Nei primi anni Sessanta, come approfondirò meglio nel prossimo capitolo, matura in seno alla giunta social-comunista [di Bologna] la consapevolezza che «un difetto […] nei piani urbanistici degli anni cinquanta risiedeva nel fatto che tale pianificazione separava artificiosamente la componente economica dalla componente urbanistica» <230. La diffusione dei comprensori nel resto del territorio provinciale – e poi la loro sostanziale ripresa da parte di tutte le altre province emiliano-romagnole – si pone in diretta continuità con lo sviluppo dei piani intercomunali costruiti attorno alle aree metropolitane, di cui Bologna è naturalmente un indiscusso punto di riferimento. Tali piani, nel tentativo di allargare le maglie della legge urbanistica sopravvissuta alla cesura repubblicana (“legge Gorla”, 1942), costituiscono il tentativo di individuare un livello di governo intermedio in diretto collegato all’istituzione – che appare ormai imminente – delle regioni a statuto ordinario. Nelle intenzioni della classe dirigente locale, inoltre, il comprensorio è un momento particolare di un più generale processo di decentramento politico verso le periferie e assume pertanto il significato di “spazio ottimale”, ovvero di area omogenea dal punto di vista economico-produttivo, per dare corpo a un concreto intervento di programmazione non più fermo agli obiettivi parziali della pianificazione urbanistica <231. Nel caso di Bologna, e non poteva essere altrimenti, questo spazio ottimale coincide con la «cintura industriale» che era in quegli anni al centro del dibattito pubblico e della riflessione sullo sviluppo economico della città <232.
Si tratta dunque di spazi economicamente connotati, emergenti in quanto spazi industriali fino a poco prima scarsamente interessati da questo tipo di attività, che sollecitano l’attenzione e gli sguardi di molti osservatori. Ragionando in prospettiva, proprio l’anticipo sulle procedure burocratiche per l’istituzione del Pic avrebbero permesso alla Giunta comunale di difendersi da un attacco frontale della Camera di commercio, diretto a sottrarle un ambito strategico di governo dello sviluppo, quello sulle aree industriali.
[…] Prima di procedere oltre, è necessario inquadrare il contesto nel quale questo episodio si colloca, al fine di trarne indicazioni utili a comprendere il tipo di cultura di governo che si è andata formando all’interno del Pci bolognese. In tale contesto, non si può non considerare l’evoluzione che il movimento comunista compie nel corso degli anni Cinquanta, a partire cioè dalla morte di Stalin del 1953 fino all’acme del 1956. Com’è noto, in quell’anno si susseguono il XX congresso del Pcus in febbraio – che segna l’avvio della destalinizzazione -, la diffusione mondiale del rapporto Chruščëv sui crimini staliniani in giugno, quindi la repressione della rivolta operaia in Polonia e poi dei moti popolari in Ungheria fra giugno e novembre. Si tratta, notoriamente, di uno dei momenti più drammatici della storia dei partiti comunisti e, per molti versi, della storia politica del Novecento <233.
Senza ombra di dubbio, esso ha fortissime ricadute anche in Emilia-Romagna, com’è chiaro se si guarda alla posizione di assoluto rilievo che la regione ha nel quadro del partito italiano, a partire dalla banale considerazione numerica <234. Per questo la storiografia sul Pci non ha mai potuto esimersi dal confrontarsi con l’esperienza comunista in questa regione, che tende a rappresentare un significato non solo locale. Il 1956 è, infatti, anche l’anno in cui il Pci rende espliciti con l’VIII congresso i presupposti di un’evoluzione, che sarebbe giunta a maturazione nel corso dei successivi due decenni, ma che di fatto è già implicita nelle scelte compiute almeno dal 1944 in poi. Anche per questo, a posteriori, la memorialistica e la storiografia vicina al partito avrebbero collocato questa maturazione sempre più indietro nel tempo, caricando di significato periodizzante proprio il 1956 <235. Al netto di ciò, è
innegabile che solo in quell’anno diventa palese, anche agli occhi degli avversari, che il Pci, con la formula della «via italiana al socialismo», ha rilanciato il proposito di conciliare la prospettiva di una trasformazione socialista – ed è un socialismo concepito come culmine di una ben precisa sequenza stadiale – con il quadro repubblicano italiano <236.
A ridosso di eventi di tale portata, inoltre, bisogna considerare il particolare stato di salute del partito emiliano-romagnolo. In quegli anni, infatti, si sta compiendo un intenso ricambio, che ha l’effetto di portare una nuova leva di funzionari in posizione dirigente. Una delle federazioni più direttamente legata a questa dinamica è proprio quella bolognese, in cui sono presto riconoscibili originali spinte verso un «rinnovamento» della linea e dell’organizzazione di partito <237. È certamente un ricambio anche generazionale <238 in cui gioca un ruolo importante la costituzione di un gruppo, piuttosto compatto, che si raduna attorno alla figura-simbolo di Guido Fanti, futuro sindaco di Bologna, il quale sul finire degli anni Cinquanta è ancora alle prime tappe di una fulgida carriera di funzionario e dirigente comunista, amministratore locale, deputato, senatore e, infine, europarlamentare <239. Non è un caso che da questo gruppo, all’indomani del congresso del ’56, sarebbe arrivata la proposta di avviare un dibattito interno al fine di discutere i problemi organizzativi e «porre l’accento su un esame critico, il più ampio, coraggioso e costruttivo, dell’attività svolta» <240, come recitano le tesi preparate proprio da Guido Fanti con Gian Carlo Ferri e Giuseppe D’Alema <241. La discussione prende così la forma di una conferenza regionale – sulla scorta di iniziative analoghe in tutta Italia, a segnare anche un più convinto appoggio comunista alla mobilitazione per l’attuazione delle regioni <242 – che si tiene nel giugno 1959 nel salone del Podestà di Bologna. Si apre così un momento di intenso confronto, non tanto fra vecchi e nuovi funzionari di partito, quanto piuttosto fra settori maggiormente legati alla cultura politica della Guerra fredda e un gruppo piuttosto consistente che, forte anche dell’esperienza maturata sotto i gonfaloni dei comuni amministrati e del lavoro organizzativo, interpreta la «via italiana al socialismo» in modo squisitamente realistico, tentando di adattare l’organizzazione e l’azione locale in maniera del tutto coerente con le premesse da cui è scaturita la linea.
Ciò che mi sembra palese in questo dibattito, fin dalle tesi, è la finalità esplicita di far precipitare a livello locale, cioè di diffondere nel corpo del partito, la linea politica elaborata al congresso del ’56. È, quindi, netta la sensazione che, assieme alla destalinizzazione, a provocare talune «sfasature» <243 interne – non riconducibili semplicisticamente all’attaccamento popolare al mito di Stalin – sia la consapevolezza che sono diffuse nel partito sensibilità ideali assai poco pronte ad abbracciare con coerenza le implicazioni profonde della discussione del ’56, che pertanto rappresentano una potenziale grave minaccia alla buona riuscita dell’azione politica locale. L’esigenza primaria dei «rinnovatori» è dunque quella di «assicurare una costante visione unitaria e organica […] e il necessario coordinamento delle iniziative e degli impegni locali» <244 quindi di coinvolgere gli iscritti di tutta la regione attorno a «una vigorosa azione di orientamento politico» <245. Ne nasce l’indicazione di un lavoro che procede in direzione duplice: da un lato, di approfondimento della conoscenza della realtà economica e, dall’altro, di conoscenza di quanto si muove nel paese – sostanzialmente, se non esclusivamente, dal punto di vista politico – per poterne correttamente interpretare le ricadute a livello regionale.
[NOTE]
230 Entrambe le citazioni in Piano poliennale, 1963: 246.
231 Sulla centralità di questi aspetti nell’elaborazione politica dei primi anni Sessanta cfr. G. Campos Venuti, 1961: 42-46.
232 La cintura tratteggiata giornalisticamente nella Schermografia, infatti, comprendeva già il cuore dei comuni del futuro Pic, nel quale verranno inseriti Anzola-Crespellano a ovest e Minerbio-Budrio a est. L’area comprensoriale del Pic nel 1969-70 risulterà ulteriormente allargata fino a comprendere Castel San Pietro Terme (che “prolunga” lo sviluppo della via Emilia dopo Ozzano dell’Emilia) e Bazzano (sulla seconda direttrice appenninica di sviluppo industriale).
233 Cfr. E.J. Hobsbawm, 1997. Sull’importanza globale del momento cfr. M. Flores, 1996. Per una panoramica sul Pci dinanzi a questi fatti, cfr. G. Gozzini, R. Martinelli, 1998: 505-571; A. Agosti, 2003: 429-464; M. Flores, N. Gallerano, 1992: 105-129. Non è un caso che i fatti del 1956 agitino ancora oggi il dibattito pubblico: v. le lettere recentemente declassificate che documentano il dissenso di E.P. Thompson (I. Cobain, 2016).
234 Per il periodo 1959-70 è concentrato in Emilia-Romagna una percentuale di adesioni al partito che crescono progressivamente dal 24,9 al 27% (cfr. S. Giordani, 2014: tabelle); a questo si somma una netta prevalenza negli organi di governo locale per quasi tutte le province, con posizioni più debole soltanto per le province di Piacenza e Parma (cfr. Banca Dati Elettorale, Assemblea legislativa Emilia-Romagna, Archivio storico elezioni, http://consultaelezioni.regione.emilia-romagna.it/elezioni/storico.jsp). Perciò, la rilevanza nazionale del partito nella regione è un dato acquisito in casa comunista – a partire da P. Togliatti, 1946; 1959 (1974) – e riconosciuto dagli osservatori contemporanei, anche quelli meno simpatetici: cfr. G. Galli, 1963; L. Pedrazzi, 1963; G. Degli Esposti, 1966.
235 Si tratta di un metodo ricorrente nella pratica politica comunista, che corrisponde a precise esigenze di «continuità» che nell’azione politica accompagna qualsiasi proposta di «rinnovamento»; a riguardo cfr. M. Flores, N. Gallerano, 1995: 115; ma anche D. Montaldi, 1975, il cui metodo di analisi è attento a far emergere le distorsioni di questo metodo.
236 Cfr. G. Gozzini, R. Martinelli, 1998: 572-638. Una puntuale ricostruzione del problema del «rinnovamento nella continuità» che analizza le «sfasature» interne al partito è in R. Martinelli, 2004: 363-384.
237 «Rinnovamento» sarà, per appena quattro mesi all’inizio del 1960, il nome della rivista attorno alla
quale si raggruppa il circolo di funzionari bolognesi che si fanno portatori di alcune istanze di
cambiamento emerse in quella fase.
238 Il gruppo dei «rinnovatori» – cui ci si riferisce talvolta come «nouvelle vague» del comunismo bolognese o emiliano (G. Degli Esposti, 1966) – non è definibile su parametri esclusivamente generazionali, che pure prevalgono. Fra i bolognesi, il gruppo annovera senz’altro Gian Carlo Ferri (1929), Umbro Lorenzini (1925), Mario Soldati (1924) e Giuseppe Venturoli (1920) a cui si aggiungono Renato Zangheri (Rimini 1925), Giuseppe Campos Venuti (Roma 1926) e Sergio Cavina (Ravenna 1929).
239 Nato a Bologna nel 1925, nel novembre 1943 risponde alla leva della Repubblica di Salò per poi disertare l’anno dopo e prendere servizio con i combattenti partigiani. Si iscrive al Pci nel 1945 e assume incarichi da funzionario, nel 1957 è consigliere comunale per il gruppo “Due torri”, l’anno dopo è vicesegretario della federazione provinciale, nel 1960 diventa prima segretario provinciale, poi entra nel Comitato centrale del Pci. Dal 1966 al 1970 è sindaco di Bologna succedendo a Giuseppe Dozza, primo presidente della Regione Emilia-Romagna nel 1970, più volte deputato e senatore, dal 1979 è membro del Parlamento europeo, di cui diviene vicepresidente negli anni Ottanta. Per un profilo biografico sintetico cfr. P. Furlan, s.d.; più in dettaglio S. Alongi, 2012.
240 Pci ER Tesi, 1959, p. 3.
241 G. Fanti, G.C. Ferri, 2001: 47.
242 Fra il 1959 e il 1961 si hanno conferenze regionali in Abruzzo, Sicilia, Veneto, Toscana, Marche, Lazio, Basilicata, Friuli-Venezia Giulia, cfr. Fger, APCI Bo, Ce, b. 1, f. 5, Per l’iniziativa economica regionale del partito, novembre 1959. Sulla lenta maturazione di una sensibilità regionalista nel Pci cfr. P. Bonora, 1984.
243 Faccio ancora riferimento alla terminologia di R. Martinelli, 2004: 363-384.
244 Pci ER Tesi, 1959, p. 5.
245 Ivi, p. 6.
Alfredo Mignini, Piccole imprese grande Bologna? Spazi della produzione e culture del lavoro autonomo nel bolognese fra anni Sessanta e Settanta, Tesi di dottorato, Alma Mater Studiorum – Università di Bologna, 2017
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