Soprattutto Sesto San Giovanni non si vive come periferia posta al Nord della cerchia dei Navigli. Anzi, si vive come il centro di Metropolis

E fin da piccolini, noi ragazzini di Sesto San Giovanni avevamo imparato dai babbi a riconoscere le fabbriche cintate dalle lunghe mura di mattoni rossi: il Vittoria, l’Italia, il Vulcano, che allungavano la Falck fin quasi a Monza, il Siderurgico, la Ferroviaria, l’Aeronautica della Breda e poi la Magneti Marelli, la Osva, la Ercole Marelli degli impianti elettrici, la Campari della ricetta segreta per l’aperitivo diventato famoso nel mondo… Tutti più o meno – famiglie intere – partigiani senza fucile, senza i quali la lotta armata ovunque e comunque combattuta sarebbe sicuramente stata destinata allo scacco.
E dunque personaggi veri e comuni del Secondo Risorgimento italiano: quelli che ci hanno lasciato in eredità un idem sentire senza il quale il nostro essere popolo correrebbe rischi ancora maggiori. E poi i cortili, la parrocchia, le biciclette. E’ la resa dell’atmosfera del tempo. Non manca nulla di reale e di tipico a una Sesto San Giovanni così ricostruita da far pensare alla meticolosità con la quale uno dei più grandi registi del dopoguerra, Luchino Visconti, amava recuperare gli interni e se possibile perfino gli esterni dei suoi films. E poi don Enrico Mapelli, il prevosto, in sintonia con la sua gente, non ha proprio l’aria di una sorta di nunzio periferico mandato a rappresentare la religione cattolica in partibus infidelium. Brianzolo, fattosi sestese tra i sestesi, ha tutti i verbali di polizia e prefettizi che testimoniano contro di lui a causa di un antifascismo neppure dissimulato dal pulpito. Rischia la vita come tutti, perché questa è per tutti la posta in gioco: non il pane o la carriera. Nella città ridotta in stato d’assedio per le esigenze della produzione bellica non mancano le figure opache, quelle sinistre degli ufficiali nazisti, quelle insopportabili dei piccoli gerarchi fascisti e dei repubblichini della Muti. Ovviamente fanno la loro comparsa anche gli uomini per tutte le stagioni. Questa è la città che resiste, che si ribella e che, pagando un costo altissimo, raggiungerà finalmente la libertà e nuovi livelli di solidarietà. Perché le ragioni della lotta sono le medesime della vittoria. Entrambe estremamente complesse e plurali. Dove le differenze sono costitutive del tessuto sociale cittadino e alla fine l’avranno vinta, proprio per questo, sul pensiero unico della dittatura. Da una parte maschere al capolinea; dall’altra un’umanità che si cerca su un territorio che non può essere definito periferico e che ritrova le ragioni di una cittadinanza smarrita, dove è chiaro fin dall’inizio che la nuova democrazia repubblicana non sarà un guadagno fatto una volta per tutte.
Metropolis
Soprattutto Sesto San Giovanni non si vive come periferia posta al Nord della cerchia dei Navigli. Anzi, si vive come il centro di Metropolis, e nel suo titanismo è anzi la cerchia dei Navigli ad essere vissuta come periferia futura. Vengono così esplicitate visioni di spropositata grandezza paranoica che ancora nel 1943 trovavano spazio sulle pagine del “Popolo di Sesto”. Vi si favoleggia – abbandonato ogni senso della misura – di una città di due milioni di abitanti (Sesto San Giovanni, non Milano), treni sotterranei e moderne fabbriche in vetro e cemento, che avrebbero inghiottito Milano e necessariamente provveduto ai bisogni di una “…città di mercanti operosi e avidi che non producono granché ma che consumano molto…”. <105 Il lavoro continua ad essere la radice onnivora della città del lavoro, in uno scenario urbano che cambia in fretta per le innovazioni della tecnologia e per l’affluenza dei migranti da tutte le regioni del Paese. Detto alla plebea: cittadini sestesi si diventa. E’ questo il senso della vita quotidiana nella Sesto delle grandi e piccole fabbriche, dove “…lo sviluppo di nuove forme di organizzazione del lavoro che trasformavano e riducevano l’intervento umano, la pervasività della fabbrica come dispensatrice di risorse economiche ma anche sociali e identitarie, infine la deriva di uno scenario urbano che s’infittiva di case e non lasciava quasi spazio a dimensioni esistenziali diverse dal lavoro e dalla vita intima della famiglia davano vita a nuove modalità di convivenza sociale, scandite dall’individualizzazione, da nuove richieste di disciplina e di specializzazione…”. <106
E’ lo scenario epocale di una città dove il fascismo e l’antifascismo affrontano a viso aperto, e da punti di vista contrapposti, il fordismo e il titanismo che ne costituisce insieme l’anima e il sogno. Entrambi infatti si confrontano con il faustismo dei luoghi e dei soggetti. Due antropologie a confronto: le personalità caricaturalmente nicciane del fascismo, e le masse in cerca di protagonismo dell’antifascismo. Dove appunto la quotidianità e l’epica incredibilmente si metticciano e drammaticamente contendono. E dove il confine convenzionale tra un’epoca e l’altra, tra un popolo e un altro popolo sarà segnato da un 25 Aprile che comincia in un’alba precoce a muovere i suoi passi dal vicino quartiere di Niguarda. Perché nel culmine della lotta è il centro ad essere risucchiato dalle periferie dell’hinterland. La Milano fascista e quella liberata sono impensabili senza il tumulto delle sue periferie industriali. A farne testimonianza è una nutrita serie di documentatissimi volumi – in particolare per iniziativa dell’Istituto per la Storia dell’Età Contemporanea di Sesto San Giovanni – che sono approdati nelle librerie in occasione del settantesimo anniversario del 25 Aprile. <107
Morfologia dell’hinterland
L’hinterland industriale chiede di essere riletto anche nelle strutture e nelle ragioni che lo hanno prodotto. Come paesaggio ed anche come lo scrigno di una serie di memorie del sottosuolo. Il fordismo non solo non lo ha reso isometrico e banale, ma ne ha conservato i cimeli di un passato che non può essere consegnato facilmente all’oblio. Il rapporto città – campagna non solo non è stato cancellato né rimosso, ma si evidenzia in una serie di residui e di “ruderi” che ne impediscono una lettura meramente presenzialistica. Annota Flavia Cumoli:. “…Il forestiero che a metà degli anni Cinquanta, giunto per la prima volta Sesto San Giovanni, ne percorreva le vie cittadine fino a raggiungerne le frazioni, restava immediatamente sorpreso dal contrasto tra la perfetta identificazione della città con la sua industria e il sopravvivere degli ultimi tratti di paesaggio rurale. Questa ricca commistione urbano-rurale di cascine e fabbriche, operai e contadini, che aveva caratterizzato l’affermarsi del modello di industrializzazione sestese nel corso di tutto il secolo, ha marcato profondamente la memoria della generazione di immigrati post-bellici che, dopo aver lasciato la campagna per il cuore industriale della “capitale del miracolo”, si ritrovarono con stupore a vivere in una sorta di villaggio metropolitano dove le tracce fisiche dei residui di campagna, sopravvissute al primato delle cattedrali del lavoro, venivano a mano a mano fagocitate dall’inesorabile crescita della metropoli…” <108.
Questa voracità inarrestabile delle strutture industriali e metropolitane non riguarda soltanto il paesaggio ma anche il sottosuolo. Cosicché non risulta casuale lo stupore di chi, lavorando alle bonifiche delle aree industriali dismesse, si imbatte in caverne e manufatti insospettati che popolano quanto sottostà agli asfalti. Cunicoli e vie d’acqua sommerse costituiscono infatti un intrico che svela improvvisamente labirinti insospettati insieme a ordigni bellici dimenticati. Un’esperienza che sorprese i pochissimi e privilegiati osservatori che Ermanno Olmi ammise alla propria opera di documentazione filmica quando i proprietari decisero di smantellare i capannoni. Le lunghe braccia di imponenti macchine che Olmi stesso definiva “le divoratrici” si avventavano a tetti e lamiere producendo tonfi e rumori, insieme a polveroni, che assumevano man mano l’aspetto di un’apocalisse industriale. Recentemente Michele Serra ha dato conto, nel testo melodico “…Sotto di noi il diluvio…”, <109 dello scorrere e ribollire di acque sotto il suolo del capoluogo lombardo. “…Chissà, il rombo profondo delle fabbriche di Sesto San Giovanni, come si ripercuotevano nelle viscere di Lombardia, dentro e lungo la falda freatica, in quei limi e quelle ghiaie sommerse. Fino a dove arrivava, per le sue vie sotterranee, impercepibile in superficie, quella musica? Fino a dove si spingeva il rumore della fabbrica? A ridosso delle Alpi? Agli argini del Po? E lungo il grande fiume si scaricava a mare anche il frastuono?…” <110 La risposta non si fa attendere ed assume il carattere di una apocalisse tenuta sotto controllo. “…L’industria
lombarda l’ha bevuta, l’acqua del sottosuolo, per generazioni. Ne ha pompati da madre terra interi oceani, acqua quanta ne basterebbe per lavare le galassie, per abbeverare i viventi di ogni pianeta, per riempire ogni voragine e bonificare ogni deserto. Ogni giorno. Per anni. Pompe gigantesche risucchiavano l’acqua di falda. La usavano per raffreddare, lavare, temperare, levigare. La usavano per controllare e domare il fuoco, mutare le incandescenze in forme solide, azionare meccanismi a pressione, muovere pistoni, inondare vasche, trascinare resti di lavorazione nelle loro cloache tenebrose…” <111. Poi l’acqua è risalita quanto basta per riaffiorare nell’aria aperta dalla bocca incolore
di qualche fontanile, che la erutta silenzioso. Mentre sono ancora vivi certi vecchi milanesi che dicono di avere fatto, quando erano bambini, il bagno nelle rogge o nei canali che attraversavano la città. Raccontano quei vecchi di acque limpide, piene di pesci messi in fuga dai tuffi dei ragazzini…
Fu il fascismo a decidere di coprire i Navigli, perché, al di là di ogni retorica, i Navigli erano fetidi anche quando le chiatte li solcavano e gli acquarellisti li riproducevano… Per non parlare degli sciami di zanzare che raggiungevano i balconi soprastanti e invadevano i tinelli. Serra diventa impietoso: “…Milano non ha nascosto le sue acque per cancellare un passato di scie d’argento, di prospettive pittoresche, di battellieri che salutano allegri dalla chiatta. Le ha nascoste per dimenticare le sue viscere e la sua puzza…”. <112 Infatti nella Milano novecentesca era diventato volgare mostrare i Navigli. E come già nell’epoca fascista il razionalismo urbano preferiva viaggiare e correre sugli asfalti.
La propaganda
“Metropolis”, prima di diventare Stalingrado é la cittadella dell’acciaio coccolata dal regime. Mussolini la tiene d’occhio la segue, anche se non la ama e frequenta come la Torino della Fiat, degli Agnelli e di Valletta. “Metropolis” ha strutture possenti e insieme un immaginario altrettanto possente che la tiene unita con un’anima indotta. Strumento di questo immaginario che si occupa anche delle anime e non soltanto dei corpi è la propaganda, cui il Duce assegna un ruolo assolutamente di primo piano ed invasivo. Un modello che verrà superato dal vicino alleato nazista, dove l’abilità di Goebbels, che rasenta la genialità, riuscirà a precorrere e preparare anche le imprese belliche più avventurose – l’invasione della Cecoslovacchia e della Polonia – e in certo senso a legittimarle non soltanto agli occhi dei nazisti. Mussolini in persona (non c’è nel regime italiano l’analogo di Goebbels) riserva cure continue ed un impulso vigoroso alla macchina della propaganda. Essa dilaga nella Grande Proletaria dalle campagne alle forme più avanzate dell’industrializzazione fordista. Quel che ha puntualmente descritto Pennacchi in visione fascio-comunista per l’agro pontino attende ancora uno sguardo e una scrittura altrettanto penetranti per l’Italia industriale. Per Torino, Genova e Milano. Insomma ci vorrebbe un approccio all’altezza di quello usato da Walter Benjamin nel suo ‘Trauerspiels’ per il dramma barocco tedesco. È lo scenario complessivo che deve essere indagato, corpo ed anima, le strutture possenti dell’industrializzazione pesante e delle grandi fabbriche insieme a quelle di una propaganda che si occupa di “formare” i nuovi italiani, nelle campagne come nelle grandi città, introducendoli all’epopea imperiale. C’è continuità infatti tra il balilla che la mattina in divisa prende parte all’alzabandiera e la criminalità razzista e spaccona del maresciallo Graziani nelle imprese africane. In questo senso il disegno fascista è compatto ed onnicomprensivo, e proprio a seguito di questo muoversi a tappeto, a partire dagli anni dell’infanzia, non potrà non scontrarsi con la Chiesa italiana ed il Vaticano, da sempre presenti nel foro interno come nella società civile con una centralità a sua volta irrinunciabile sul piano pedagogico e pastorale. Per le pretese invasive del regime lo spazio pubblico diventa oggetto storico di contesa, ma anche la quotidianità e il foro interno della coscienza vengono presi di mira e tenuti cari da entrambi i versanti antagonistici. Per questa ragione Schuster non si risparmierà durante le cresime, che introducono il giovinetto alla milizia cristiana in quanto soldato di Cristo, dal sarcasmo con la concorrenza balilla. La partita è veramente a tutto campo, a partire dalle giovani coscienze e quindi da quella quotidianità che è cara alle parrocchie mentre interessa e attiva il regime. Non c’è Costantino senza prima il nascondimento periferico e la povertà di Betlemme. Sesto San Giovanni, capitale dell’hinterland industriale, diventa a sua volta inevitabilmente il campo di questa contesa. Qui non a caso il regime erige le strutture della propria propaganda: nelle scuole, nelle fabbriche, nelle piazze, con gli altoparlanti che diffondono la voce dell’Eiar, struttura portante di tutto il regime, dalla penetrazione familiare alle parate di massa.
[NOTE]
105 Articolo del 6 febbraio 1943, in A. Geminiani (a cura di), Il Novecento, citato in Laura Francesca Sudati, Tutti i dialetti in un cortile. Immigrazione a Sesto San Giovanni nella prima metà del ‘900, Guerini e Associati, Milano 2008, p. 164
106 Laura Francesca Sudati, Tutti i dialetti in un cortile. Immigrazione a Sesto San Giovanni nella prima metà del ‘900, op. cit., p. 163
107 A cura di Giuseppe Vignati, La resistenza in una grande fabbrica milanese. Il diario di Angelo Pampuri operaio della Breda, Mimesis, Milano 2015. Giuseppe Valota, Dalla fabbrica ai lager. Testimonianze di familiari di deportati politici dall’area industriale di Sesto San Giovanni, Mimesis, Milano 2015. Fabio Cereda e Giorgio De Vecchi, Sesto San Giovanni 1943-1945. Scenari della Liberazione, Tarantola Editore, Milano 2015. Damiano Tavoliere, Beppe e i suoi fratelli. Giuseppe Carrà e altri compagni di ventura le coscienze più alte nel secolo più intenso a Sesto San Giovanni, Tarantola Editore, Milano 2015
108 Flavia Cumuli, Un tetto a chi lavora. Mondi operai e migrazioni italiane nell’Europa degli anni Cinquanta, Guerini e Associati, Milano 2012, p. 192
109 Scritto da Michele Serra per la musica di Fabio Vacchi, l’opera è dedicata al rapporto tra Milano e le sue acque. In “la Repubblica”, giovedì 17 settembre 2015, p 63
110 Ibidem
111 Ibidem
112 Ibidem
Giovanni Bianchi e Andrea Rinaldo, La Resistenza dalla foce. Quale nazione per gli italiani postmoderni, Eremo e Metropoli Edizioni, Sesto San Giovanni, aprile 2017

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Pensionato di Bordighera (IM)
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