popolazione italiana. Si presentavano però difficoltà evidenti per il reclutamento, visto che le truppe del regio esercito erano state catturate dalla Wehrmacht e, con l’eccezione di alcuni reparti che accettarono di schierarsi incondizionatamente con i tedeschi, erano state avviate nei lager nazisti come internati militari <72.
[…] Il fascismo repubblicano non tarda dunque ad accogliere le istanze femminili e a utilizzarle a scopo propagandistico.
Sulle colonne dei giornali fascisti repubblicani si ripetono infatti appelli alla mobilitazione delle donne che però sembrano finalizzati più alla mobilitazione maschile che a quella femminile. Nel mese di settembre 1943 su «La Stampa», si susseguono per esempio due articoli in cui viene sottolineato il ruolo delle donne nel delicato momento della guerra civile: persuadere e convincere gli uomini, renitenti e imboscati, a riprendere il loro posto, ad indossare la divisa e difendere l’onore della patria. Così si legge nel primo articolo a firma “una donna”:
“Vicine più che mai alla Patria, per una profonda, innata sensibilità, per una fede sconfinata e per una serenità completa e suasiva, mai smentita, le nostre donne sono sempre state all’avanguardia di ogni movimento apportatore di grandezza, di lustro e di onore al Paese. […] Alle nostre donne, qualunque grado esse siano, a qualunque classe appartengano, il compito delicato ed impareggiabile di fare opera di persuasione presso gli uomini della famiglia, affinché riprendano il loro posto di responsabilità. C’è un dovere da compiere ed è la Patria che chiama ad assolverlo; sia la donna che ancora una volta dica la parola sentita, piena di fede e di bontà, che indichi agli uomini che ancora vagano in una bruma di incertezza e di perplessità, la via della decisione e del dovere. […] Quest’opera di persuasione e di chiarificazione chiediamo alle nostre donne, sicuri che nel loro cuore, il grande cuore delle donne italiane di sempre, sapranno trovare quegli argomenti che alle menti pacificate diano, con la serenità che viene dal bene operare anche la netta certezza della via da seguire” <86.
[NOTE]
59 Cfr. V. De Grazia, Le donne nel regime fascista cit., p. 204.
60 M. Fraddosio, La donna e la guerra cit., p. 1107.
61 W. Gorjux, Nazione militare, «Il giornale della donna», 20 gennaio 1935, cit. in H. Dittrich-Johansen, Le «militi dell‟idea» cit., p. 195.
62 Sui nuovi compiti della donna fascista nella fase coloniale si veda il paragrafo dedicato in M. Fraddosio, La donna e la guerra cit.; si veda anche B. Spadaro, Intrepide massaie. Genere, imperialismo e totalitarismo nella preparazione coloniale femminile durante il fascismo (1937-1943), «Contemporanea», n. 1, 2010, pp. 27-52; Ead., Corpi coloniali. Uomini e donne in Libia tra le due guerre mondiali, in http://www.cdlstoria.unina.it/storiche/Relazione_Spadaro.pdf , consultato il 15 luglio 2013; Ead., Una colonia italiana. Incontri, memorie e rappresentazioni tra Italia e Libia, Firenze, Le monnier, 2013.
63 H. Dittrich-Johansen, Le «militi dell‟idea» cit., p. 201.
64 La notizia è riportata in «Il popolo d’Italia», 3 dicembre 1942, cit. in M. Fraddosio, La donna e la guerra cit., p. 1155.
65 Concordano su questo punto sia Fraddosio che Dittrich-Johansen, Cfr. M. Fraddosio, La donna e la guerra cit., p. 1161; H. Dittrich-Johansen, Le militi dell’idea cit., p. 206.
66 Acs, Spd, Co, b. 15067, Fanny Dini a Mussolini, 3 giugno 1939 e Ivi, 20 febbraio 1940, cit. in H. Dittrich-Johansen, Le militi dell‟idea cit., p. 207.
67 Cit. in M. Fraddosio, La donna e la guerra cit., p. 1148.
68 Diana, La donna italiana e la guerra, Roma, a cura dell’Ufficio stampa e propaganda del Pnf, 1941, cit. in H. Dittrich-Johansen, Le militi dell’idea cit., p. 211-212.
69 Il manifesto è pubblicato in M. R. Higonnet [et al…] (a cura di), Behind the lines, cit., p. 210; sulla mobilitazione femminile durante la Prima Guerra mondiale, si veda, Ibidem; F. Thébaud, La Grande Guerra cit.
70 R. De Felice, Mussolini l‟alleato. La guerra civile 1943-1945, Torino, Einaudi, 1997, pp. 345-348.
71 In contrasto invece con Renato Ricci, che sosteneva la necessità di una struttura destinata a inquadrare le forze su base volontaria e politica. Sul dibattito per la creazione dell’esercito, cfr. G. Pansa, L‟esercito di Salò nei rapporti riservati della guardia nazionale repubblicana, Milano, Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia, 1969, pp. 13-17. Sull’importanza delle memorie di Graziani nella costruzione del mito dell’esercito apolitico, cfr. F. Germinario, Modelli di memorialistica, in S. Bugiardini (a cura di), Violenza, tragedia e memoria della Repubblica sociale italiana, Roma, Carocci, 2006.
72 Sugli Imi, i maggiori lavori si devono a due studiosi tedeschi, cfr. G. Hammermann, Gli internati militari italiani in Germania. 1943-1945, Bologna, Il Mulino, 2004; G. Schreiber, I militari internati nei campi di concentramento del Terzo Reich 1943-1945, Roma, Ufficio storico Stato Maggiore dell’Esercito, 1992.
86 Il dovere delle donne, «La Stampa», 22 settembre 1943.
Francesca Gori, Ausiliarie, spie, amanti. Donne tra guerra totale, guerra civile e giustizia di transizione in Italia. 1943-1953, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Pisa, Anno Accademico 2012/2013