I difficili anni Settanta
L’irrompere del terrorismo rosso ebbe, sul mondo dei cultori dell’oralità, gli effetti di una gelata primaverile. Furono numerosi gli intellettuali e gli accademici, che mai avevano avuto troppa simpatia per il rinnovamento culturale patrocinato dai fautori dell’oralità, che approfittarono degli anni di piombo per scagliarsi contro gli storici «scalzi». In molti, forzatamente e infondatamente, vollero vedere in alcuni giovani ricercatori che battevano con il magnetofono le fabbriche cittadine e i campi del contado degli, sia pur inconsapevoli, fiancheggiatori del terrorismo. In quei giovani animati da fervore politico e passione civile che non ammettevano compromessi si volle vedere i creatori, loro malgrado, di un clima favorevole all’eversione armata. Cesare Bermani, con la vivacità di chi fu toccato in prima persona da quegli aventi, ha lasciato note amare su questo tema.
«Per quel che riguarda la storia orale ricordo l’attacco di Umberto Cerroni subito dopo al rapimento di Moro a chi si occupava di folklore (cioè l’Istituto de Martino) come retroterra del terrorismo, l’arenarsi di ogni esperienza didattica d’avanguardia nella scuola e nelle 150 ore <361, l’attacco mirato alle fonti orali nella didattica (cui peraltro gli Istituti reagirono, non però il sindacato), gli attacchi di Giuliano Ferrara e Gian Mario Bravo che volevano in galera Sergio Bologna e qualcun altro di “Primo maggio”, le deliranti accuse ancora di Giuliano Ferrara su una presunta “formazione di terroristi” che Marco Revelli avrebbe fatto tramite l’insegnamento nelle 150 ore a Rivalta, l’arresto di Liliana Lanzardo… e potrei andare avanti un bel pezzo a fornire altri esempi [… con oralisti] sprezzantemente chiamati in quel periodo “storici scalzoni” o “storici mascalzoni”, con riferimento a Oreste Scalzone e le sue posizioni (che comunque non avevano niente in comune con il lavoro storiografico condotto dai cosiddetti “storici scalzi”)» <362.
Pur senza interrompersi, il lavoro degli oralisti italiani non poté che essere pesantemente influenzato dal clima di ostilità che buona parte dell’establishment culturale italiano nutrì contro di loro alla fine degli anni Settanta. In quel contesto si rinfocolò il livore di chi mai aveva accettato fino in fondo il valore dei lavori scientifici intessuti di oralità. È il caso di Domenico De Masi secondo il quale «arriva il ‘68 preceduto dai canti popolari. […] Si sono abbassati i prezzi dei magnetofoni, ridotte le dimensioni, e tutto ciò ha avuto una forte influenza sull’uso e sull’abuso di interviste […]. Ci sono stati due usi “spasmodici” del magnetofono: l’uso operaista e l’uso femminista. Siccome per anni gli emarginati avevano parlato poco (soprattutto le donne avevano potuto esercitare solo l’arte dell’ascolto) c’era da sfogarsi di due, tre mila anni di silenzio […] Se rileggo queste interviste […] debbo dire che sono delle cose inaudite, senza un minimo di criticismo, senza un minimo di orientamento; il dramma della prevedibilità: tutto era scontato. Le domande erano ovvie, le risposte non potevano che essere ovvie» <363.
Al netto delle osservazioni, talvolta fondate, sul diseguale valore dei molti lavori intessuti di oralità, ciò che colpisce di queste parole è la virulenza con cui ci si scagliava contro l’oralità in quanto tale. Dato il contesto, possiamo allora convenire con Bermani quando afferma che «sembra quasi un miracolo che le testimonianze orali abbiamo continuato a farsi strada» <364.
«La consistenza degli archivi sonori esistenti – prosegue Cesare Bermani – è già una buona testimonianza del grande lavoro svolto principalmente negli anni Sessanta e Settanta ma anche dopo. In Italia – prescindendo da alcuni archivi sonori di grossa entità (per esempio quelli di Roberto Leydi, di Nuto Revelli, di Sergio Liberovici ed Emilio Jona, di Anna Maria Rivera, di Giuseppe Colitti, tutti frutto di ricerche militanti o quanto meno personali) – risultano registrate 56 mila ore di materiale. Di esse ben 18 mila, cioè un terzo, sono state registrate dai ricercatori collegati all’Istituto De Martino e alla rete degli Istituti storici della Resistenza, e aggiungendovi gli archivi di alcune altre strutture militanti si arriva ad almeno metà del registrato […]. Mi sembra un dato più che sufficiente a suffragare l’iter quasi integralmente non accademico degli studi di storia con testimonianze orali» <365.
Ciò è vero per la realtà italiana, un po’ meno per quella piemontese e segnatamente torinese. Infatti l’Università di Torino fin dagli anni Settanta, come accennato, aveva socchiuso la porta all’oralità <366, grazie alle figure di Quazza e Levi, quest’ultimo tra l’altro curatore della collana “Microstrie” dell’Einaudi, dunque in grado, almeno potenzialmente, di veicolare tale novità in ambito editoriale. Anche grazie a loro nell’ateneo subalpino, diversamente da quanto accaduto altrove, progressivamente l’oralità conquistò posizioni accademiche di rispetto. Al fine di coordinare le esperienze dei singoli studiosi e approfondire il dibattito metodologico proprio sotto la Mole tra il 1981 e il 1987 fu edita la rivista “Fonti orali” <367 ove si consacrarono, tra gli altri, Luisa Passerini, Anna Bravo, Maurizio Gribaudi, Daniele Jallà. Insomma, fin dagli anni Ottanta, l’esperienza torinese si consacrò come una delle più organiche realtà italiane attive nell’ambito della storia orale. Ma non precorriamo i tempi.
Il convegno di Bologna (1976)
Il definitivo riconoscimento della bontà delle fonti orali e il loro crescente utilizzo in ambito scientifico che si esplicitò appieno sul finire dei Settanta fu frutto anche di un serrato confronto tra studiosi italiani di ambito diverso che, sulla scorta di quello che avveniva nel resto del mondo, cercarono di superare i tradizionali steccati disciplinari.
Punto di svolta fu il convegno “Antropologia e storia: fonti orali” svoltosi a Bologna nel dicembre 1976, meeting al quale parteciparono coloro che in Italia, nelle più diverse discipline, lavoravano sulle fonti orali: antropologi, storici, etnologi, etnomusicologi, sociologi, docenti universitari. Con loro anche molti ricercatori cosiddetti «scalzi» perché privi di titoli accademici <368. Da un lato, il convegno evidenziava l’esistenza di una vita italiana alla storia orale, originale, dalla forte valenza politica e calata all’interno di un processo di valorizzazione delle tradizioni popolari. Dall’altro, sulle tracce della oral history inglese e statunitense, emergevano alcune innovative esperienze metodologiche e interpretative che presero piede, tra l’altro, anche all’Università di Torino.
«Due filoni di ricerca, diversi nelle finalità ma – notano Giovanni Contini e Alfredo Martini – accomunati dall’esigenza di rinnovare il modo di fare storia, di ampliare orizzonti documentari e metodologici attraverso l’uso delle fonti orali che possono in tal modo entrare nel “salotto buono” della storiografia. Questi due filoni in seguito avrebbero stemperato le diffidenze reciproche focalizzando l’attenzione sulle metodologie e sul valore euristico delle fonti orali che avrebbe portato a un progressivo avvicinamento e a un arricchimento reciproco. Ma non in questo momento. Gli storici tout court, anche i più innovativi, non accettano l’idea di “storia orale”, ritenendo più corretta la nozione di “fonti orali” al servizio della storia» <369.
Autorevole portavoce di questi ultimi fu Luisa Passerini. «Molti trovano da ridire al termine “storia orale” perché sembra alludere a una nuova branca della storiografia – o una specializzazione in più – o avanzare pretese facilone e una storia alternativa e, a suo modo, totalizzante quanto quella tradizionale. “Fonti orali” appare invece una espressione più neutra e può sottintendere altre interpretazioni: che si stia parlando di un tecnica, diffusasi negli ultimi decenni grazie ai mezzi di registrazione, e applicabile a molte discipline diverse» <370.
Indipendentemente dalle più o meno accese discussioni metodologiche che infiammarono i ricercatori che sempre più utilizzarono le fonti orali, dopo il convegno di Bologna, che sancì una svolta epocale, la produzione scientifica avente le stimmate dell’oralità crebbe ulteriormente.
Una letteratura sempre più ampia e profonda
Senza pretesa di esaustività, se volessimo indicare i principali temi scandagliati dalla ricerca italiana che si è avvalsa delle fonti orali a partire dagli anni Sessanta potremmo affermare che essi sono i seguenti <371: – gli emarginati comunque intesi <372; – i militanti politici di base <373 e i militanti sindacali <374; – le donne <375; – il mondo contadino e le piccole comunità <376; – l’emigrazione e l’immigrazione <377; – la storia e la cultura operaie <378; – la Resistenza <379; – la deportazione nei lager nazisti <380. Ovviamente la accresciuta produzione scientifica fu possibile solo grazie al concomitante raffinarsi della «cassetta degli attrezzi» di gramsciana memoria. Negli anni Ottanta, infatti, il dibattito teorico e metodologico interno agli oralisti italiani si allarga e si approfondisce contribuendo a mettere a fuoco la complessità genetica delle fonti, il rapporto tra intervistato e intervistatore, la ricchezza formale del documento orale, la necessità di dotarsi di strumenti interdisciplinari, la delicatezza dei documenti raccolti sul piano della riservatezza e dell’etica del ricercatore. È grazie a questa nuova consapevolezza scientifica che la ricerca con le fonti orali esce in questi anni da una fino ad allora innegabile subalternità disciplinare per porsi come strumento
privilegiato di interpretazione del rapporto tra storia e memoria, tra storia e identità individuale e sociale.
Alla luce di quanto detto finora non stupisce dunque che, dalla seconda metà degli anni Ottanta in poi, gli studi e le ricerche che fanno ricorso alle fonti orali siano aumentati progressivamente, così come è andato elevandosi il livello qualitativo e ampliandosi la varietà tematica.
Al termine di questa disamina, possiamo allora dire che l’oralità da fonte ancillare delle scienze umane comunque intese si è progressivamente consolidata come protagonista della ricerca, passando «dalla cantina all’attico», per usare la fortunata espressione con la quale Le Roy Ladurie alludeva al successo della scuola annalista francese <381. Senza dilungarci in elenchi di studiosi e opere che poco aggiungerebbero alla nostra ricerca, è tuttavia forse utile fare un raffronto tra due saggi che, apparsi a vent’anni di distanza, se comparati esemplificano immediatamente quanta e quale strada ha percorso l’oralistica italiana. Il primo termine di paragone è dato dalla pionieristica, importante rassegna sul dibattito e l’uso in Italia di fonti orali curata nel 1980 da Alfonso Botti e Giuseppe Nigro <382, il secondo consiste nell’ottimo lavoro di sintesi redatto nel 1999 da Cesare Bermani <383. Per evidenziare quanta strada è stata fatta dalle fonti orali è sufficiente comparare le poche decine di pagine di Botti e Nigro, che pure sunteggiavano bene lo stato dell’arte all’inizio degli anni Ottanta, con le centinaia di pagine (ben due volumi!) necessarie a Bermani per rendere conto di quanto avvenuto nei due decenni successivi.
[NOTE]
361 Un bilancio del notevole lavoro compiuto nelle scuole in La storia: fonti orali nella scuola. Atti del convegno “L’insegnamento dell’antifascismo e della Resistenza: didattica e fonti orali,Venezia”,12-15 febbraio 1981, Marsilio, Venezia 1982.
362 Cesare Bermani (a cura di), Introduzione alla storia orale. Storia, conservazione delle fonti e problemi di metodo, op. cit., p. 57.
363 Ivi, p. 59.
364 Cesare Bermani (a cura di), Introduzione alla storia orale. Storia, conservazione delle fonti e problemi di metodo, op. cit., p. 54.
365 Ivi, p. 58. Sul ruolo svolto dagli Istituti storici della Resistenza si veda Franco Castelli, Gli archivi sonori degli Istituti storici della Resistenza. Primi risultati di una inchiesta, in “Rassegna degli Archivi di Stato”, XLVIII, n. 1-2, gennaio-agosto 1988, pp. 87-129.
366 Qualche informazione in Cosimo Lupo, Antropologi sotto la Mole. Una storia delle discipline etnoantropologiche a Torino (1969-1999), tesi di laurea in Lettere e Filosofia, Università degli Studi di Torino, a.a. 2009-2010.
367 Diretta prima da Luisa Passerini, poi da Daniele Jallà, nel comitato scientifico e tra i collaboratori figurano tutti o quasi i ricercatori piemontesi impegnati nell’uso delle fonti orali: Marcella Filippa, Leo Gambino, Bruna Peyrot, Paola Sobrero, Anna Bravo, Anna Maria Bruzzone, Gabriella Gribaudi, Graziella Bonansea, Sandra Cavallo, Bianca Guidetti Serra, Emilio Jona, Liliana Lanzardo, Giorgina Levi, Peppino Ortoleva, Lucetta Scaraffia, Edoardo Zanone Poma. Edito a Torino dall’Istituto Gramsci e diretto da Luisa Passerini, Fonti orali, soprattutto tra 1981-1985, costituisce un importante riferimento per coloro che lavorano con e sulle fonti orali sia per diffondere le proprie ricerche sia per conoscere metodologie e punti di vista.
368 Giovanni Contini, Alfredo Martini, Verba manent. L’uso delle fonti orali per la storia contemporanea, op. cit., p. 197. Gli atti del convegno confluirono in Bernardo Bernardi, Carlo Poni, Alessandro Triulzi (a cura di), Fonti orali. Oral sources. Sources orales, Franco Angeli, Milano 1978.
369 Giovanni Contini, Alfredo Martini, Verba manent. L’uso delle fonti orali per la storia contemporanea, op. cit., p. 197.
370 Luisa Passerini, Storia e soggettività. Le fonti orali, la memoria, op. cit., p. 117.
371 Scrive Luisa Passerini, con giudizio complessivamente critico su quanto fatto dagli oralisti italiani fino ai primi anni Ottanta: «Finora in Italia il discorso storico sulle fonti orali ha insistito soprattutto su alcuni temi: – la necessità di una storia dei non vincenti, dei non dominanti, una storia altra […] nel senso dell’allargamento dell’universo storiografico (questa, in sintesi troppo breve, si potrebbe definire la prima ondata di storia orale, quella degli anni Cinquanta e Sessanta); – la necessità di forme di storia sociale e di microstoria, contro il predominio di temi istituzionali, politici in senso ristretto, e di analisi delle macrostrutture. Necessità quindi, per la natura stessa degli oggetti presi in considerazione, di rapporti con le altre “scienze umane” […]; – concezione non positivistica della storia […]. Se si considerano con attenzione le fonti orali diventa chiaro che esse accentuano il carattere della ricerca storica come invenzione […]. Si tratta di “vedere” tratti trascurati ma “vedere” non indica certo una registrazione passiva, bensì un tratto di produzione del pensiero». Luisa Passerini, Storia e soggettività. Le fonti orali, la memoria, op. cit., pp. 122-123.
372 A titolo di esempio, Danilo Montaldi, Autobiografie della leggera. Vagabondi, ex carcerati, ladri, prostitute raccontano la loro vita, op. cit.; Franco Ferrarotti, Vite di baraccati, Liguori, Napoli 1974; Anna Maria Bruzzone, Ci chiamavano matti. Voci da un ospedale psichiatrico, Einaudi, Torino 1979.
373 A titolo di esempio, Danilo Montaldi, Militanti politici di base, Einaudi, Torino 1971; Enzo Rava (a cura di), I compagni. La storia del Partito Comunista nelle “storie” dei suoi militanti, Editori Riuniti, Roma 1971; Arnaldo Nesti, Anonimi compagni. Le classi subalterne sotto il fascismo, Coines, Roma 1976; Bianca Guidetti Serra, Compagne, Testimonianze di partecipazione politica femminile, 2 volumi, Einaudi, Torino 1977; Giorgio Colorni, Storie comuniste. Passato e presente di una sezione del PCI a Milano, Feltrinelli, Milano 1979.
374 A titolo di esempio, Sesa Tatò (a cura di), A voi cari compagni. La militanza sindacale ieri e oggi: la parola ai protagonisti, De Donato, Bari 1981; Maurizio Carbognin, Luigi Paganelli (a cura di), Il sindacato come esperienza, tomo I, La Cisl nella memoria dei suoi militanti; tomo II, Ventidue militanti si raccontano, Edizioni Lavoro, Roma 1981.
375 A titolo di esempio, Anna Maria Bruzzone, Rachele Farina, La Resistenza taciuta. Dodici vite di partigiane piemontesi, La Pietra, Milano 1976; Lidia Beccaria Rolfi, Anna Maria Bruzzone, Le donne di Ravensbrück, Einaudi, Torino 1978; Erica Scroppo, Donna, privato e politica. Storie personali di 21 donne del PCI, Mazzotta, Milano 1979; Laura Mariani, Quelle dell’idea. Storie di detenute politiche 1927-1948, De Donato, Bari 1982; Nadia Filippini Cappelletto, Noi, quelle dei campi. Identità e rappresentazione di sé nelle autobiografie di contadine veronesi del primo novecento, Gruppo Editoriale Forma, Torino 1983; Nuto Revelli, L’anello forte. La donna: storie di vita contadina, Einaudi, Torino 1985; Liliana Lanzardo, Il mestiere prezioso. Le ostetriche raccontano, Gruppo Editoriale Forma, Torino 1985; Paola Nava, La fabbrica dell’emancipazione. Operaie della Manifattura Tabacchi di Modena: storie di vita e di lavoro, Utopia, Roma 1986.
376 A titolo di esempio, Nuto Revelli, Il mondo dei vinti, Einaudi, Torino 1977; Gianni Bosio, Il trattore ad Acquanegra. Piccola e grande storia in una comunità contadina, a cura di Cesare Bermani, De Donato, Bari 1981.
377 A titolo di esempio, Franco Alasia, Danilo Montaldi, Milano, Corea. Inchiesta sugli immigrati, Feltrinelli, Milano 1975; Cedos (Centro Documentazione Operatori Scolastici di Milano), Storie personali su emigrazione e sottosviluppo
con un modello di ricerca, Mazzotta, Milano 1977.
378 A titolo di esempio, Liliana Lanzardo, Classe operaia e partito comunista alla Fiat, 1945-48, Einaudi, Torino 1971; Pietro Crespi, Esperienze operaie, Jaca Book, Milano 1974; Id., Capitale operaia. Storie di vita raccolte tra le
fabbriche di Sesto San Giovanni, Jaca Book, Milano 1979; Luisa Passerini, Torino operaia e fascismo. Una storia orale, Laterza, Bari 1984; Alessandro Portelli, Biografia di una città. Storia e racconto: Terni 1830-1985, Einaudi, Torino 1985; Giovanni Contini, Memoria e storia. Le officine Galileo nel racconto degli operai, dei tecnici, dei manager 1944-1959, Angeli, Milano 1985; Luigi Ganapini (a cura di), “… Che tempi, però erano bei tempi…”. La Commissione interna della Magneti Marelli nella memoria dei suoi protagonisti, Angeli, Milano 1986.
379 A titolo di esempio, Cesare Bermani, Pagine di guerriglia. L’esperienza dei garibaldini della Valsesia, Sapere, Milano 1971; Daniele Borioli, Roberto Botta, I giorni della montagna. Otto saggi sui partigiani della Pinan-Cichero, Edizioni dell’Orso, Alessandria 1990.
380 A titolo di esempio, Anna Bravo, Daniele Jalla, La vita offesa. Storia e memoria dei Lager nazisti nei racconti di duecento sopravvissuti, Angeli, Milano 1987.
381 Peter Burke, Una rivoluzione storiografica, op. cit., p. 72.
382 Alfonso Botti, Giuseppe Nigro, Fonti orali, storie di vita, storia orale: passato e presente nella ricerca e nel dibattito storiografico in Italia, op. cit.
383 Cesare Bermani (a cura di), Introduzione alla storia orale. Storia, conservazione delle fonti e problemi di metodo, op. cit.
Fabio Bailo, Granai della Memoria, ricerca sui saperi tradizionali orali e gestuali, Tesi di dottorato, Università degli Studi del Piemonte Orientale “Amedeo Avogadro” – Vercelli, 2014
Cenni di Storia della Resistenza nell’Imperiese (I^ Zona Liguria)
- Per tedeschi e fascisti gennaio 1945 avrebbe dovuto segnare la fine dei "banditi" partigiani nel ponente ligure
- Massabò riferisce della situazione delle bande nella provincia di Imperia, bande che sarebbero in gran parte comuniste
- Lo svolgimento del processo non piaceva all'amministratore della Divisione Garibaldi
- La salma di Ivanoe Amoretti è oggi custodita nel sacello 103 del Mausoleo delle Fosse Ardeatine insieme a quelle delle altre vittime dell’eccidio
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Cenni storici sulla Resistenza Intemelia
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- Pajetta indicava ai partigiani imperiesi i collegamenti di frontiera
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- Aiutarli a scappare per raggiungere la zona partigiana
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Adriano Maini
- Reganta
- Simulare con una mano la presenza di una pistola
- Collasgarba, semplicemente
- Miliu
- Luci ed ombre sugli uomini della Missione Flap
- Girovagando
- Ancora i BBS!
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Collasgarba
- Freddi con discutibile lungimiranza preconizzava un’imminente morte del divismo americano
- Ci si propone di seguire il percorso dei soggetti legati all’Autonomia bolognese
- Si è verificato un mutamento di prospettiva circa il rapporto tra letteratura e Resistenza
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- Il risvolto del principio della pluralità delle fonti informative
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