Richelmy e quelle cose che i libri non dicono

Da un bigliettino battuto a macchina e rinvenuto fra le sue carte, si apprende che la collaborazione di Richelmy con il quotidiano torinese della sera [“Stampa Sera”] durò dal 1965 al 1979; ma dallo spoglio che ho eseguito – tramite microfilm – su “Stampa Sera” risulta che il primo articolo di Richelmy non apparve che nel numero del 5-6 ottobre 1966, mentre l’ultimo risale a dieci anni dopo (2 ottobre 1976). Purtroppo la mia ricognizione è avvenuta controllando giorno per giorno e pagina per pagina le firme dei giornalisti, senza altra indicazione temporale di ricerca se non l’arco di quattordici anni fortuitamente segnalato dall’autore stesso. <794
Sono articoli distribuiti non omogeneamente negli anni (quindici pezzi nel 1967 e solo due nel 1969); una certa regolarità nella frequenza si ha soltanto in una speciale rubrica, «Torino ha 2000 anni», che il quotidiano promosse nel 1974, associandola a un concorso riservato ai piccoli torinesi e affidandola completamente a Richelmy, che pubblicò dieci articoli in poco più di due mesi, dal 28 gennaio al 6 marzo, con una cadenza a volte bisettimanale e sempre annunciata. Molto più assidua, invece, la presenza sulle colonne del giornale di alcuni cari amici di Richelmy, come per esempio Remo Grigliè e Alberto Blandi.
A prima vista, scorrendo velocemente i titoli di questi articoli, si ha l’impressione di leggere l’indice dei capitoli di una guida enogastronomica: “Trattorie dei pesci vivi”, “In cerca di nuove e vecchie osterie”, “L’antica ricetta del gin solido”, “Grolla dopo grolla”, “Dove trovare vino”… Una sorta di itinerario del gusto nella terra piemontese. Niente di più ingannevole; o meglio è certo che Richelmy nei suoi pellegrinaggi collinari e alpestri segnava scrupolosamente la presenza o l’assenza di osterie, di cantine, di antichi vigneti dall’ottima, rara e selezionata produzione e di relativi, generosi vignaioli; è certo che fu un buon bevitore ed estimatore di vini, ma tutto ciò non era che il corollario delle sue scampagnate, in solitaria o in compagnia.
È evidente – e ci sono numerosi pensieri annotati nei suoi inseparabili taccuini a dimostrarlo – che non viaggiò attraverso la propria regione natale in qualità di inviato ‘assaggiatore-sommelier’ di “Stampa Sera”, ma la percorse per una propria intima e irrinunciabile esigenza, che gli fornì materia anche per le poesie e i racconti. Bisogna ricordare, inoltre, che – come si usa nei giornali – i titoli nella maggior parte dei casi venivano decisi non dall’autore, ma dalla redazione e che, molto probabilmente, il pubblico cui si rivolgeva il quotidiano della sera era attratto soprattutto da letture facili, immediate e ‘pratiche’ (quanto spazio alle rubriche femminili di Clara Grifoni, alla moda di stagione, agli spettacoli e alla vita privata dei ‘vip’!) i cui titoli conquistassero subito l’attenzione e la curiosità anche dei lettori più svagati e poco avvezzi alle riflessioni (spesso anche alla poeticità) che dietro essi si celava.
Basta avere, infatti, un po’ di pazienza per leggere i suoi brevi interventi e accorgersi che Richelmy dice sempre qualcos’altro oltre al nome dell’oste e della sua osteria, oltre alle indicazioni per raggiungerla, oltre agli ingredienti di un’ormai perduta ricetta tradizionale: è sempre e ancora dell’antico mondo contadino che parla, della sua civiltà, dei suoi abitanti. Bottiglie d’annata e filari ben tenuti, però, non sono solo un pretesto per parlare d’altro, anzi, essi – il vino in particolare – sono simboli stessi di quel mondo, fatto di una lunga conoscenza e consuetudine con la terra. Gli avventori stanchi morti, seduti alle lunghe tavole nere di una bettola, lo sguardo avvinazzato e languido, sono le ultime incarnazioni di qualcosa che – Richelmy lo sa bene – sta scomparendo ingoiato dall’industrializzazione, dal consumismo, dalla società di massa che per anni non era riuscita a spingersi in quei centri isolati e agricoli, limitandosi a colonizzare le grandi città («Nella dilatazione della città fino ai paesi periferici ed oltre – fino alle propaggini non più solitarie delle prealpi – sono sempre più fitte l’incrostazioni delle fabbriche e dei casamenti, le riseghe o le lividure delle nuove strade, sempre crescente il pullulare di cottage e di sterili giardinetti»). <795 È lui che si preoccupa di cercare e ascoltare gli ultimi superstiti di questo ancestrale tipo umano e lo fa partendo sempre da dati concreti che riaffiorano alla sua formidabile memoria; un giorno, per esempio, si mette sulle tracce dell’«olio delle alpi», lo trova e trova anche chi sa prepararlo: è una gioia intensa e forse non comprensibile a tutti: «in grazia sua, anche alcuni raffinati ospiti della valle potevano convincersi dell’eccellenza assoluta di quell’olio ricavato da un frutto primordiale, noto soltanto ad alcune discendenze d’uomini, in limitati luoghi alpestri. Pareva così testimoniata la sufficienza delle dimore più antiche e forse quella di qualunque luogo non rovinato dall’incontentabilità». <796
Nulla sfugge all’occhio e all’orecchio di Richelmy (un paio di suoi articoli passano in rassegna anche tutte le lapidi, incisioni e persino particolari numeri civici visibili a Torino e nei paesi limitrofi), <797 ma lo scrupolo nomenclatorio – in italiano o in dialetto – e che compiace anche un preciso gusto fonico, non è fine a se stesso; l’autore, infatti, è pienamente conscio del proprio ruolo di testimone (uno fra gli ultimi) <798 e in “Vini plebei onesti e allegri” lo dichiara: «Citare vigne e vini più modesti, accuditi da famiglie di lavoratori che devono campare anche con altre fatiche, non è mania d’esaltar gli umili, bensì menzione di cose meno conosciute», quelle cose, come dirà una decina d’anni dopo, «che i libri non dicono». <799
Che i nomi delle cose e i soprannomi delle persone in piemontese allettino la sensibilità di Richelmy per la loro corporea sonorità, è ammesso dal poeta stesso: «Oriou Russas Pancoi Gìachet Avanà, Faraudin Dousela Enfer, Neiratin Bursè Munfrà, Grisariunda Ibrid Quaian, Hourca Tadun Landà, Viendenus Beltram Uvana Peiveral e Scarlatin, Pistuletta Zanzib e Ciamasoul. Se questi vocaboli s’interpretassero con sussiego e pause e sussurri da formula magica rischierebbero di sembrare versi d’una poesia moderna». <800 Moderna e, forse, senza senso ma gradevole; e la gradevolezza di suoni puri, accostati per mero piacere uditivo secondo regole che agiscono a livello «a- o pregrammaticale» <801 (quello conosciuto e frequentato dall’amato Pascoli), affascinò Richelmy da sempre, come testimoniano due suoi versi, «Szemes, Impraì, Ri, Soupire,/Abissi, Alta valle, Erbe Rivi», <802 e le parole dell’amico Mario Soldati che una volta fu soccorso dalla «ciaciaralanga», <803 lingua semi-onomatopeica inventata da Tino Richelmy per divertirsi da ragazzi.
Oltre agli articoli sui “Weekend a due passi da Torino” e i “Paesi antichi nelle prealpi e campagne fuori città”, Richelmy ne dedica alcuni anche ai più bizzarri e tipici cittadini: «Buoni cittadini alla cerca di cose cadute, smarrite o gettate – cittadini che dovrebbero considerarsi tra i più autentici perché conoscono a fondo l’abitato e gli abitanti, e ogni giorno frugano i cortili e le vie – se ne vedono più pochi. Si possono incontrare un po’ meno raramente nei quartieri inveterati del centro o nelle periferie minori. I faravecchi o i cenciaiuoli ambulanti, che di buon diritto appartengono alla categoria dei cittadini suddetti, commerciavano e commerciano isolatamente, ognuno nelle proprie zone, come le avessero in appalto»; <804 oppure si sofferma sui luoghi di ritrovo e compagnia, tra questi reputa insuperabili le bocciofile, vocianti e ombrate dai pergolati: «Girate intanto in città. Vedete come si giuoca amichevolmente sul piazzale del Martinetto; ovvero poco più in là, presso via Servais, alla Società Nord, sopra l’ancora rustica sponda della Dora, donde a marzo – se si ha fortuna – nel cielo chiaro è visibile e udibile l’allodola; ovvero al Cral della Parella, dove i soci nonostante la fanatica insegna pubblicitaria ‘La boccia eterna’ gareggiano sereni, senza illudersi d’essere meno passeggeri di chi sosta lungo le vie adiacenti per ammirarli. Vedete i frequentatori bonari della Bocciofila Cenisia, contenti del piccolo cortile sotto la glicine». <805
Ma un grandissimo omaggio alla sua città Richelmy lo rende attraverso gli articoli della ricordata rubrica «Torino ha 2000 anni» (1974), un grande affresco che incomincia da Augusta Taurinorum e giunge – attraverso tutte le epoche – alla Torino ottocentesca e di ieri, madre di tanti eroi risorgimentali e poi resistenti (da qui il fatto di essere sede del C.N.L. e del C.M.R.P.). Questa serie rivela le doti di Richelmy storico e cronista locale, appassionato cultore da un lato delle vicende popolane e dall’altro della vita dei grandi uomini, i Savoia specialmente.
Tutte concentrate in un paio d’anni (1971-72) <806 sono anche le recensioni per la rubrica «Stasera leggiamo»; rapidissimi flashes sulle novità, e non solo, arrivate in libreria. Gli autori e i titoli passati in rassegna sono svariati e molto eterogenei, si va dai cari Bassani, Soldati e Noventa a un classico come Leopardi, ma anche Salgari, che Richelmy – pur confessando di non aver letto – raccomanda agli studenti della scuola media; il figlio del popolarissimo romanziere, Nadir, era stato gradito compagno di gioventù del poeta. Tino spesso suggerisce autori stranieri celebri, come Walt Whitman o meno noti come Amadu-Hampate Ba, ma anche il peruviano José Maria Arguedas, autore de “I fiumi profondi”. Di grandi della letteratura Richelmy non parla soltanto per commentarne le opere; infatti articoli quali “Una gita in Garfagnana. Nella valle del Serchio un antico covo di briganti (e di poeti)” sono un sentito omaggio a Pascoli; “La quinta stagione di Gozzano – Ricordo del Meleto” all’autore de “I colloqui”; “Al paese di Bufera” parla di Edoardo Calandra; in questi casi le annotazioni ambientali si mescolano sapientemente con la storia e la cultura dei luoghi.
[NOTE]
794 Non escludo – pertanto – che qualcosa possa essermi sfuggito, ma questa malaugurata evenienza potrà valere per un giorno, difficile che possa estendersi ad anni interi! Il nome di Tino Richelmy (così, col diminutivo, era solito firmarsi) non compare mai nel 1965, 1970, 1977, 1978 e 1979.
795 “Stampa Sera”, Dove trovare vino, 24 ottobre 1973.
796 “Stampa Sera”, Olio delle Alpi, 29-30 aprile 1967.
797 “Stampa Sera”, Parole scritte su pietra, 26 aprile 1973 e Come si leggono le pietre scritte, 27 dicembre 1973.
798 In un articolo del 2 luglio 1979, Giovanni Arpino scriverà un articolo dal titolo ‘Vecchie osterie uccise dal tempo’, quelle che invece con tanta passione e sollecitudine Richelmy si era sbrigato a conoscere, tramandandone almeno il ricordo attraverso i suoi articoli.
799 Il novellino dei dodici mesi, Aprile, qui a p. 561.
800 “Stampa Sera”, Vini plebei onesti e allegri, 2-3 novembre 1967; ma lo stesso concetto è ribadito nel ricordo n. 5 del “Quaderno di fili”: «Leggo in un mattino d’aprile, nel giornale, i nomi dei paesi: Paularo, Treppo, Paluzza, Cercivento del Friuli. Per me l’elenco di quei nomi è tutto un canto, di cui ho smarrita la musica e il motivo e continuamente inutilmente cerco».
801 Per queste formule cfr. G. Contini, Il linguaggio di Pascoli, in G. PASCOLI, Poesie, I, Milano Mondadori, 1997, p. XXVIII.
802 La cinciazzurra, in LI, p. 153.
803 M. SOLDATI, Capodanno futurista a New York, in ID., Le sere, cit., p. 106.
804 “Stampa Sera”, Cittadini autentici, 31 maggio-1 giugno 1967.
805 “Stampa Sera”, Giuochi di bocce, 21-22 febbraio 1967.
806 Nel 1971 si contano nove suoi articoli e tutti per “Stasera leggiamo”; nel 1972 si ascrivono a questa rubrica undici pezzi su dodici.
Irene Barichello, Le carte segrete di Agostino Richelmy, Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Padova, 2012

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Pensionato di Bordighera (IM)
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