Il 26 luglio 1944, a Sappada, i partigiani del Distaccamento Oberdan presero d’assalto la gendarmeria di Bach

La prima azione dei partigiani in territorio cadorino avvenne il primo maggio 1944, quando Lino De Luca e Tita Tabacchi scesero dal rifugio di Pian De Vedorcia per recarsi presso gli stabilimenti della «Safilo» e della «Lozza» a Calalzo di Cadore per impedire l’inizio regolare del lavoro alle ore 8:00 del mattino. Rimasero 45 minuti dinnanzi alle fabbriche e distribuirono volantini incitanti all’insurrezione. Il primo giugno, invece, i partigiani bloccarono due corriere che trasportavano i coscritti di leva del 1925 <113 verso Belluno.
L’obiettivo era quello di convincere i ragazzi ad appoggiare la causa partigiana ed una decina di essi rispose positivamente all’appello, mentre gli altri furono sollecitati a far ritorno alle proprie case <114. Il 10 giugno si effettuò un’azione contro i carabinieri della caserma di Cima Gogna, nei pressi di Auronzo, i quali collaboravano con i tedeschi; i partigiani riuscirono a disarmarli e requisirono un camion ed una mitragliatrice leggera. Con il passare del tempo si volle dare uno spessore sempre più consistente al Distaccamento Cadore e per questo Alessandro Gallo si premurò di arruolare nella Brigata due marconisti affinché si mettessero in contatto con gli alleati per il lancio di armi, viveri e vestiario <115. Tuttavia, ottenere questi aiuti inizialmente non fu facile; infatti gli alleati erano piuttosto diffidenti verso i movimenti di liberazione europei. Inoltre, ponevano il fronte italiano in secondo piano rispetto a quello atlantico e a quello francese.
Fu solo dopo il maggio del 1944, con la capitolazione di Roma, che le forze alleate mutarono atteggiamento e cominciarono a riconoscere l’autorità politica del Comitato di liberazione nazionale dell’alta Italia (Clnai <116) e a sostenere i singoli Comitati in modo massiccio. Il 10 giugno 1944 il Comando generale delle Brigate Garibaldi ordinò ad ogni reparto di procedere con un attacco generale, poiché, dopo lo sbarco in Normandia <117, si diede inizio alla liberazione dell’Europa intera. Nello stesso tempo il Cln di Belluno si era schierato apertamente a favore del nuovo governo di Bonomi, che era subentrato a quello di Badoglio <118. Il direttivo del Cln ordinò ai reparti partigiani di ostacolare ogni mossa del nemico, impedendo la requisizione degli autotreni e assaltando gli autocarri e le vetture che circolavano in tutta la provincia e per dirigersi verso i centri di raccolta tedeschi. L’obiettivo del Cln era quello di garantirsi il controllo della provincia per evitare ogni possibile ostacolo all’avanzata alleata. Fu così che a Domegge di Cadore, il 30 giugno 1944, un gruppo della Brigata Calvi attaccò la caserma dei carabinieri, al servizio dei tedeschi, prelevando armi ed alcuni preziosi documenti come lo schedario in cui erano stati segnati i nomi di tutti i sorvegliati politici del paese nonché quelli dei giovani che dopo l’8 settembre avevano disertato il servizio militare. Il maresciallo della caserma venne catturato e dopo aver tentato la fuga, venne ucciso a colpi di fucile <119. Il 10 luglio vennero definitivamente eliminate le stazioni dei carabinieri di Domegge e di Auronzo di Cadore ed il compito di polizia giudiziaria ed amministrativa venne affidato ai podestà dei relativi paesi <120.
A questo punto fu necessario unire le forze per sferrare l’attacco definitivo al nemico comune, perciò il Distaccamento Cadore cercò di intrecciare un rapporto di collaborazione con altre formazioni partigiane limitrofe, quali quelle della Carnia (dove agiva soprattutto la Brigata Osoppo) ed allo stesso tempo s’impegnò a reclutare nuovi elementi tra le proprie fila. Ai giovani cadorini se ne unirono molti provenienti dalla pianura e in alcuni casi perfino da altre regioni <121 cosicché nel luglio del’44 il nucleo partigiano poteva già contare su 150 unità <122. Vennero formati tre Distaccamenti distinti, che andarono a costituire una nuova Brigata il 4 luglio 1944. Dopo questa riforma la Calvi assunse il nome di Brigata Cadore e a sua volta venne suddivisa in tre Distaccamenti indipendenti: quello Oberdan operativo in Comelico, quello Bepi Stris dislocato nella Val Boite e quello Cadore attivo nel Centro Cadore. Inizialmente si creò anche un gruppo supplementare che presiedeva la zona dell’Oltrepiave <123, ma che venne successivamente assorbito dal Distaccamento Oberdan. La crescita progressiva del movimento non era di facile gestione ed i combattenti veterani avevano il compito di addestrare gli ultimi arrivati. Ciò creava non poche difficoltà di carattere organizzativo.
Le azioni partigiane proseguirono per tutta l’estate del ’44. Il 26 luglio, a Sappada, i partigiani del Distaccamento Oberdan presero d’assalto la gendarmeria di Bach <124. Il 27 luglio venne assaltata la caserma del Sod ovvero del «Servizio di Ordine Doganale <125» a Cortina, con l’obiettivo di danneggiarne la stazioncina e di eliminarne la relativa sbarra di confine <126. Il 28 venne sabotato il ponte sopra al Rio Vallesina e si bloccò la linea ferroviaria tra
Calalzo e Cortina e lo stesso giorno 19 garibaldini del Bepi Stris, guidati dal «Garbin» riuscirono a danneggiare in diversi punti le linee telefoniche <127.
Nell’estate del 1944, con la trasformazione della Brigata Nannetti in Divisione d’Assalto, composta dalle sei Brigate Vittorio-Veneto, Tollot, Mazzini, Gramsci, Pisacane e Calvi, vennero riorganizzati i vertici di comando e si stabilirono i seguenti ruoli: «Garbin» fu nominato comandante di Brigata, Vittorio Sala, detto «Jack», divenne comandante del Distaccamento Cadore, Francesco Barcelloni Corte, detto «Spartaco», assunse la carica di Commissario politico, mentre Attilio Stiz, detto «Bill», fu posto come vicecomandante <128.
[NOTE]
113 A bordo dei due mezzi vi erano 35 giovani. Si veda Musizza e De Donà, Guerra e Resistenza in Cadore, p. 72.
114 Quelli che si aggregarono ai partigiani vennero trasportati nel territorio di Lozzo di Cadore, in un fienile, dove trovarono l’assistenza di Gino De Meio «Somin», membro del Cln locale. Ibidem, p. 72 e cfr. anche ivi nota n. 92.
115 Il 13 giugno 1944 nella località del Passo Mauria, nel confine tra il Veneto ed il Friuli, era stato programmato un aviolancio di viveri e di armamenti, probabilmente a causa di un delatore, i tedeschi vennero a conoscenza del fatto e sorpresero i partigiani in attesa uccidendone sei ed impedendo loro il completo recupero del materiale lanciato. Cfr. Musizza e De Donà, Guerra e Resistenza in Cadore, pp. 77-87 e si veda anche Arturo Fornasier, Il nonno racconta, memorie autobiografiche sulla vita in Cadore, la guerra e la Resistenza, Istituto Storico Bellunese della Resistenza e dell’Età Contemporanea, II Edizione, Belluno, 1995 pp. 48-50.
116 Diretto da A. Pizzoni. Cfr. Musizza e De Donà, Guerra e Resistenza in Cadore, p. 89.
117 Che avvenne il 6 giugno 1944 con la messa in atto dell’operazione «Overlord». Si veda Brancati, Popoli e civiltà, p. 293.
118 Ivanoe Bonomi (1873-1951) capo del Cln, fu tra i più illustri rappresentanti dell’antifascismo moderato, il 18 giugno divenne capo del governo, in sostituzione di Pietro Badoglio e restò in carica fino al 21 giugno 1945, sostenuto anche dagli alleati. Ibidem, p. 293.
119 Cfr. Musizza e De Donà, Guerra e Resistenza in Cadore, pp. 108-109.
120 Ibidem, p. 110.
121 Soprattutto dall’Emilia Romagna, grazie all’accordo tra la «Federazione Comunista» di Bologna ed il Cln di Belluno. Ibidem, p. 136.
122 Ibidem, p. 134.
123 Tale Distaccamento era comandato da Gianbattista Martini di Pelos di Cadore e da Mario De Michiel di Lorenzago, quando fu assorbito dal Distaccamento Oberdan l’unico capo divenne Celso Guglielmo detto «Nemo». Si veda Musizza e De Donà, Guerra e Resistenza in Cadore, p. 36.
124 Questo episodio provocò l’ira dei tedeschi, che il mattino successivo occuparono i paesi di Borca e di S. Vito di Cadore per dar luogo ad una rappresaglia, tuttavia l’intervento del podestà di Cortina De Zanna scongiurò siffatto rischio e i presunti colpevoli (5 partigiani) vennero imprigionati e deportati al campo di Bolzano. Cfr. Ibidem, p. 143.
125 Questa caserma veniva comunemente chiamata «Dogana Vecchia». Cfr. Fornasier, Il nonno racconta, pp. 56-59.
126 Si veda Musizza e De Donà, Guerra e Resistenza in Cadore, pp. 139-140.
127 Ibidem, p. 144.
128 Cfr. Vendramini, Aspetti militari della resistenza bellunese e veneta, pp. 78-81.
Vittorio Lora, Terenzio Baldovin e Lozzo di Cadore. Public history e stratificazioni della memoria in una comunità di montagna, Tesi di laurea, Università Ca’ Foscari Venezia, Anno accademico 2011/2012

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Soprattutto Sesto San Giovanni non si vive come periferia posta al Nord della cerchia dei Navigli. Anzi, si vive come il centro di Metropolis

E fin da piccolini, noi ragazzini di Sesto San Giovanni avevamo imparato dai babbi a riconoscere le fabbriche cintate dalle lunghe mura di mattoni rossi: il Vittoria, l’Italia, il Vulcano, che allungavano la Falck fin quasi a Monza, il Siderurgico, la Ferroviaria, l’Aeronautica della Breda e poi la Magneti Marelli, la Osva, la Ercole Marelli degli impianti elettrici, la Campari della ricetta segreta per l’aperitivo diventato famoso nel mondo… Tutti più o meno – famiglie intere – partigiani senza fucile, senza i quali la lotta armata ovunque e comunque combattuta sarebbe sicuramente stata destinata allo scacco.
E dunque personaggi veri e comuni del Secondo Risorgimento italiano: quelli che ci hanno lasciato in eredità un idem sentire senza il quale il nostro essere popolo correrebbe rischi ancora maggiori. E poi i cortili, la parrocchia, le biciclette. E’ la resa dell’atmosfera del tempo. Non manca nulla di reale e di tipico a una Sesto San Giovanni così ricostruita da far pensare alla meticolosità con la quale uno dei più grandi registi del dopoguerra, Luchino Visconti, amava recuperare gli interni e se possibile perfino gli esterni dei suoi films. E poi don Enrico Mapelli, il prevosto, in sintonia con la sua gente, non ha proprio l’aria di una sorta di nunzio periferico mandato a rappresentare la religione cattolica in partibus infidelium. Brianzolo, fattosi sestese tra i sestesi, ha tutti i verbali di polizia e prefettizi che testimoniano contro di lui a causa di un antifascismo neppure dissimulato dal pulpito. Rischia la vita come tutti, perché questa è per tutti la posta in gioco: non il pane o la carriera. Nella città ridotta in stato d’assedio per le esigenze della produzione bellica non mancano le figure opache, quelle sinistre degli ufficiali nazisti, quelle insopportabili dei piccoli gerarchi fascisti e dei repubblichini della Muti. Ovviamente fanno la loro comparsa anche gli uomini per tutte le stagioni. Questa è la città che resiste, che si ribella e che, pagando un costo altissimo, raggiungerà finalmente la libertà e nuovi livelli di solidarietà. Perché le ragioni della lotta sono le medesime della vittoria. Entrambe estremamente complesse e plurali. Dove le differenze sono costitutive del tessuto sociale cittadino e alla fine l’avranno vinta, proprio per questo, sul pensiero unico della dittatura. Da una parte maschere al capolinea; dall’altra un’umanità che si cerca su un territorio che non può essere definito periferico e che ritrova le ragioni di una cittadinanza smarrita, dove è chiaro fin dall’inizio che la nuova democrazia repubblicana non sarà un guadagno fatto una volta per tutte.
Metropolis
Soprattutto Sesto San Giovanni non si vive come periferia posta al Nord della cerchia dei Navigli. Anzi, si vive come il centro di Metropolis, e nel suo titanismo è anzi la cerchia dei Navigli ad essere vissuta come periferia futura. Vengono così esplicitate visioni di spropositata grandezza paranoica che ancora nel 1943 trovavano spazio sulle pagine del “Popolo di Sesto”. Vi si favoleggia – abbandonato ogni senso della misura – di una città di due milioni di abitanti (Sesto San Giovanni, non Milano), treni sotterranei e moderne fabbriche in vetro e cemento, che avrebbero inghiottito Milano e necessariamente provveduto ai bisogni di una “…città di mercanti operosi e avidi che non producono granché ma che consumano molto…”. <105 Il lavoro continua ad essere la radice onnivora della città del lavoro, in uno scenario urbano che cambia in fretta per le innovazioni della tecnologia e per l’affluenza dei migranti da tutte le regioni del Paese. Detto alla plebea: cittadini sestesi si diventa. E’ questo il senso della vita quotidiana nella Sesto delle grandi e piccole fabbriche, dove “…lo sviluppo di nuove forme di organizzazione del lavoro che trasformavano e riducevano l’intervento umano, la pervasività della fabbrica come dispensatrice di risorse economiche ma anche sociali e identitarie, infine la deriva di uno scenario urbano che s’infittiva di case e non lasciava quasi spazio a dimensioni esistenziali diverse dal lavoro e dalla vita intima della famiglia davano vita a nuove modalità di convivenza sociale, scandite dall’individualizzazione, da nuove richieste di disciplina e di specializzazione…”. <106
E’ lo scenario epocale di una città dove il fascismo e l’antifascismo affrontano a viso aperto, e da punti di vista contrapposti, il fordismo e il titanismo che ne costituisce insieme l’anima e il sogno. Entrambi infatti si confrontano con il faustismo dei luoghi e dei soggetti. Due antropologie a confronto: le personalità caricaturalmente nicciane del fascismo, e le masse in cerca di protagonismo dell’antifascismo. Dove appunto la quotidianità e l’epica incredibilmente si metticciano e drammaticamente contendono. E dove il confine convenzionale tra un’epoca e l’altra, tra un popolo e un altro popolo sarà segnato da un 25 Aprile che comincia in un’alba precoce a muovere i suoi passi dal vicino quartiere di Niguarda. Perché nel culmine della lotta è il centro ad essere risucchiato dalle periferie dell’hinterland. La Milano fascista e quella liberata sono impensabili senza il tumulto delle sue periferie industriali. A farne testimonianza è una nutrita serie di documentatissimi volumi – in particolare per iniziativa dell’Istituto per la Storia dell’Età Contemporanea di Sesto San Giovanni – che sono approdati nelle librerie in occasione del settantesimo anniversario del 25 Aprile. <107
Morfologia dell’hinterland
L’hinterland industriale chiede di essere riletto anche nelle strutture e nelle ragioni che lo hanno prodotto. Come paesaggio ed anche come lo scrigno di una serie di memorie del sottosuolo. Il fordismo non solo non lo ha reso isometrico e banale, ma ne ha conservato i cimeli di un passato che non può essere consegnato facilmente all’oblio. Il rapporto città – campagna non solo non è stato cancellato né rimosso, ma si evidenzia in una serie di residui e di “ruderi” che ne impediscono una lettura meramente presenzialistica. Annota Flavia Cumoli:. “…Il forestiero che a metà degli anni Cinquanta, giunto per la prima volta Sesto San Giovanni, ne percorreva le vie cittadine fino a raggiungerne le frazioni, restava immediatamente sorpreso dal contrasto tra la perfetta identificazione della città con la sua industria e il sopravvivere degli ultimi tratti di paesaggio rurale. Questa ricca commistione urbano-rurale di cascine e fabbriche, operai e contadini, che aveva caratterizzato l’affermarsi del modello di industrializzazione sestese nel corso di tutto il secolo, ha marcato profondamente la memoria della generazione di immigrati post-bellici che, dopo aver lasciato la campagna per il cuore industriale della “capitale del miracolo”, si ritrovarono con stupore a vivere in una sorta di villaggio metropolitano dove le tracce fisiche dei residui di campagna, sopravvissute al primato delle cattedrali del lavoro, venivano a mano a mano fagocitate dall’inesorabile crescita della metropoli…” <108.
Questa voracità inarrestabile delle strutture industriali e metropolitane non riguarda soltanto il paesaggio ma anche il sottosuolo. Cosicché non risulta casuale lo stupore di chi, lavorando alle bonifiche delle aree industriali dismesse, si imbatte in caverne e manufatti insospettati che popolano quanto sottostà agli asfalti. Cunicoli e vie d’acqua sommerse costituiscono infatti un intrico che svela improvvisamente labirinti insospettati insieme a ordigni bellici dimenticati. Un’esperienza che sorprese i pochissimi e privilegiati osservatori che Ermanno Olmi ammise alla propria opera di documentazione filmica quando i proprietari decisero di smantellare i capannoni. Le lunghe braccia di imponenti macchine che Olmi stesso definiva “le divoratrici” si avventavano a tetti e lamiere producendo tonfi e rumori, insieme a polveroni, che assumevano man mano l’aspetto di un’apocalisse industriale. Recentemente Michele Serra ha dato conto, nel testo melodico “…Sotto di noi il diluvio…”, <109 dello scorrere e ribollire di acque sotto il suolo del capoluogo lombardo. “…Chissà, il rombo profondo delle fabbriche di Sesto San Giovanni, come si ripercuotevano nelle viscere di Lombardia, dentro e lungo la falda freatica, in quei limi e quelle ghiaie sommerse. Fino a dove arrivava, per le sue vie sotterranee, impercepibile in superficie, quella musica? Fino a dove si spingeva il rumore della fabbrica? A ridosso delle Alpi? Agli argini del Po? E lungo il grande fiume si scaricava a mare anche il frastuono?…” <110 La risposta non si fa attendere ed assume il carattere di una apocalisse tenuta sotto controllo. “…L’industria
lombarda l’ha bevuta, l’acqua del sottosuolo, per generazioni. Ne ha pompati da madre terra interi oceani, acqua quanta ne basterebbe per lavare le galassie, per abbeverare i viventi di ogni pianeta, per riempire ogni voragine e bonificare ogni deserto. Ogni giorno. Per anni. Pompe gigantesche risucchiavano l’acqua di falda. La usavano per raffreddare, lavare, temperare, levigare. La usavano per controllare e domare il fuoco, mutare le incandescenze in forme solide, azionare meccanismi a pressione, muovere pistoni, inondare vasche, trascinare resti di lavorazione nelle loro cloache tenebrose…” <111. Poi l’acqua è risalita quanto basta per riaffiorare nell’aria aperta dalla bocca incolore
di qualche fontanile, che la erutta silenzioso. Mentre sono ancora vivi certi vecchi milanesi che dicono di avere fatto, quando erano bambini, il bagno nelle rogge o nei canali che attraversavano la città. Raccontano quei vecchi di acque limpide, piene di pesci messi in fuga dai tuffi dei ragazzini…
Fu il fascismo a decidere di coprire i Navigli, perché, al di là di ogni retorica, i Navigli erano fetidi anche quando le chiatte li solcavano e gli acquarellisti li riproducevano… Per non parlare degli sciami di zanzare che raggiungevano i balconi soprastanti e invadevano i tinelli. Serra diventa impietoso: “…Milano non ha nascosto le sue acque per cancellare un passato di scie d’argento, di prospettive pittoresche, di battellieri che salutano allegri dalla chiatta. Le ha nascoste per dimenticare le sue viscere e la sua puzza…”. <112 Infatti nella Milano novecentesca era diventato volgare mostrare i Navigli. E come già nell’epoca fascista il razionalismo urbano preferiva viaggiare e correre sugli asfalti.
La propaganda
“Metropolis”, prima di diventare Stalingrado é la cittadella dell’acciaio coccolata dal regime. Mussolini la tiene d’occhio la segue, anche se non la ama e frequenta come la Torino della Fiat, degli Agnelli e di Valletta. “Metropolis” ha strutture possenti e insieme un immaginario altrettanto possente che la tiene unita con un’anima indotta. Strumento di questo immaginario che si occupa anche delle anime e non soltanto dei corpi è la propaganda, cui il Duce assegna un ruolo assolutamente di primo piano ed invasivo. Un modello che verrà superato dal vicino alleato nazista, dove l’abilità di Goebbels, che rasenta la genialità, riuscirà a precorrere e preparare anche le imprese belliche più avventurose – l’invasione della Cecoslovacchia e della Polonia – e in certo senso a legittimarle non soltanto agli occhi dei nazisti. Mussolini in persona (non c’è nel regime italiano l’analogo di Goebbels) riserva cure continue ed un impulso vigoroso alla macchina della propaganda. Essa dilaga nella Grande Proletaria dalle campagne alle forme più avanzate dell’industrializzazione fordista. Quel che ha puntualmente descritto Pennacchi in visione fascio-comunista per l’agro pontino attende ancora uno sguardo e una scrittura altrettanto penetranti per l’Italia industriale. Per Torino, Genova e Milano. Insomma ci vorrebbe un approccio all’altezza di quello usato da Walter Benjamin nel suo ‘Trauerspiels’ per il dramma barocco tedesco. È lo scenario complessivo che deve essere indagato, corpo ed anima, le strutture possenti dell’industrializzazione pesante e delle grandi fabbriche insieme a quelle di una propaganda che si occupa di “formare” i nuovi italiani, nelle campagne come nelle grandi città, introducendoli all’epopea imperiale. C’è continuità infatti tra il balilla che la mattina in divisa prende parte all’alzabandiera e la criminalità razzista e spaccona del maresciallo Graziani nelle imprese africane. In questo senso il disegno fascista è compatto ed onnicomprensivo, e proprio a seguito di questo muoversi a tappeto, a partire dagli anni dell’infanzia, non potrà non scontrarsi con la Chiesa italiana ed il Vaticano, da sempre presenti nel foro interno come nella società civile con una centralità a sua volta irrinunciabile sul piano pedagogico e pastorale. Per le pretese invasive del regime lo spazio pubblico diventa oggetto storico di contesa, ma anche la quotidianità e il foro interno della coscienza vengono presi di mira e tenuti cari da entrambi i versanti antagonistici. Per questa ragione Schuster non si risparmierà durante le cresime, che introducono il giovinetto alla milizia cristiana in quanto soldato di Cristo, dal sarcasmo con la concorrenza balilla. La partita è veramente a tutto campo, a partire dalle giovani coscienze e quindi da quella quotidianità che è cara alle parrocchie mentre interessa e attiva il regime. Non c’è Costantino senza prima il nascondimento periferico e la povertà di Betlemme. Sesto San Giovanni, capitale dell’hinterland industriale, diventa a sua volta inevitabilmente il campo di questa contesa. Qui non a caso il regime erige le strutture della propria propaganda: nelle scuole, nelle fabbriche, nelle piazze, con gli altoparlanti che diffondono la voce dell’Eiar, struttura portante di tutto il regime, dalla penetrazione familiare alle parate di massa.
[NOTE]
105 Articolo del 6 febbraio 1943, in A. Geminiani (a cura di), Il Novecento, citato in Laura Francesca Sudati, Tutti i dialetti in un cortile. Immigrazione a Sesto San Giovanni nella prima metà del ‘900, Guerini e Associati, Milano 2008, p. 164
106 Laura Francesca Sudati, Tutti i dialetti in un cortile. Immigrazione a Sesto San Giovanni nella prima metà del ‘900, op. cit., p. 163
107 A cura di Giuseppe Vignati, La resistenza in una grande fabbrica milanese. Il diario di Angelo Pampuri operaio della Breda, Mimesis, Milano 2015. Giuseppe Valota, Dalla fabbrica ai lager. Testimonianze di familiari di deportati politici dall’area industriale di Sesto San Giovanni, Mimesis, Milano 2015. Fabio Cereda e Giorgio De Vecchi, Sesto San Giovanni 1943-1945. Scenari della Liberazione, Tarantola Editore, Milano 2015. Damiano Tavoliere, Beppe e i suoi fratelli. Giuseppe Carrà e altri compagni di ventura le coscienze più alte nel secolo più intenso a Sesto San Giovanni, Tarantola Editore, Milano 2015
108 Flavia Cumuli, Un tetto a chi lavora. Mondi operai e migrazioni italiane nell’Europa degli anni Cinquanta, Guerini e Associati, Milano 2012, p. 192
109 Scritto da Michele Serra per la musica di Fabio Vacchi, l’opera è dedicata al rapporto tra Milano e le sue acque. In “la Repubblica”, giovedì 17 settembre 2015, p 63
110 Ibidem
111 Ibidem
112 Ibidem
Giovanni Bianchi e Andrea Rinaldo, La Resistenza dalla foce. Quale nazione per gli italiani postmoderni, Eremo e Metropoli Edizioni, Sesto San Giovanni, aprile 2017

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Langer delinea quindi un’idea di “pace tra gli uomini e con la natura”, complessa e trasversale

Alexander Langer fu convintamente un uomo di pace. Le istanze di costruzione di una cultura e una politica nonviolenta sono il filo conduttore non solo dei suoi scritti, ma anche e soprattutto della sua esperienza di vita.
Oltre a quello della sua formazione cattolica, furono due gli ambiti che più contribuirono a consolidare la vocazione pacifista di Langer. Il primo fu quello fiorentino degli anni Sessanta, soprattutto nel rapporto con padre Ernesto Balducci, dal quale egli apprese l’abilità da “uomo planetario” di leggere le sfide del mondo di oggi secondo una prospettiva di interdipendenza e complessità. <1 Grande rilievo ebbe inoltre il periodo che Langer trascorse, a partire dal 1973, in Germania Federale, durante il quale entrò in contatto con il movimento pacifista tedesco, facendo propri gli aspetti organizzativi e relativi agli strumenti di azione che il popolo della pace italiano non era ancora riuscito a darsi con compiutezza.
Queste esperienze avrebbero certamente avuto minore rilievo se non avessero interpellato una personalità già di per sé intimamente nonviolenta, votata alla conciliazione più che alla divisione, animata da un profondo istinto di giustizia e sempre portata alla ricerca del dialogo.
D’altra parte, non è possibile dimenticare l’urgenza con la quale Langer si impegnò, personalmente e in qualità di rappresentante dei cittadini, per contrastare la logica violenta che a suo modo di vedere permeava le società e le istituzioni politiche e economiche.
Il complesso degli scritti langeriani struttura una concezione pervasiva della violenza, che non coincide con il mero uso delle armi, ma, in un’ottica più ampia, rappresenta una logica che il mondo contemporaneo ha ormai interiorizzato e che ne regola, ormai quasi incontrastata, i rapporti sociali ed economici. Da una parte essa si rivolge contro gli uomini, quando assume il volto di un nazionalismo che crea divisioni o nel momento in cui condiziona le relazioni economiche perpetrando un’iniqua distribuzione delle risorse che a sua volta genera discriminazioni e povertà.
D’altro canto, la violenza colpisce duramente anche la biosfera compromettendo, spesso irrimediabilmente, gli equilibri ambientali e il patrimonio naturale a disposizione delle generazioni presenti e future.
Langer delinea quindi un’idea di “pace tra gli uomini e con la natura”, <2 complessa e trasversale: è attenta al presente ma mantiene sempre un’ottica di lungo periodo, condanna empietà e soprusi a tutti i livelli e nelle loro forme molteplici, non è separabile dalle cause della giustizia sociale e dell’ambientalismo. (3)
Il legame profondo che Langer individua tra la solidarietà umana e il rispetto per la natura gli permette di superare l’antropocentrismo classico e proporre una sua concezione “biocentrica” (4) del mondo, all’interno della quale pace e tutela della vita trovano la loro sintesi in quello che lo stesso intellettuale altoatesino definisce Oecopax, un approccio ecologista alla pace. <5
Altrettanto saldo può definirsi il rapporto tra l’impegno pacifista e nonviolento e un altro dei temi centrali della riflessione di Langer: il rispetto e la convivenza tra diversi. Le derive violente che creano tensioni tra persone e popoli fino a sfociare, nei casi più estremi, in sanguinosi conflitti armati nascono dall’incapacità degli uomini e delle istituzioni di gestire la convivenza plurale e plurietnica all’interno dello stesso territorio.
Una necessità si erge imperiosa su tutte le altre: bandire ogni forma di violenza, reagire con la massima decisione ogni volta che si affacci il germe della violenza etnica, che – se tollerato – rischia di innescare spirali davvero
devastanti e incontrollabili. <6
2.2 Nazionalismo e separatismo etnico: i germi della violenza sociale
Langer colloca i fanatismi etnici e patriottici tra gli ostacoli principali alla costruzione di contesti sociali improntati alla mutua tolleranza e alla convivenza pacifica. La tendenza a preservare le proprie possibilità economiche e sociali e il timore nei confronti del diverso possono in parte spiegare la diffidenza che individui e gruppi provano nei confronti di persone appartenenti ad altre etnie, ma è del tutto inaccettabile che i governi, le amministrazioni politiche e il mondo della cultura possano non semplicemente tollerare, ma addirittura veicolare e incentivare pratiche di differenziazione e separazione etnica. La legittimazione su ampia scala di diritti e garanzie legati
esclusivamente a un’appartenenza rischia di compromettere gli equilibri sociali, di creare contrasti e di degenerare in pericolosi rigurgiti nazionalisti.
Langer definisce il nazionalismo come una “forma istituzionalizzata dell’egoismo collettivo”. <7
“Il demone nazionalista […] si diffonde con grande rapidità, opera una semplificazione collettiva di inimitabile efficacia (al pari del razzismo e del fanatismo religioso), distingue con nettezza tra “noi” (amici) e “loro” (nemici), fa rapidamente proseliti, emargina (e magari punisce) come traditore chi non è d’accordo e non canta nel coro, suggerisce di passare dalle parole ai fatti e di rendere più netta (possibilmente fisica) la separazione tra amici e nemici, si nutre di simboli e richiami che rafforzano l’identità collettiva ed aiutano a compattare tutti, nasconde e rimuove bene – almeno temporaneamente – i problemi economici e sociali ed unisce ricchi e poveri in nome di un “noi” etnocentrico che esclude (o sottomette) gli ‘altri’, per includere invece, persino forzatamente, tutti quelli della propria parte”. <8
Pur non negando il ruolo saliente della dimensione etnica nel processo di costruzione dell’identità sociale, Langer tuttavia ne rifiuta con fermezza l’esclusività. L’appartenenza etnica non rappresenta l’unico fattore di caratterizzazione identitaria all’interno di uno stato o di una regione, le cui popolazioni invece condividono trasversalmente legami territoriali, significati e riferimenti valoriali.
Se da una parte egli considera legittime le rivendicazioni di autonomia di tutte le comunità locali, dall’altra ritiene errato pensare che laddove è presente un’etnia non possa esserci spazio per altre.
Oggi ancor più degli anni in cui Langer visse, i suoi scritti esprimono la necessità di sviluppare una cultura diffusa del dialogo e della convivialità. La totale assenza di contesti omogenei dal punto di vista etnico e culturale, definitivamente sancita dai fenomeni migratori su larga scala, pone la questione delle prospettive di sviluppo sociale nei termini di una scelta tra esclusivismo e convivenza.
La via proposta dall’intellettuale altoatesino è chiaramente la seconda e prevede in primo luogo una valorizzazione della dimensione territoriale a discapito di quella etnica o nazionale. Lo sviluppo di un senso di appartenenza comune tra le persone conviventi sul medesimo territorio crea un legame forte con esso e tra le generazioni che vi si susseguono. Al contrario, l’appiattimento sulla distinzione etnica comporta, nel migliore dei casi, confini rigidi che rimarcano le divisioni e limitano la partecipazione alla vita della società o, in situazioni più gravi, può condurre ad atti unilaterali di secessione, odio etnico e guerre civili, come nel caso dell’ex-Jugoslavia.
[NOTE]
1 Cfr. E. BALDUCCI, L’uomo planetario, Giunti, Milano, 2005.
2 A. LANGER, La semplicità sostenibile, in «Senza Confine», 1 luglio 1992, Archivio Fondazione Langer.
3 Cfr. A. LANGER, La causa della pace non può essere separata da quella dell’ecologia, in «Azione Nonviolenta», aprile 1989, ripubblicato in Fare la pace, cit., pp. 37-42.
4 R. DALL’OLIO, Oltre il limite. La resistenza mite in Alex Langer, La Meridiana, Molfetta (BA), 2000, p. 27.
5 A. LANGER, Oecopax. Un approccio ecologista, in «Emergenze», dicembre 1988, p. 13, Archivio Fondazione Langer.
6 A. LANGER, Tentativo di decalogo per la convivenza interetnica, cit., ripubblicato in Il viaggiatore leggero, cit., p. 302.
7 A. LANGER, L’Europa e il conflitto nell’ex-Jugoslavia, conferenza e dibattito presso il liceo «A. Cornaro» di Padova, 5 febbraio 1995, pubblicato in Il viaggiatore leggero, cit., pp. 306-307.
8 A. LANGER, Per la pace e la convivenza in Jugoslavia, A. LANGER, Per la pace e la convivenza in Jugoslavia, in «Metafora Verde», novembre 1991, ripubblicato in Vie di pace/Frieden Schließen, cit., p. 113.
Luca Colombo, Il pensiero pedagogico di Alexander Langer. Verso una cultura del limite e della convivenza, Tesi di laurea, Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, Anno Accademico 2008/2009

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La liberazione e l’Allied Military Government nel Casertano

Le Forze Alleate arrivarono a Caserta il 5 ottobre del 1943 e posero il Comando Generale a Palazzo Reale, «dove restarono fino all’8 luglio del 1946» <65. L’arrivo degli anglo-americani era stato preceduto da massicci bombardamenti sull’intera provincia, in particolare su Capua e Santa Maria Capua Vetere, dove poco prima che le truppe inglesi entrassero in città, «un centinaio di persone assaltava la caserma dei carabinieri per impossessarsi delle armi con cui dare la caccia a nazisti e fascisti». <66 Terra di Lavoro era stata segnata profondamente dalla violenza dell’occupazione tedesca. Il breve periodo che va dall’8 settembre alla liberazione fu drammatico. I tedeschi, in ritirata verso Nord, facevano «terra bruciata» sui territori: saccheggiavano, requisivano cibo e animali, tagliavano le linee di comunicazione per creare le maggiori complicazioni possibili alle truppe alleate ed inoltre per piegare le popolazioni civili, compirono una sequenza di stragi efferate: Bellona, Caiazzo, Sparanise, Marzano Appio, Conca della Campania, Presenzano (solo per ricordarne alcune tra le più tragiche). <67 Lo stesso giorno dell’arrivo degli alleati nella città della reggia borbonica fu liberata anche Marcianise, mentre dal 7 al 13 ottobre si combatteva la battaglia del Volturno; Piedimonte Matese era liberata il 19 ottobre, Teano il 31, il 1 novembre Presenzano, il 4 Sessa Aurunca, il 17 dicembre San Pietro Infine. Lungo questo percorso bellico, già sul finire degli anni 80 del secolo scorso, «l’associazione Vittime Civili di Guerra censiva più di 2000 vittime, in testa c’ è Capua con 342 vittime civili, seguita da Roccadevandro con 164, Sessa Aurunca con 105, Mignano Montelungo 100 <68». A queste morti bisogna aggiungere gli sfollati, i militari sbandati e quelli caduti lungo la linea Gustav, sepolti nel Sacrario di Mignano Monte Lungo. Giuseppe Capobianco, che per primo ha indagato gli avvenimenti sulla occupazione nazista in Terra di Lavoro, ha sostenuto che qui si manifestarono «forme di difesa e di lotta che poi si sono sviluppate e arricchite lungo tutta la fase della Resistenza nazionale». <69 L’intero territorio casertano fu occupato allora dall’esercito tedesco con la predisposizione di più linee difensive: quella del Volturno che seguiva il corso del fiume, la linea Barbara che sfruttava i rilievi montuosi di Mondragone, Teano, Presenzano e Mignano Monte Lungo, la linea Bernhard lungo i monti di Venafro, San Pietro Infine e di Monte Camino e la Gustav che andava dal Garigliano a Cassino. <70 I due eserciti, quello tedesco e quello alleato si fronteggiarono lungo la linea che dal Garigliano arrivava fino a Cassino. Sul territorio vigeva il coprifuoco dalle 19 alle 6 del mattino; di giorno era comunque vietato muoversi dal proprio comune. Questa imponente e drammatica occupazione tedesca, insieme alle azioni militari degli alleati (che non avevano risparmiato di certo sui propri raid aerei) rasero al suolo il già fragile sistema produttivo casertano. Per darne un’idea, si tenga conto che all’Intendenza di finanza di Caserta, pervenivano «1882 domande per danni di guerra alle industrie, per un valore complessivo di 1.964.834.808 milioni di lire». <71 Dopo i bombardamenti, erano andati distrutti i ponti di Sessa Aurunca, di Cancello ed Arnone, il Ponte Margherita nell’Alifano e quello di Annibale sul Volturno e le reti stradali e fognarie risultavano essere gravemente compromesse. <72 Nelle campagne la guerra aveva danneggiato le colture e distrutto i raccolti, ma gli agrari incuranti degli eventi, pretendevano il pagamento del doppio del canone, ossia 900 lire contro le 450 per ogni quintale di grano, quale penale per mancato conferimento del prodotto nel corso dei combattimenti. <73 L’area casertana era una realtà tradizionalmente arretrata, sprovvista delle infrastrutture primarie. L’analfabetismo era diffusissimo, la struttura sociale era pre-capitalista. La proprietà della terra, fonte primaria di sopravvivenza, era concentrata nelle mani di grandi agrari che investivano altrove i proventi della rendita. La condizione di arretratezza in cui versava il casertano, rimanda all’Inghilterra del primo periodo Tudor, dove i ricchi agrari recintavano sconfinate distese di terra destinandole a pascolo per le pecore. Ricchi e nobili, con le recinzioni, sottraevano ettari di terreno demaniale ai contadini, affamandoli e relegandoli ai margini della società. <74 Analogamente nelle pianure del Volturno e del Garigliano, i latifondi erano incolti o destinati al pascolo bufalino. Il governo fascista aveva stanziato a suo tempo 214 milioni di lire per rendere più produttiva l’agricoltura in Campania attraverso opere di bonifica e trasformazione agraria. Tuttavia, nel dopoguerra non si riscontrava alcuna maggiore produttività dell’agricoltura «sui 23.000 fertilissimi ettari nella piana del Sele», così come su quelli «del Volturno e del Garigliano». <75
La legislazione sulla bonifica integrale prevedeva che i Consorzi impartissero le direttive per la trasformazione fondiaria nei Comprensori e qualora, i privati non eseguissero le opere si interveniva espropriando i terreni per il corrispettivo. <76 Anche se il fascismo fu debole nel far attuare le direttive, l’ONC procedeva con le espropriazioni di vasti territori. Nell’aprile del ’44, a liberazione avvenuta nel basso Volturno sebbene il passaggio all’amministrazione del governo italiano sarebbe avvenuto solo nel luglio del 1944 la proprietà terriera espropriata dall’ONC si mobilitava per reimpossessarsi dei terreni perduti. In ogni caso, le espropriazioni avevano riguardato soprattutto i piccoli proprietari, mentre la grande proprietà terriera era stata lasciata indenne <77. Emblematici sono il caso di Donna Teresa dei Principi Ruffolo – che aveva interessato direttamente il Duce affinché la sua tenuta fosse lasciata ai proprietari e quello del Senatore Giacinto Bosco e dei suoi familiari. Il contenzioso tra Bosco e lo Stato italiano, si chiudeva nel 1951, «con l’assegnazione del podere n. 397, cinque ettari e 61 are in cambio dei tre ettari che erano stati espropriati». <78 Nella fase di prima ricostruzione per Caserta, territorio ancora facente parte della provincia di Napoli, le difficoltà si aggravavano ulteriormente. Infatti «i drammatici problemi della metropoli facevano apparire secondari i problemi non meno gravi della periferia, e Napoli vedeva la Campania, presa nel suo insieme, la sua affamatrice perché da lì veniva alimentato il mercato nero». <79 «L’olio di oliva costava 30 lire se comprato con la tessera, e 300, se comprato al mercato nero, i salari medi degli operai andavano dalle 65 alle 150 giornaliere, funzionari dello Stato e carabinieri erano pagati meno di 65 lire». <80 A Caserta, l’esercito americano era divenuto il primo datore di lavoro. Il reclutamento avveniva tramite «un collocamento» organizzato dall’insegnante socialista Attilio D’Angelo; da questa iniziativa sarebbe poi sorta la Camera del Lavoro. I mestieri e le mansioni richieste erano «porter, icecream man, stove man (facchino, gelatiere, fuochista)» <81 nel mentre gli americani contagiavano i casertani con «il grande amore per il jazz». <82
Mario Pignataro, dirigente della CGIL e del PCI nel periodo ‘43-’46, collaborò prima con i partigiani con il nome di battaglia «Garibaldi», poi con i Servizi Strategici americani, grazie alla conoscenza dell’inglese, francese e un po’ di tedesco.
Sul Certificato di Apprezzamento rilasciatogli si legge: «questo attestato è testimonianza della sincera gratitudine al signor Mario Pignataro per il suo disinteressato aiuto a quest’ufficio e all’Esercito degli Stati Uniti d’America nella lotta per la liberazione d’Italia» <83. L’organigramma della «Region 3 che governava i territori di Napoli, Avellino e Benevento» <84 era composto prevalentemente da americani. Ben 106 ufficiali erano addetti agli «Affari Civili» e la presenza di graduati inglesi era modesta. Gli alleati portavano un aiuto concreto ed un sollievo effettivo alle popolazioni civili provate dalla miseria e dalla violenza della guerra. Furono distribuite medicine, cibo, beni di prima necessità, ma in quanto forza occupante si perseguivano anche obiettivi politici. Il controllo dei territori era infatti meticoloso e sotto osservazione vi era la ricostruzione dei partiti e delle istituzioni locali <85. Il ruolo svolto dagli occupanti, non si limitava a quello di semplici osservatori. Nella transizione dal fascismo alla repubblica, e quindi in vista della ricostruzione perfino delle classi dirigenti, le scelte di campo operate dall’AMG erano chiare. Nel febbraio del 1944 Corrado Graziadei, la figura più prestigiosa dell’antifascismo casertano, fu detenuto in prigione per un mese, solo perché si era recato al Congresso CLN di Bari, senza essere stato autorizzato dagli alleati <86. Nel riferire l’accaduto, «l’Unità» sosteneva dalle sue pagine che «la vera ragione dell’arresto di Graziadei, era invece per l’aver svolto la sua opera antifascista». <87 Quello di Graziadei non fu l’unico episodio: a Calvi Risorta, Benedetto D’Innocenzo, nominato dal CLN sindaco pro- tempore, veniva deposto dagli anglo-americani per la sua nota militanza comunista. <88 Analoga situazione, si registrava a Marcianise, dove l’azionista Saverio Merola veniva estromesso dalla direzione del Municipio alla vigilia del voto referendario per «bloccare la democratizzazione delle opere pie e la municipalizzazione delle guardie campestri». <89
Intanto i reduci rientravano dal fronte e «con la smobilitazione dei campi di lavoro alleati i disoccupati aumentavano» <90, nelle campagne riprendevano le lotte dei contadini, gli operai (i pochi rimasti) scioperavano. Il malessere sociale era intercettato dalle nascenti organizzazioni sindacali e dai partiti della sinistra. In questo clima le forze moderate alimentarono una campagna anticomunista, che veniva appoggiata dalle forze alleate e il 1° novembre del 1945 a Caiazzo furono assaltate e distrutte le sezioni del PSI e del PCI. Dai verbali redatti dalle forze dell’ordine, si legge che le armi utilizzate per l’assalto erano «moschetti americani» <91 e al «momento dell’azione si trovavano a Caiazzo diversi poliziotti americani per eventualmente intervenire in caso di necessità». <92 Le sezioni distrutte furono comunque riaperte nel febbraio del 1946. Le manifestazioni dei disoccupati e reduci di guerra si moltiplicavano: «da Piedimonte d’Alife a Capua dove 500 persone manifestavano divanzi al Municipio perché fosse distribuito il riso depositato nel Consorzio agrario». <93 Episodi analoghi si verificavano «a Carinola e a Marcianise»,94 mentre le forze conservatrici, economiche e politiche si riorganizzavano per stroncare ogni ipotesi di rinnovamento. Secondo Capobianco – che esprimeva anche un’ostilità ancora dettata dalle frizioni e dalle asprezze della guerra fredda – «la presenza del governo militare alleato, massiccia, anche perché Caserta fu sede del comando generale fino a tutto il 1946», consentiva «alle forze dominanti di recuperare rapidamente le loro posizioni di potere e di determinare, con il sostegno dei militari alleati, quella continuità tra vecchio e nuovo regime che fu di ostacolo ai tentativi delle avanguardie di imporre misure di rinnovamento e di presenza autonoma delle masse nella lotta politica». <95 Una presenza quella degli alleati a Caserta che non terminava con la sottoscrizione del trattato di Pace, il 29 aprile ’45, ma durava fino al 1947, quando il comando era finalmente spostato a Livorno.
[NOTE]
65 G. Capobianco, Sulle ali della democrazia – Il PCI in una Provincia del Sud (1944- 1947) Edizioni Spartaco, SMCV 2004, p.113.
66 Ivi, p.10.
67 Cfr G. Gribaudi, (a cura di), Terra bruciata, l’Ancora del Mediterraneo, Napoli 2003. G. Capobianco, La Giustizia negata, Centro Studi Corrado Graziadei, Caserta 1990, p.10.
69 Ivi, p. 37.
70 Cfr F. Corvese (a cura di) Terra di Lavoro dal secondo dopoguerra agli anni ’70, ESI, Napoli luglio-dicembre 2006, p.252.
71 CCIAA Caserta, (a cura di) Cinque anni di attività camerale 1946-1951, Caserta, p. 59.
72 F. Corvese (a cura di), Terra di Lavoro dal secondo dopoguerra agli anni 70, cit., p. 50.
73 Scritti di C. Graziadei in «L’Unità» del 3 marzo 1945, Leggi agrarie e loro applicazioni, ora anche in Quaderno n. 1 supplemento de «Il progresso di terra di Lavoro», Caserta 1979, p.26.
74 Cfr K.Polany, La grande trasformazione, Einaudi, Torino 2010, p.46.
75 Cfr G. Capobianco, Una nuova questione meridionale, Edizioni Spartaco, SMCV 2004, p.69.
76 Cfr. G. Capobianco Dalla bonifica integrale alla riforma fondiaria in Campania, in Italia contemporanea, n. 189 anno 1992, p. 680
77 Ivi, p.681.
78 Ivi. p. 682.
79 Cfr. G.Capobianco, Il valore delle lotte sindacali nel dopoguerra per la trasformazione economica sociale di Terra di Lavoro, conferenza al 2° Corso di Formazione Sindacale CGIL Formez 4-8 giugno 1984, Caserta, a cura CGIL Campania Comprensorio Caserta.
72 M. Pignataro, I primi anni di attività della ricostituita Camera Confederale del Lavoro nel dopoguerra (1943-1947) stampa a cura della CGIL di Caserta 2° Congresso di Comprensorio 19/20 dicembre 1985, p. 4.
73 D.A. Ianniello, La città di Caserta dalla fine della guerra alla ricostruzione, (a cura) F. Corvese, Terra di Lavoro dal II dopoguerra agli anni ’70 n. 3-4 ESI, Napoli 2006, p. 211.
82 Ibidem
83 Testimonianza rilasciata all’autrice d’ora i poi «TAA» da M. Pignataro a Caserta in data 05 gennaio 2012, presso la sua abitazione.
84 P. De Marco, La politica alleata in Italia-Il caso della Region 3 L’occupazione alleata a Napoli e in Campania, p.239.
85 G. Capobianco Sulle ali della democrazia, op. Cit.p.94.
86 C. Graziadei, Le lotte nelle campagne di Terra di Lavoro, Quaderno n. 1 suppl. de il progresso di Terra di Lavoro, p.9.
87 Cfr G. Capobianco, La costruzione del partito nuovo in una provincia del Sud, Coop Editrice Sintesi, Salerno 1981, p. 83.
80 Cfr. Benedetto D’Innocenzo (Calvi Risorta 29.01.1879- 26.02.2962) Biografia di un comunista, documento in possesso dell’autrice.
89 G. Capobianco Una nuova questione meridionale, Op. Cit. p.117.
90 G. Capobianco, Sulle ali della democrazia, cit., p. 94.
91 Ivi p.95.
92 Ibidem
93 A. G. Paolino, La provincia ritrovata Terra di Lavoro 1946 1948, Edisud, Salerno 2007, p. 37.
94 Ibidem
95 G. Capobianco Sulle ali della democrazia, cit., p.37.
Paola Broccoli, La modernizzazione di Terra di Lavoro negli anni 1957-1973, Tesi di dottorato, Università degli Studi del Molise – Campobasso, Anno accademico 2015/2016

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Due degli esempi più eclatanti di questa continuità diretta tra le strutture fasciste e le repubblicane

Tra il 1945 e il 48, i servizi riservati degli apparati dell’Interno, a differenza dei servizi segreti militari, non smisero di svolgere la loro attività, in quanto gli americani poterono assicurarsi la loro fedeltà anticomunista favorendo al loro vertice il reinserimento di funzionari fascisti (come fecero per quasi tutto il corpo di polizia) e l’assoluzione giudiziaria di questi ultimi in seno a tutti i processi di epurazione antifascista. I servizi segreti della polizia, attivi sotto il nome di Sis (Servizi Informativi e Speciali) dal febbraio 1946 all’ottobre del 1948 (quando la denominazione passò a Uar), nascevano praticamente come una riesumazione della famigerata Ovra (Opera Vigilanza Repressione Antifascismo), che, formalmente, aveva cessato di esistere dopo il Gran Consiglio del fascismo del 25 luglio 1943 ma che, in realtà, nei territori del nord non smise mai di operare.
Le analogie tra le due strutture non furono soltanto operative od organizzative, ma anche e soprattutto rispetto al personale impiegato, che gli americani andarono a reclutare direttamente tra le fila della Repubblica Sociale Italiana per formare il nuovo apparato di polizia politica dell’Italia repubblicana. Nel 1944, il capo del controspionaggio dell’Oss Italia, Jesus James Angleton, invió un nucleo di agenti italiani e statunitensi nei territori di Saló, per prendere contatti con Guido Leto, dirigente dell’Ovra <20, che aveva fatto sapere “ad alcuni ufficiali statunitensi di essere disposto a fornire all’Oss l’intero archivio dell’Ovra, composto da oltre seimila documenti”.
Federico Umberto D’Amato, che divenne poi il più importante dirigente dell’Uar <21, partecipò alla spedizione di aggancio di Leto e di altri agenti della Rsi. Tra questi, Riccardo Pastore, ex capo della zona Ovra di Napoli e Ciro Verdiani, ex capo della zona Ovra di Zagabria, che all’indomani del 25 aprile venne reintegrato nella polizia repubblicana come secondo questore di Roma libera <22.
Ad ogni modo l’Oss provvide a mettere in salvo tutto il gruppo di poliziotti con cui D’Amato era stato in contatto nella spedizione del 1944 <23. Molti anni più tardi, in un’intervista al settimanale ‘Il Borghese’, dichiarò che Angleton, a guerra finita, gli disse che “fino a quel momento ci eravamo occupati di fascisti, ma adesso il fascismo era finito, sconfitto, mentre il vero pericolo ora era il comunismo”.
Peter Tompkins, un ex agente dell’Oss che pubblicó un libro sulla guerra in Italia, riferiva che l’obiettivo era quello di “salvare la crema degli agenti segreti dell’Ovra con i quali poi ricostruire un regime poliziesco in Italia” <24. Guido Leto e Gesualdo Barletta sono due degli esempi più eclatanti di questa continuità diretta tra le strutture fasciste e le repubblicane: al primo, dopo un breve processo in cui fu prosciolto da ogni accusa per aver fornito un importante aiuto agli americani, al Cln e aver agito contro i tedeschi <25, venne assegnato il ruolo di direttore tecnico di tutte le scuole di polizia d’Italia, un incarico di grande rilevanza, che tenne fino al suo ritiro dalla pubblica sicurezza, nel 1952, per diventare direttore di una nascente catena di alberghi <26; il secondo, che era stato il capo della zona 9 (Lazio) dell’Ovra, nel 1946 venne nominato dal ministro Romita al vertice del Sis, la struttura che dal 1948 in poi passò alla denominazione di Uar.
La struttura della divisione Sis, nel 1946, era la seguente:
Prima sezione
Diretta dal vicequestore Raffaele Martucci, si occupava di confinati, ammoniti, diffidati, internati, colonie di confino, campi di concentramento e casellario politico centrale.
Seconda sezione
Diretta dal commissario Ettore Bonichi, con competenze quanto a servizio informazioni riservate, illeciti arricchimenti, repressione traffico clandestino di preziosi e di valuta, trattazione reclami diretti a personalità di governo, informazioni urgenti e riservate.
Terza sezione
Diretta dal ragioniere capo Amerigo Innocenzi, era adibita al pagamento degli informatori e alla gestione delle colonie di confino <27.
Fu lo stesso Leto a scrivere e pubblicare nel 1951 il primo libro sulla polizia politica fascista dal titolo ‘Ovra: fascismo-antifascismo’, nel quale non è assolutamente negata la continuità degli apparati di polizia repubblicani:
“Incredibile dictu; molti funzionari che già appartennero a detti servizi coprono oggi posti di alta responsabilità e sono, a giusta ragione, ritenuti i migliori elementi dell’amministrazione nella pubblica sicurezza”. <28
Gesualdo Barletta fu il primo capo dell’Uar dal 1948 al 1956, quando venne nominato vicecapo della polizia, per poi terminare la sua carriera nella Corte dei Conti ed insignito del titolo di cavaliere della Repubblica. La sua nomina “avvenne nell’ambito di una colossale opera di restaurazione, cominciata da Romita e completata da Scelba” <29, per reinserire in pratica tutti gli agenti delle disciolte polizie fasciste nel nuovo ordinamento. A gestire il riordino c’era il generale dei carabinieri Giuseppe Piéche, un veterano degli organi segreti fascisti, passato per diversi incarichi molto delicati: nel 1932 a capo della III sezione del Sim (controspionaggio), poi incaricato personalmente da Mussolini di indagare i vertici delle stesse strutture segrete del regime (ruolo che è stato giustamente definito “spia delle spie”) <30; durante la guerra fu, in Jugoslavia al comando della polizia segreta del governo ustascia di Pavelič e infine entrò nell’Arma dei carabinieri sotto il primo governo Badoglio; in seguito, col primo governo De Gasperi, assunse la guida di un ufficio riservato che svolse attività informativa e di provocazione politica <31. Entrava così, senza alcun procedimento giudiziario, al vertice delle neonate istituzioni repubblicane. Da questa cabina di regia, poté epurare dalla polizia alcuni ex partigiani assunti nel 1945, ufficialmente cacciati “per limiti d’età” <32 e sostituiti con ex poliziotti del regime fascista. Ancora, mentre si andava verso le elezioni del ’48, patrocinò il sorgere di più di un’organizzazione terroristica e di provocazione, come il Macri (Movimento anticomunista per la ricostruzione italiana), camuffata sotto le spoglie di una fondazione cattolica di beneficienza e il Fronte Antibolscevico. Se il risultato delle elezioni fosse stato preoccupante, questi sarebbero entrati in azione, compiendo attentati contro le sedi della DC, per poi farsi arrestare con delle finte tessere del Pci e del Psi. Per quanto le pratiche di provocazione siano sempre esistite in politica, un dato del genere ci fa ritenere che i semi della strategia della tensione furono piantati in concomitanza con la stessa nascita della Repubblica.
Fortunatamente, dato il risultato favorevole alla Dc, per il momento non ci fu bisogno di attivare una tattica del genere e, dopo il risultato positivo delle elezioni, l’Uar mantenne, almeno riguardo gli uffici più esposti, “un basso profilo”, dato che su questo gravava ancora “l’ombra imbarazzante dell’Ovra” <33.
Secondo il Pacini il lavoro più consistente veniva svolto dagli Uvs (Ufficio Vigilanza Stranieri), presenti nelle maggiori città italiane, all’interno delle questure. Questi uffici erano il “principale braccio operativo dell’Uar”. Stando a un appunto del Sifar, la denominazione era fittizia in quanto la loro principale attività era di stampo anticomunista e il personale era in maggior parte proveniente dalle file dell’Ovra <34.
In questo primo periodo l’ufficio si occupava principalmente di “aggancio” come informatori di ex capi partigiani e parlamentari o dirigenti comunisti. <35 Il De Lutiis descrive con toni disillusi gli anni della gestione Barletta all’Uar: “La sua fu una gestione accorta, durante la quale riuscì a navigare indenne tra gli scogli di una democrazia appena risorta e già degenerata. Soprattutto crediamo sia il caso di dire che il primo lustro di attività fu un periodo sul quale non sappiamo – e forse non sapremo mai – quasi nulla”. <36
[NOTE]
20 G. Pacini, Il cuore occulto del potere
21 Ibidem
22 G. De Lutiis, op. cit., pg. 45
23 G. De Lutiis, op. cit., pg. 45
24 Peter Tompkins, l’altra resistenza. La liberazione raccontata da un protagonista dietro le linee, Rizzoli, Roma, 1996
25 Per la ricostruzione del processo cfr. Mimmo Franzinelli, I tentacoli dell’Ovra, pp. 422-424
26 Hotel Jolly, fondata dall’industriale Marzotto, anche lui ex aderente alla Rsi. Cfr De Lutiis pg 45
27 G. Pacini, op. cit., pg. 35
28 Guido Leto, Ovra fascismo-antifascismo, pg. 52. Citato in G. Pacini, op. cit.
29 Giuseppe De Lutiis, op. cit., pg 46
30 Ibidem pg. 12
31 Ibidem pg. 47
32 Ibidem pg. 46
33 G. Pacini, op. cit., pg. 37
34 Ibidem pg. 38
35 Crf. Pacini, op. cit., cap. La gestione Barletta
36 G. De Lutiis, op. cit., pg. 48
Claudio Molinari, I servizi segreti in Italia verso la strategia della tensione (1948-1969), Tesi di laurea, Università degli Studi di Trieste, Anno Accademico 2020/2021

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A questo punto non è più la carta stampata ad avere il primato nella diffusione dei contenuti

Dall’Unità d’Italia in poi, l’editoria intraprese una strada tortuosa, disseminata non di attività redditizie, ma di pressioni sul potere politico per fare affari in altri campi dell’industria, come quello chimico e automobilistico. Purtroppo la penisola non poteva vantare ancora un’ampia cerchia di lettori, per cui gli editori furono costretti a condizionare la politica attraverso i giornali invece di organizzare aziende in grado di produrre ricchezza. Così facendo, il nucleo dell’informazione oggettiva perse rilievo per dare più spazio alla lotta politica.
Solo negli anni Settanta del Novecento iniziò a cambiare qualcosa, con la nascita della televisione commerciale che investì sulla pubblicità, permettendo agli editori una stabilità economica attraverso questo canale. E così decollò finalmente anche il mestiere dell’editore, divenendo fonte di reddito grazie ai nuovi strumenti tecnologici che abbattono i costi di produzione. I cambiamenti si percepirono da subito, soprattutto perché il giornale divenne un prodotto popolare, cercando di accattivare una fascia generosa di lettori. Proprio per questo motivo, dagli anni Ottanta in poi occuparono uno spazio maggiore la narrazione di cronache, come quella cittadina, politica, sportiva e dello spettacolo, senza dimenticare la compresenza della televisione nei quotidiani.
La facilità con cui si possiedono e veicolano le informazioni fa sì che la comunicazione di massa divenga realtà. Tuttavia, in un mondo ormai fatto di velocità elettrica, persino la radio e la televisione, i media istantanei (Mcluhan, 1967), non bastano più a colmare l’esigenza di “morte della distanza” (Cairncross, 1997). È in questa cornice che la società dei giorni nostri è divenuta ossessionata dalle immagini e la conoscenza lascia il posto alla suggestione delle icone provenienti da tutto il mondo.
Ogni cosa è mediata da uno schermo: le luci e i colori sono portatori di modelli e idee, attraverso un ruolo apparentemente ricreativo. In questo specifico contesto prolifera il world wide web che, a differenza della radio e della televisione, ha attirato milioni di utenti in un tempo piuttosto irrisorio dalla sua comparsa. È con internet che decretiamo la morte della distanza e lunga vita alla simultaneità. “Allo sviluppo della multimedialità e alla diffusione di internet sono legate trasformazioni sociali profonde che riguardano i rapporti interpersonali, il modo di comunicare, di lavorare, di studiare, di produrre e di vivere. Concetti come partecipazione, democrazia, politica, informazione, libertà, censura hanno un campo semantico più ampio dopo internet” (Pratellesi, p. 17).
[…] Dagli inizi del mestiere giornalistico, facciamo un salto nel tempo e arriviamo alla fine della Seconda guerra mondiale, un momento storico delicato e cruciale anche per la lingua dei giornali. A seguito dello smantellamento della politica fascista, fu necessario liberarsi dalle gabbie della retorica e della aulicità che sgretolavano l’espressività degli articoli di giornale, i cui contenuti riguardavano la sola propaganda ed erano sottoposti alla censura. La patina di estrema letterarietà delle notizie, l’esclusione della cronaca nera e la retorica incalzante, nutrita da un lessico che non ammette debolezza ma solo vigore, coraggio e lotta, limitarono per venti anni la vivacità e l’eterogeneità della scrittura giornalistica, valori che erano stati tipici dei primi anni del Novecento.
Al termine del conflitto, si sentì l’esigenza di creare un linguaggio che aderisse agli scopi dello strumento comunicativo. Tuttavia, questo tentativo fallì poiché la scrittura divenne farraginosa, mancando gli obiettivi della chiarezza e della funzionalità espositiva. Il giornalese, chiamato così per analogia con la cripticità del linguaggio politico (il politichese), si radicò nei quotidiani per i trent’anni a seguire, causando la scarsa popolarità e la limitata diffusione di questo mezzo di informazione. In poche parole, quello che accadde fu che i giornali passarono da un problema a un altro. Dal mascheramento del reale e l’esaltazione della penisola, cominciò a presentarsi una scrittura spoglia di impacci di regime, ma che comunque non riusciva ad abbandonare una forma artificiosa ripiegata su se stessa. Si produssero articoli seguendo le norme di una grammatica tradizionale e per nulla aperta alle innovazioni, con costruzioni sintattiche complesse e con terminologie sofisticate di non facile decodifica. Solo il «Giorno» tentò di uscire da questa logica, aprendosi a uno stile brillante e, per quanto possibile, più popolare. Ma rimase un caso isolato.
1.4 Il cambiamento
A metà degli anni Settanta, questa espressività soffocante iniziò ad abbandonare le pagine dei quotidiani, dopo un trentennio di dominio indisturbato. Il mutamento si generò a partire dalla fondazione della «Repubblica» nel 1976 da parte di Eugenio Scalfari, una testata che veicolò novità non solo a livello dei contenuti, ma anche sul piano politico e linguistico. Riuscì a fornire un modello che superasse la lingua stucchevole del giornalese in favore di una comunicazione lontana dalla monotonia e dall’oscurità di senso. Questo nuovo atteggiamento non rimase nei confini della «Repubblica», ma si espanse trovando sempre più adesioni nel panorama italiano. Le coordinate della scrittura giornalistica divennero la commistione di elementi comuni dell’eloquio di tutti i giorni insieme ai riferimenti colti e ricercati.
Sottese al mutamento espressivo, vi furono ragioni di diversa natura ricollegabili non soltanto alla lingua. Ciò si chiarisce meglio se pensiamo alla costruzione moderna del programma della «Repubblica»: il focus principale è sulla politica rispetto alla cronaca e, oltre a presentare la notizia, il giornale tende a commentarla e ad approfondirla. C’è un’impronta progressista e molto personale degli autori, i quali riuscirono a dare maggiore originalità e forza alla scrittura. Dunque furono la società, il contesto storico e politico che contribuirono a plasmare la lingua dei quotidiani. Non dimentichiamo le battaglie per i diritti civili fondamentali dell’aborto, del divorzio e dei lavoratori, che scossero l’intero paese insieme ai rinnovamenti post Sessantotto, con una ventata sovversiva a livello di costume, società e linguaggio. In questo rimescolamento di equilibri, i tempi furono propizi per accogliere anche le metamorfosi linguistiche e l’italiano letterario non rappresentò più l’unico baluardo da seguire e inseguire a ogni costo. In questo modo, lo scritto e il parlato si fusero nella varietà che è stata riconosciuta ed etichettata come italiano dell’uso medio o neo-standard, di cui parleremo esaustivamente nei prossimi capitoli. È a partire da questo fenomeno che nei quotidiani cominciarono a comparire due linee che si intersecano: l’apertura al parlato e la volontà di animare la scrittura. Da una parte si scartano i vecchi stilemi che stavano condannando lo scritto a una fossilizzazione innaturale, portando sulla carta stampata una sintassi più snella e un lessico fatto di voci colloquiali; dall’altra emerge l’intento di accompagnare questa nuova scrittura con delle forme che possano riecheggiare il più possibile il parlato, con costrutti poco sorvegliati e discorsi diretti.
1.5 Il Sesto potere <1
I costi di accesso e fruizione di internet sono irrisori rispetto a quelli per i mezzi più tradizionali della stampa e della televisione. Questo ha comportato non solo la facilità di pubblicazione e circolazione di informazioni da parte degli utenti, ma ha anche decretato il suo utilizzo come necessario nella quotidianità degli individui. Questa evoluzione sembrò quasi paradossale agli occhi di chi visse il fenomeno, poiché internet era nato non a tale scopo, bensì come strumento di comunicazione in caso emergenza, come per un attacco nucleare. Basti pensare a cosa accadde nel 2001 con l’attentato dell’undici settembre per capire l’importanza su scala mondiale del nuovo mezzo: i quotidiani cartacei, davanti a un così grande e drammatico fatto di cronaca, non potevano in alcun modo accorciare i tempi lunghi di gestazione delle notizie. Fu internet, assieme alla televisione, a sopperire a questa mancanza, offrendo agli utenti di tutto il mondo informazioni e video per seguire cosa stava succedendo a New York.
È evidente che a questo punto non è più la carta stampata ad avere il primato nella diffusione dei contenuti, anzi, con il passare del tempo, ha perduto e sta perdendo sempre più potere. L’impalpabilità e il basso costo, quando non addirittura la gratuità dei nuovi mezzi li rende più convenienti e adattabili alle singole circostanze, stabilendosi come favoriti in confronto alla carta, che invece richiede costi maggiori per la produzione. Tuttavia la rivoluzione tecnologica non ha portato alla morte degli strumenti tradizionali, ma ha richiesto una ricollocazione di funzioni e ruoli. Prima la radio, poi la televisione, e adesso internet: un processo destinato a ripetersi.
I nuovi media hanno importato proprietà inedite che hanno reso la comunicazione bidirezionale, in quanto elemento di connessione immediato tra mittente e destinatario. I prodotti multimediali non sono rigidi e precostituiti una volta per tutte, ma l’utente può scegliere il modo di esplorare e di ricercare le informazioni.
L’impaginazione web dà questa libertà di girovagare e cogliere elementi accessori come primari e viceversa, a differenza della carta che presenta un ordine precostituito di comparsa e gerarchia dei contenuti. Immagini, foto e video rendono l’esplorazione dinamica e svincolata da un orientamento fisso perché è il lettore che ogni volta delinea il suo personale percorso. Il flusso informativo è tempestivo ed estremamente variegato: è il fruitore che si orienta nella selezione di che cosa leggere, e non solo, la sua scelta condiziona la produzione di una tipologia di articolo piuttosto che un’altra. Perciò è l’utente che influenza le linee guida redazionali in quanto, attraverso il conteggio del numero di click, si percepiscono le preferenze dei navigatori della rete. Così si stabilisce il rapporto domanda e offerta privo di mediazioni tra chi legge e chi scrive. Per queste ragioni identifichiamo l’informazione in internet con un organismo vivo e pulsante a tutti gli effetti, in cui la varietà permette la circolazione e la selezione di contenuti eterogenei che viaggiano senza limiti e producono l’incontro tra utenti, ciascuno a caccia di contenuti secondo le proprie esigenze.
1.6 La crisi
Dopo gli anni Novanta, in cui persino in Italia, nonostante le difficoltà e la poca popolarità di internet, si era iniziato a investire sui nuovi media con la comparsa dei primi quotidiani online, arrivò il colpo fatale: la crisi economica mondiale causata dal fallimento della Lehman Brothers del 2008. E il crollo non risparmiò di certo l’editoria, settore già fragile. Il licenziamento di un numero ingente di giornalisti fu solo il primo passo e, come effetto domino, si sgretolò l’assetto organizzativo del lavoro, tutto ciò aggravato dalle nuove piattaforme che stavano rivoluzionando il modo di pubblicizzare beni e servizi. Grazie a internet, produttore e consumatore si ritrovano ad allacciare rapporti diretti, senza bisogno di intermediari, creando così la dissolvenza della struttura portante che per due secoli ha sorretto il giornalismo italiano: la pubblicità. Calò così il numero di copie destinate alla vendita e questo influì drasticamente sulle entrate derivate dalla pubblicità. In Italia la crisi mise al tappeto tutti gli editori: dal 2008 al 2013 si registrarono gli anni più negativi, ma anche le spinte maggiori di innovazione per l’elaborazione dei contenuti. Sono gli anni che vedono il boom dei social media, in cui si possono condividere non solo foto e pensieri personali, ma anche i prodotti giornalistici. Si sperimentano nuovi modi di narrare e il video on demand fa parlare di morte del palinsesto. Le dirette live delle manifestazioni, degli eventi e degli spettacoli rappresentano la nuova architettura dell’informazione che ha distrutto persino i confini della pagina web.
Concludiamo la nostra rassegna con le tesi per l’immediato futuro sostenute da C.W. Anderson, Emily Bell e Clay Shirky, i quali hanno fornito l’analisi più recente sulle sorti del giornalismo e dell’editoria. In “Post-Industrial Journalism: Adapting to the Present” (2012), gli autori trattano gli ultimi sviluppi tecnologici e sociali che hanno annientato l’impresa del giornalismo così come la conoscevamo, ma hanno lasciato vivo il mestiere che resiste assumendo forme diverse. Le notizie non hanno perduto la loro rilevanza, ma è la figura di chi produce e veicola informazioni ad aver perso le connotazioni tradizionali. I contenuti non vengono più diffusi esclusivamente dai giornalisti di professione, così come i fruitori non sono più gli spettatori passivi di un tempo. Gli utenti sono diventati produttori che selezionano e fanno circolare le narrazioni. Perciò il giornalismo rappresenta il campo in cui si incontrano e collaborano sia i professionisti sia gli utenti: i primi ricostruiscono e spiegano i fatti, i secondi creano e distribuiscono la notizia, in un processo di cooperazione che differenzia questa attività da quella del passato. Le conclusioni degli autori circa le modalità di sostentamento del giornalismo attraverso gli abbonamenti, le applicazioni per dispositivi e altre forme di pagamento non trasmettono consolazione e speranza: “non c’è soluzione all’attuale crisi che preserverà i vecchi modelli” (2012). Tuttavia, questo quadro non intacca l’esistenza di opportunità che il giornalismo può trovare e sfruttare negli strumenti più nuovi. Il mestiere, ovviamente, non è morto e non è destinato all’estinzione, deve solo riorganizzarsi.
[NOTA]
1 Titolo tratto da New Journalism. Dalla crisi della stampa al giornalismo di tutti di Marco Pratellesi, p. 20.
Giulia De Blasi, L’italiano giornalistico. Aggiornamento 2010-2017, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Padova, Anno Accademico 2016/2017

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A Parma le formazioni partigiane più numerose erano quelle garibaldine e le Julia

“Il 9 settembre è come uno spartiacque, dal 9 settembre fino alla liberazione, anche coloro che furono fascisti o per errore o per ingenuità o per ragioni di lavoro, tutti gli italiani di qualsiasi ideologia dovranno prendere posizione contro i tedeschi, contro l’invasore. Gli italiani che si metteranno al servizio dei tedeschi saranno considerati traditori”. <11 Sono queste le parole e l’opinione di uno dei protagonisti che diedero vita alla resistenza nel parmense, l’Avvocato Primo Savani. Come in altre città, anche a Parma iniziarono i primi scontri armati contro i tedeschi e il loro tentativo di invasione; ciò avveniva presso la Scuola di applicazione, all’interno del giardino Ducale dove i soldati cercarono di contrastare le forze tedesche prima di essere costretti alla resa.
Prosegue Savani nella sua cronaca dell’epoca: “il nuovo regime nazifascista impiegò poco più di 10 giorni per riorganizzare gli uffici amministrativi e le forze di polizia, con gli italiani disposti a collaborare con l’invasore”. <12 Mentre l’occupazione tedesca era in atto, iniziava l’organizzazione delle forze antifasciste del territorio parmense; il primo abboccamento avvenne il 10 settembre ‘43 a Villa Braga a Mariano, un paesino della Provincia, dove i principali esponenti dell’antifascismo si accordarono sulle questioni più urgenti come l’organizzazione degli aiuti ai militari sbandati, il recupero di armi e l’organizzazione delle prime bande. Secondo Leonardo Tarantini (Comandante parmense) “l’incontro a Villa Braga è da considerarsi, per la data in cui avvenne, per gli argomenti trattati e le decisioni prese, come il primo atto organizzativo a livello provinciale, del movimento partigiano in provincia di Parma <13” e dal quale prese vita la macchina organizzativa della resistenza parmense.
Da quel momento il movimento clandestino intraprese i primi tentativi di costituzione delle bande armate e di organizzazione del movimento che vide il 15 ottobre la nascita del Comitato di Liberazione Nazionale per la Provincia di Parma, costituito dagli esponenti dei partiti antifascisti, che aveva il principale compito di organizzare la guerriglia incipiente. Organizzazione tutt’altro che semplice perché significava tessere, quasi ex novo, i fili di una rete molto intricata e capillare. Come ricorda Leonardo Tarantini infatti, si trattava di un “lavoro organizzativo e pratico che chiamava all’opera centinaia di persone[…] il tutto comportava una rete ben occulta di collegamenti”; <14 un lavoro dunque estremamente precario e pericoloso, nel quale fondamentale era il ruolo di chi ne era al vertice.
I.3 Prime bande e primi scontri
Superate le iniziali difficoltà logistiche, cominciarono a costituirsi le prime bande, o meglio, i primi raggruppamenti. Oltre che all’organizzazione logicistico-militare la nascita delle prime bande dipese soprattutto da iniziative individuali. Scrive Ferdinando Cipriani, partigiano parmense: “i piccoli gruppi di ribelli sorsero qua e là senza alcun coordinamento: dovunque si rivelava un capo coraggioso che, col suo ascendente personale, era in grado di riunire sotto la sua autorità i pochi elementi che per primi osavano dichiarare guerra al nazifascismo”. <15
Le vicissitudini e le motivazioni individuali che hanno portato sparuti gruppi di uomini sulla via dei monti, e della ribellione, sono molto diverse tra loro: per una parte, la minoranza, l’occupazione tedesca seppure tragica, come si è detto, fu vissuta come occasione di libertà e quindi la decisione di impugnare le armi fu l’esito di una scelta compiuta già da molto tempo; ma per i soldati sbandati invece la via dei monti spesso rappresentò una scelta dettata delle esigenze del momento, per avere salva la vita; “cresciuti nella dittatura, umiliati dall’8 settembre, quei giovani ebbero difficoltà a scegliere da che parte stare. Le loro decisioni non potevano maturare in un lento processo di presa di coscienza, né in relazione a organismo collettivi come i centri dell’antifascismo; essi furono costretti a fare i conti con i propri intimi valori e la propria capacità di reagire”. <16 Non solo antifascisti ed ex militari diventarono ribelli, ma successivamente anche civili e molti giovani, soprattutto per sfuggire al famigerato Bando Graziani che obbligava i giovani alla leva, entrarono nelle file patriottiche.
Ciò avvenne a Parma come altrove, e costituisce un dato essenziale del movimento partigiano: la sua eterogeneità, cioè l’essere un movimento unito nel suo scopo ma profondamente diverso al suo interno. Non si parla solo di differenze personali e di appartenenza politica ma anche le esperienze individuali variano profondamente: da chi era stato nell’esercito a chi fu perseguitato, da chi era cresciuto sotto il fascismo rispetto a chi ha vissuto in clandestinità e così dicendo. Assumere questo tratto di eterogeneità come tratto base del movimento aiuta nel tentativo di comprenderlo e studiarlo. I rapporti interni tra le brigate, tra i comandi e le vicende principali sono molto spesso il risultato di queste differenze; differenze che, nella storia della resistenza italiana e parmigiana hanno portato a numerosi momenti di tensione, ma seppur con fatica, non hanno impedito che il movimento crescesse e che fosse infine vittorioso.
Tornando all’attività parmigiana, questi gruppi iniziarono principalmente con piccole e sporadiche azioni di sabotaggio e disarmo volte soprattutto a recuperare armamenti. Il primo significativo combattimento avvenne il 25 dicembre a Osacca, vicino al paese di Bardi. Questo scontro divenne leggendario per i partigiani perché in questa località un ristretto gruppo di giovani partigiani (circa una ventina), avvisati dell’arrivo di un centinaio di militi fascisti, anziché sganciarsi decisero di affrontare il nemico costringendolo alla fuga.
Annota Tarantini di come “tra gennaio e febbraio 1944, soprattutto nella zona ad ovest della Cisa, sorgono qua e là piccoli gruppi armati, che gradatamente, sotto impulso di organizzatori militari prendono ad agglomerati in gruppi maggiori, i quali, a breve scadenza, assumeranno consistenti e ben definiti caratteri di bande autonome con intitolazione propria, come avvenne per il gruppo di Osacca”; <17 quest’ultimo, sotto la guida di Fermo Ognibene verrà nominato Distaccamento Picelli, dal celebre eroe delle barricate del 1922.
Altri importanti gruppi che daranno vita a vere e proprie Brigate si formarono in questo periodo: la banda Beretta, il gruppo Vampa, il Gruppo Monte Penna che divenne famoso per un episodio noto come “la beffa di Tasola” (tredici patrioti misero in fuga un ben maggiore numero di nazifascisti facendo credere di essere un battaglione). Come ricorda Carlo Squeri, patriota parmense, di questo gruppo fecero parte diversi partigiani, passati poi con compiti di responsabilità ad altre formazioni <18, di cui si tratterà abbondantemente in questo elaborato.
Durante l’inverno del 1944 si formò anche un’unica Brigata Garibaldi comprendente tutti i reparti di intonazione comunista, indica Tarantini, <19 delle tre provincie del Nord Emilia (Piacenza, Parma, Reggio), successivamente le brigate parmensi si renderanno autonome, prima fra tutte la 12a Brigata Garibaldi, comandata da Dario (Luigi Marchini). A parte qualche gruppo che rimase autonomo (ad esempio la Banda di Cato, Libero Malerba) annota Savani che “col sorgere delle brigate, i distaccamenti e le bande locali furono inquadrati in una delle formazioni principali a seconda delle affinità politiche o delle relazioni personali. Ogni brigata si diede gradualmente una certa organizzazione, le disposizioni dall’alto vennero dopo. L’indirizzo politico delle brigate riguardava il gruppo organizzatore, comandanti e commissari. In ogni brigata c’erano partigiani di ogni tendenza politica e molti giovani che erano senza partito” <20.
A Parma le formazioni più numerose erano quelle garibaldine, sorte per iniziativa dei comunisti e dei socialisti e le Julia sorte autonomamente. Infine vi era una brigata Giustizia e Libertà, nata sotto l’egida del Partito d’Azione che successivamente, per una crisi interna, si scinderà in due gruppi distinti. Oltre che alla connotazione politica, con lo strutturarsi delle brigate, vennero anche assegnate precise delimitazioni territoriali, a differenza del primo periodo in cui i gruppi vagavano senza una precisa assegnazione della zona.
[…] Se nei primi mesi i “comandi della resistenza non si sentivano ancora pronti ad affrontare combattimenti con truppe meglio addestrate, in marzo le azioni dei ribelli divennero sempre più audaci <21. Del resto, come osserva Tarantini, “la fase organizzativa, punteggiata da frequenti fatti d’arme è giunta ad un importante stadio evolutivo”; <22 da una parte aumenta il numero dei nuovi patrioti, dall’altra ogni brigata inizia a strutturarsi in unità minori facenti capo a un comando superiore, iniziando ad assumere gradatamente la struttura di brigata vera e propria.
Contemporaneamente muta anche la tattica adoperata dai nazifascisti che nei mesi successivi a marzo, si concentra sul controllo delle vie di comunicazione, conducendo sistematicamente puntate nelle zone di più intensa attività di guerriglia. <23 La stagione primaverile, è segnata soprattutto dalla crescita del movimento patriottico; tale affluenza, in particolar modo giovanile, è il risultato dei famosi Bandi Graziani, che imponevano ai giovani del ’23 e ’25 di entrare nelle file dell’esercito della Repubblica Sociale; tuttavia, lo scarso successo della chiamata alle armi indusse il governo fascista a inasprire le misure repressive, <24 istituendo la pena di morte per i renitenti.
L’inasprimento delle misure contro i giovani e le loro famiglie, indusse molti ragazzi a cercare rifugio nelle montagne ed entrare nelle file del movimento. “Il fermento era reale e la struttura semplice e snella delle bande non poteva più essere sufficiente a gestire numeri così elevati di volontari che avevano bisogno oltre che di addestramento alla guerriglia, anche di tutto il sostegno logistico”. <25 Come si è detto, le bande, in questo periodo, assunsero sempre più la fisionomia di brigate vere e proprie, operanti ognuna in una precisa vallata, per cui le azioni di guerra principali “sono protese alla liberazione dai presidi stanziali dislocati là dal nemico”. <26
In questo periodo si annovera un tragico episodio della lotta parmense quello della cattura, di un intero distaccamento, il Griffith, e l’incarcerazione di una quarantina di giovani ragazzi che ne facevano parte, alcuni dei quali, in seguito uccisi. Se fino alla primavera, le principali azioni tedesche erano puntate ad opera di 50-100 uomini contro un distaccamento o un comando, in estate, a partire da luglio, la strategia tedesca mutò e vennero impiegati migliaia di soldati per la cattura dei partigiani.
Come spiega Primo Savani, nel rastrellamento “veniva stabilito un largo cerchio alla base del sistema montagnoso che si intendeva investire, e per ogni strada, e per ogni valle si risaliva sino alla cima dei monti, frugando e sparando ovunque. Gli atti di barbarie erano all’ordine del giorno”. <27 A luglio iniziò il primo grande rastrellamento e fu forse il più duro e il più tragico, secondo Savani <28.
Nella prima fase il rastrellamento investì la Zona Est della Cisa, interessando i paesi di Tizzano, Corniglio, Traversetolo e Langhirano per poi passare verso la metà del mese alla Zona Ovest della Cisa. Tremenda fu la ferocia e la violenza che i tedeschi riversano non solo contro i patrioti ma anche contro civili ed interi paesi, tra i quali ricordiamo la strage di S. Maria del Taro, di Pellegrino Parmense e l’eccidio di Strela. Riflette Tarantini, di come queste operazioni furono solo in parte una sconfitta per le formazioni partigiane, “una battaglia perduta nell’arco della guerra, ma sta qui la forza profonda della Resistenza: dalla sconfitta emerse ingigantita la volontà di riscossa”. <29
Infatti a fine luglio, quando i tedeschi abbandonarono i territori, le formazioni erano già ricostituite e ristabilite nei propri territori: nella Zona Est della Cisa operano principalmente la 47a brigata Garibaldi e la 4a Giustizia e Libertà. Nella Zona Ovest si costituì il raggruppamento “Monte Penna” che si stanziò nella zona insieme alla 12a e la 31a Garibaldi e la 1a e 2a Julia. Con il mese di agosto il processo organizzativo e coordinativo delle brigate compie un importante balzo avanti con l’elezione e la nomina di un Comando Unico Militare, da parte dei comandanti e commissari delle Brigate.
[NOTE]
11 Primo Savani, Antifascismo e guerra di Liberazione a Parma. Cronache dei tempi, Guanda, Parma, 1972, cit. p. 95.
12 Ivi, cit. p.99.
13 L. Tarantini, Resistenza armata nel parmense, cit. p.93.
14 Ivi, cit. p.38.
15 Ferdinando Cipriani, Guerra partigiana. Operazioni nelle Provincie di Parma, Piacenza e Reggio Emilia, STEP Editore, Parma, 1947, cit. p.5.
16 Una stagione di fuoco. Fascismo guerra di Resistenza nel Parmense, a cura di Centro Studi Movimenti, FEDELO’S EDITRICE, Parma, 2015, cit. p.91.
17 L. Tarantini, Resistenza armata nel parmense, cit. p. 104.
18 Carlo Squeri, Quelli del Penna, STEP cooperativa, Parma,1975, p.15.
19 L. Tarantini, Resistenza armata nel parmense, p. 105.
20 P. Savani, Antifascismo e guerra di liberazione a Parma, cit. p.123.
21 Una stagione di fuoco, a cura di Centro Studi Movimenti p. 107.
22 L. Tarantini, Resistenza armata nel parmense, cit. p. 112
23 Ivi p.113.
24 Una stagione di fuoco, a cura di Centro Studi Movimenti p.132
25 Ivi, cit. p.137.
26 L. Tarantini, Resistenza armata nel parmense, cit. p. 129.
27 P. Savani, Antifascismo e guerra di liberazione, cit. p.128
28 Ibidem
29 L. Tarantini, Resistenza armata nel parmense, cit. p. 155.
Costanza Guidetti, La struttura del comando nel movimento resistenziale a Parma, Tesi di laurea, Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, Anno Accademico 2017-2018

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Le città e il paesaggio culturale della Liguria si scoprono più facilmente ai poeti e agli scrittori

Genova: Commenda di Pré

Va ricordato inoltre che se sul piano del numero e delle strutture la geografia cominciava ad avere una discreta consistenza e che soprattutto grazie alla nomina a Rettore, per il triennio 1922-1925, di Paolo Revelli poté svilupparsi in maniera adeguata, bisogna però riconoscere che « sul piano più strettamente culturale e scientifico essa scontava anche la diminuita vitalità dei tradizionali centri di ricerca di tipo storico », compresa la Società Ligure di Storia Patria, la quale stava perdendo la funzione trainante esercitata fino a quel momento nel campo degli studi storico-geografici ed anche per questo « stava smarrendo i contatti con una variegata realtà regionale che procedeva ad organizzarsi autonomamente » <151.
È questo il contesto nel quale Revelli promuove a Genova sia la Scuola speciale di Geografia (una scuola post-laurea della durata di due anni, autonoma rispetto alle facoltà esistenti ed aperta ai laureati in Lettere, Scienze naturali e dell’Istituto superiore di commercio, volta, secondo il regolamento approvato il 22 novembre 1924, a « promuovere il progresso in tutti i rami delle scienze geografiche e preparare gli insegnamenti di geografia in tutti gli ordini della scuola media »); sia il IX Congresso geografico italiano, su cui ci siamo già soffermati proprio all’inizio di questo nostro lavoro, che, corredato da ben sei mostre, si svolse nell’aprile del 1924 e venne inaugurato in maniera solenne dal ministro dell’Istruzione Giovanni Gentile, per il quale « conoscere la terra è dominarla, è agguerrire l’uomo per le battaglie in cui egli sarà sempre impegnato contro la natura, per vincerla e trionfarne in un mondo sempre più vasto di interessi economici e morali » <152. Un obiettivo che Paolo Revelli avrebbe fatto suo nel discorso inaugurale del Congresso auspicando che nelle scelte tematiche dovessero « aver rilievo quelle rivolte a determinare le leggi che regolano la distribuzione dell’elemento italiano, artefice di influsso civile, nelle vaste piaghe terrestri” per celebrare e mettere adeguatamente in evidenza il “primato del popolo italiano nella navigazione e nelle esplorazioni terrestri, come nelle descrizioni geografiche e nella concezione prima della geografia politica, nella creazione del portolano e della carta nautica, sua traduzione grafica, e nella stessa delineazione della carta terrestre moderna » <153.
È a questo punto che, per Massimo Quaini, nell’ambiente accademico e culturale ligure si cominciò, tranne poche eccezioni (in particolare la, per lui « straordinaria », ‘Liguria geologica’ di Gaetano Rovereto pubblicata nel 1939), ad allontanarsi sempre più da una geografia attenta soprattutto, secondo la lezione di <154, ai livelli istituzionali e didattici non meno che ai contesti storici e locali per cercare di ricostruire la storia dell’organizzazione che l’uomo ha saputo dare alle condizioni ed alle risorse della Terra, un obiettivo sul quale più volte, e per ultimo nella già citata ‘Miscellanea geotopografica’ distribuita al Congresso del 1924, aveva cercato di richiamare l’attenzione uno storico come Francesco Poggi, allora segretario della Società Ligure di Storia Patria, che bene rappresentava la figura dello studioso locale, ma « del tutto isolato nel suo ideale storiografico quanto nel suo atteggiamento etico e nello spirito antiretorico che l’avevano già indotto a scontrarsi con l’emergente dirigenza della Società » <155.
Una divaricazione che portò all’allontanamento dalla cattedra prima di uno studioso come Carlo Rosselli, chiamato proprio nel 1924 a ricoprire l’insegnamento di Storia economica o del commercio, e più tardi, a causa delle discriminazioni razziali, anche del medievista Roberto Sabatino Lopez, che a Genova ebbe appena il tempo di abbozzare le linee, oltre che di una rinnovata storia economica, anche di una nuova storia delle esplorazioni dei mercanti genovesi, per cui « per attuare un reale e profondo rinnovamento della cultura geografica sarebbe stata necessaria una convinta e più larga partecipazione all’esperienza o almeno allo spirito della Resistenza, come scuola di antiretorica e di riscoperta del terreno, in particolare della montagna ligure: e non soltanto come teatro della guerra partigiana », come seppe fare mirabilmente Italo Calvino che si fece storico e geografo della Resistenza tanto nel romanzo ‘Il sentiero dei nidi di ragno’, quanto nelle pagine de « Il Politecnico » di Elio Vittorini con l’appassionato reportage sulla Liguria magra e ossuta sulla « dimenticata e sconosciuta Liguria dei contadini » delle Alpi Marittime, nascosta dietro alla « Liguria dei cartelloni turistici », dei grandi alberghi, delle case da gioco e del turismo internazionale.
Una lezione « geografica », quella di Calvino, che andò ben al di là di questi suoi primi reportages <156 e che suffraga la convinzione profonda che nella descrizione-interpretazione della Liguria c’è una regola che sembra valere a partire dall’età romantica, al punto da far dire a Massimo Quaini che « le città e il paesaggio culturale, che si sottraggono alla vista del viaggiatore e dello studioso troppo sicuro di sé e dei suoi pregiudizi e che si accontenta della città visibile, apparente negli stereotipi ricorrenti della vocazione marinara e commerciale e di uno spazio regionale considerato troppo stretto e povero <157, si scoprono più facilmente ai poeti e agli scrittori abituati a esplorare i labirinti di specchi in cui le diverse immagini rimbalzano le une sulle altre come nelle mille « città invisibili » di Calvino » <158.
La divaricazione, alla quale fa riferimento Quaini, che si sarebbe verificata a partire dagli anni Venti del Novecento, inducendo, a cominciare da Paolo Revelli, gli studiosi delle discipline geografiche operanti in Liguria e le relative istituzioni scientifiche ed accademiche a privilegiare soprattutto le tematiche legate alle scelte imperialistiche del regime, si può considerare il punto di arrivo di un processo che, col sostegno dei più significativi esponenti del mondo imprenditoriale ed anche dell’economia marittima e mercantile locali fortemente interessati anche alla gestione del fenomeno dell’emigrazione di massa, aveva peraltro orientato in questa direzione fin dagli anni immediatamente successivi all’unità d’Italia, come abbiamo cercato di dimostrare anche in un nostro contributo alla storia della facoltà di Lettere, nonché in altri nostri interventi <159, l’impegno scientifico e didattico di alcuni dei più qualificati
studiosi (da Gerolamo Boccardo a Vincenzo Grossi, Bernardino Frescura, Paolo Revelli ed Emilio Scarin) riconducibili in qualche misura alle ricerche di interesse geografico operanti nell’Ateneo genovese. <160
[NOTE]
152 Atti del IX Congresso geografico italiano, Genova 1927, I, p. 77.
153 Ibidem, pp. 83-87.
154 L. GAMBI, Una geografia per la storia, Torino 1973.
155 M. QUAINI, La geografia cit., p. 315.
156 V. anche M. QUAINI, L’ombra del paesaggio. L’orizzonte di un’utopia conviviale, Reggio Emilia 2006, pp. 27-42.
157 Sulla persistenza di questi stereotipi nell’immaginario collettivo ligure relativi alla percezione del paesaggio ligure ed alla costruzione della sua identità storica e culturale che ancora oggi tende a contrapporre una scenario che « punta tutto sulla competizione e sulla globalizzazione, sull’alta velocità e sul potenziamento del tradizionale ruolo mercantile e marittimo, mediterraneo ed europeo (lo shipping, la logistica, ecc.) », per il quale « il territorio locale ne costituisce lo sfondo invisibile e per così dire innaturale », ad uno scenario che punta invece « non tanto sull’adeguamento all’ordine mondiale ma piuttosto sulla centralità del territorio locale e sulla diversità dei paesaggi, e racconta della molteplicità di destini locali legati a una storia e a una varietà di risorse e di paesaggi (…) a loro modo riducibili alla piccola scala (quella della mondializzazione) », Massimo Quaini è ritornato anche in un saggio posto all’inizio della Storia di Genova pubblicata dalla Società Ligure di Storia Patria. In esso auspica il superamento di questa dicotomia che fa ricorso al « terzo occhio, ovvero la terza lente » presente sulla testa di Giano (fondatore eponimo di Janua-Genova) nella parte dell’Iconologia di Matteo Ripa dedicata alla Liguria, vale a dire una poesia e una letteratura che in qualche modo possano riscattare l’occhio accecato di Polifemo, attraverso (per rifarsi ancora una volta a Calvino, il quale rimanda a sua volta al Montale di ‘Forse andando una mattina’), la « ricerca d’una espressione necessaria, unica, densa, concisa, memorabile », sempre tesa ad « inseguire il fulmineo percorso dei circuiti mentali che catturano e collegano punti lontani dello spazio e del tempo » (M. QUAINI, Nel segno di Genova. Un ritratto fra mito, storia e geografia, in Storia di Genova. Mediterraneo, Europa, Atlantico, a cura di D. PUNCUH, Genova 2003, pp. 25 e 30-31).
158 M. QUAINI, La geografia cit., pp. 332-333.
159 V. sopra nota 134 e, in particolare, F. SURDICH, Il dibattito sull’espansione coloniale italiana alla Società di Letture e Conversazioni Scientifiche di Genova (1868-1912), in Filosofia e politica a Genova nell’età del positivismo, a cura di D. COFRANCESCO, Genova 1988, I, pp. 269-295; ID., I viaggi, i commerci, le colonie: radici locali dell’iniziativa espansionistica, in La Liguria, a cura di A. GIBELLI e P. RUGAFIORI, Torino 1994, pp. 455-509.
160 F. SURDICH, Una geografia per l’espansione commerciale e coloniale, in Tra i palazzi di via Balbi cit., pp. 337-414.
Francesco Surdich, Cartografia, geografia, esplorazioni in (a cura di) Dino Puncuh, La Società Ligure di Storia Patria nella storiografia italiana. 1857-2007, Atti della Società Ligure di Storia Patria, Nuova Serie – Vol. L (CXXIV) Fasc. I, Genova, 2010

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Elsa De Giorgi, la diva che sapeva raccontare

Elsa de’ Giorgi era una bellissima attrice di cinema e di teatro che, oltre a recitare appassionatamente, diede dimostrazione di saper anche scrivere, segnando la vita artistica e letteraria di un’epoca. Con il cinema (una ventina di titoli), Elsa acquistò popolarità di diva, e sotto certi aspetti (narcisismo, fascino prepotente) della diva aveva il temperamento; tuttavia per educazione (il padre era un intellettuale non allineato) e ricchezza di interessi si sentiva destinata ad altro. Se si cercano notizie su di lei, tuttavia, non se ne trovano abbastanza per capire che fu oggettivamente una precorritrice dei tempi, una donna di fascino e d’intelligenza a cui grandissime personalità hanno riconosciuto il genio. È l’editoria che, non ristampando più i suoi libri, non ha dato seguito a questo riconoscimento.
Nacque a Pesaro il 26 dicembre del 1914, ma come una vera diva festeggiava il suo compleanno un mese dopo, il 26 gennaio, diminuendo così abilmente la sua età di un anno. La sua famiglia era di antica aristocrazia provinciale, i Giorgi Alberti, nobili di Bevagna e Camerino. Fu una diva nel cinema autarchico degli anni ’30, dove iniziò una fitta carriera con il capolavoro minimalista T’amerò sempre del ‘33 di Mario Camerini. In seguito, dopo una ventina di film, si propose come attrice di prosa diventando una delle artiste più stimate, tanto che Luchino Visconti rese omaggio al suo carisma assegnandole il ruolo di Elena di Troia al centro del leggendario Troilo e Cressida del ’49 al Giardino di Boboli e Strehler nel’ 57 la identificò con la superintellettuale Madame Roland nei Giacobini di Zardi. Per finire, una terza apparizione: la dama crudele, la signora Maggi, che le affidò in Salò (’74) Pier Paolo Pasolini.
Nel 1948 sposò Alessandro Contini Bonacossi, detto ‘Sandrino’ <9, partigiano, scrittore e curatore d’arte al quale dedicò il memoriale partigiano “I Coetanei” <10, uscito per Einaudi. Nel ’92, dedicato all’amico Carlo Levi, pubblica Ho visto partire il tuo treno in cui ricostruisce la sua tormentata storia d’amore con Calvino e traccia un ritratto inedito dello scrittore; nel ’97 pubblica da Baldini Castoldi & Dalai il romanzo Una storia scabrosa <11. Muore a ottantadue anni il 12 settembre del 1997 <12.
Donna coraggiosa, Elsa de’Giorgi era una contessa con il debole per gli intellettuali; animatrice nel dopoguerra di un frequentato salotto romano, amava aprire la sua lussuosa casa per riunire a pranzo le più grandi menti del tempo con le quali riuscì a stringere amicizie che durarono tutta la vita:
“Scelsi senza esitazione l’amicizia offertami da gente come Trilussa, Savinio, Cecchi, Palazzeschi, Sibilla Aleramo, Lina Pietravalle, la Magnani allora ancora non rivelata. (…) l’attrazione verso gli spiriti geniali era istintiva. Il primo lusso cui mi abbandonai, indipendente e padrona di casa, fu l’ospitalità, il piacere di accoglierli, accostarli tra loro. Già allora avevo il gusto di riunire la gente nel più assoluto disinteresse (…)”. <13
La cosa che cattura subito l’attenzione è che il nome di Elsa De Giorgi viene collegato sia a quello di suo marito Sandrino, per le vicende giudiziarie che seguirono la sua scomparsa e per l’importantissimo patrimonio di opere d’arte, quanto a quello del suo amante Italo Calvino, tanto che la sua fama di diva del tempo risentì considerevolmente dello scandalo della separazione legale dal marito e della sua storia segreta con lo scrittore. <14
La questione giudiziaria del marito della De’ Giorgi, il conte Alessandro Contini Bonacossi (Sandrino), fu una questione complessa ed intricata della quale non si è ancora riusciti a risolvere il rompicapo, anzi continua tutt’ora ad essere un giallo irrisolto. Sandrino Bonacossi era l’erede, insieme ai fratelli e ad altri cugini (Lorenzo, Caterina e Anna Maria Papi) della più prestigiosa collezione italiana di arte antica, ricca di capolavori firmati Goya, El Greco, Tiziano, Ghirlandaio, Murillo. La preziosa collezione, che inizialmente ospitava 1.066 capolavori, fu realizzata pazientemente da Alessandro Contini Bonacossi e da sua moglie Vittoria Galli. Sono gli anni di fine ‘800, Alessandro era un modesto trafficante di francobolli di una famiglia piccolo borghese di Ancona, mentre Vittoria Galli era una donna di famiglia povera, ma di grandi doti intellettuali; i due si sposarono e diedero inizio ad un commercio di opere d’arte recandosi in Spagna per acquistare dalle grandi famiglie dell’aristocrazia spagnola (che al tempo si stavano spogliando dei loro patrimoni) <15. Durante il periodo fascista la famiglia si impose a tal punto che il duce conferì loro un titolo nobiliare e già nel 1945 i due coniugi si resero disponibili a devolvere il loro patrimonio allo Stato e al comune di Firenze.
Quando nel ’55, sei anni dopo la moglie, morì Alessandro Contini Bonacossi, un’eredità di 300 miliardi dell’epoca fu lasciata ai figli; vi erano, infatti, Alessandro Augusto (Sandro), Elena Vittoria (Vittorina) e Sandrino – che in verità era un nipote affiliato – che era l’unico a voler rispettare le volontà dei genitori, cioè che venisse donato tutto allo Stato e a Firenze. La donazione infatti, una volta sottoscritta dagli eredi, cambiò e previde che dei 148 dipinti rimasti, solo 35 (scelti da una commissione ad hoc) andassero allo Stato e che il resto delle opere potesse essere venduto personalmente dalla famiglia entro dodici anni a partire dal 1969. La famiglia Contini Bonacossi fu accusata quindi, di contrabbando di opere d’arte all’estero e di aver costituito illecitamente grosse riserve di capitali fuori dall’Italia: si insinuò che, dopo aver avuto la concessione dallo Stato di cedere la maggior parte delle 148 opere della collezione, in cambio della donazione di 35 pezzi, avessero venduto i quadri, a prezzi enormemente superiori a quelli stabiliti al momento dell’esportazione, trattenendo all’estero la differenza.
La dispersione della collezione continuò dunque in questo modo, per dieci anni, finché i Contini Bonacossi non vennero accusati di aver esportato le opere d’arte all’estero e vennero loro requisiti i dipinti restanti. Visto che i quadri erano stati sequestrati, gli eredi chiesero il ritiro della donazione, perché era venuta meno la condizione imposta per essa, ovvero la disponibilità delle opere; tuttavia questa richiesta non venne accolta e le opere d’arte furono condannate ad un destino incerto. <16 Vi erano quindi due ordini di problemi: quello dell’illecito guadagno, ma anche quello dello smembramento di una raccolta così importante. In tutto questo, Sandrino, che era l’archivista di famiglia e l’unico d’accordo sul cedere il patrimonio artistico allo Stato, nel luglio del 1955 scompare: lavora in America, dove fa il curatore per Samuel Kress (i quadri dei conti italiani costituirono per 30 anni la riserva della collezione della National Gallery di Washington). Nel 1975 venne ritrovato a terra morto nel suo residence di Washington, impiccato con due corde ad un tenda che non avrebbe mai potuto reggere il suo peso. Sorse così il dubbio se si trattasse di suicidio o omicidio.
Elsa De Giorgi, ormai vedova, si batté contro gli altri eredi raccontando la saga della famiglia Contini Bonacossi nel suo libro “L’Eredità Contini Bonacossi: l’ambiguo rigore del vero” <17 di cui l’ultimo capitolo – scritto dal suo legale – venne sequestrato; <18 la donna era stata designata erede universale del patrimonio del marito, ma la complessa causa di separazione che seguì la scomparsa di quest’ultimo diede tinte fosche alla faccenda.
[NOTE]
9 Alessandro Contini Bonacossi, nipote affiliato di Alessandro Bonacossi e Vittoria Galli, era legato ai due genitori acquisiti da doppio vincolo di parentela: suo padre era infatti fratello di Alessandro e sua madre era invece figlia di Vittoria, avuta dal precedente matrimonio. L’omonimia col conte Alessandro Augusto (Sandro), figlio primogenito di Alessandro e Vittoria, ha generato talvolta confusione e sovrapposizioni errate tra i due personaggi.
10 E. de’Giorgi, I Coetanei, Einaudi, Torino 1955. Questo romanzo-testimonianza, portavoce di un’epoca, narra dei fatti avvenuti nel 1940 e racconta il fermento culturale e politico antifascista; una delle prime espressioni di malessere di una generazione che aveva creduto ingenuamente che bastasse debellare il fascismo ufficiale per ricostruire una società moralmente vivibile. 11 Per capire meglio la rilevanza della figura di Elsa de’Giorgi nel suo tempo si riporta di seguito un elenco delle opere sia in qualità di scrittrice, sia quelle in cui ha contribuito come attrice. Scrisse: I coetanei, con una lettera di Gaetano Salvemini, Torino, Einaudi, 1955 (“Testimonianze”) Nuova ed. con prefazione di Giuliano Manacorda, Milano, Leonardo, 1992. L’innocenza, Venezia, Sodalizio del libro, 1960 (“La sfera”)Trad. francese: L’Innocence, roman traduit de l’italien par Marcelle Bourrette-Serre, Paris, Albin Michel (Lagny-sur-Marne, impr. Grevin et fils), 1963. La mia eternità, con una premessa di Pier Paolo Pasolini e tre disegni originali di Renato Guttuso, Caltanissetta-Roma, S. Sciascia, 1962 (“Un coup de des”). Un coraggio splendente: romanzo, Milano, Sugar, 1964. Il sole e il vampiro, Edizioni di Opera aperta (Città di Castello, Istituto poligrafico umbro), 1969 (“I testi” ). Storia di una donna bella, Roma, La nuova sinistra – Edizioni Samonà e Savelli, 1970 (“Narrativa”). Dicevo di te, Pier Paolo, con una testimonianza poetica di Rafael Alberti, introduzione di Giuliano Manacorda, Roma, Carte segrete, 1977 (“Carte segrete di poesia” 3). Poesia stuprata dalla violenza, Roma, Carte segrete, 1978 (“Carte segrete di poesia”). L’eredità Contini Bonacossi: l’ambiguo rigore del vero, Milano, Mondadori, 1988. Ho visto partire il tuo treno, Milano, Leonardo, 1992.
Una storia scabrosa, Milano, Baldini & Castoldi, 1997. Corpus mysticum: poesie, disegni di Dimitrije Popovic, a cura di Carmine Siniscalco, Roma, Segni. Per quanto riguarda la filmografia invece recitò in: Ninì Falpalà di Amleto Palermi (1933); L’impiegata di papà di Alessandro Blasetti (1933); T’amerò sempre di Mario Camerini (1933); Teresa Confalonieri di Guido Brignone (1934); La signora Paradiso di Enrico Guazzoni (1934); Porto di Amleto Palermi (1934); L’eredità dello zio buonanima di Amleto Palermi (1934); Ma non è una cosa seria di Mario Camerini (1936); La mazurka di papà di Oreste Biancoli (1938); La sposa dei Re di Duilio Coletti (1938); La voce senza volto di Gennaro Righelli (1939); La grande luce di Carlo Campogalliani (1939); Due milioni per un sorriso di Carlo Borghesio e Mario Soldati (1939); Il fornaretto di Venezia di John Bard (1939); Capitan Fracassa di Duilio Coletti (1940); La maschera di Cesare Borgia di Duilio Coletti (1941); Tentazione di Hans Hinrich e Aldo Frosi (1942); Fra Diavolo di Luigi Zampa (1942); Sant’Elena, piccola isola di Renato Simoni (1943); La locandiera di Luigi Chiarini (1944); Il tiranno di Padova di Max Neufeld (Massimiliano) (1946); Manù il contrabbandiere di Lucio De Caro (1947); Ro.Go.Pa.G., episodio La ricotta di Pier Paolo Pasolini (1963); Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pier Paolo Pasolini (1975); Poussière de diamant di Fahdel Jaibi e Mahmoud Ben Mahmoud (1992); Assolto per aver commesso il fatto di Alberto Sordi (1992).
12 Elsa de’ Giorgi: La diva che sapeva raccontare di Kezich Tullio in Corriere della Sera del 13 settembre 1997
13 Si riporta in forma più estesa il brano tratto da Ho visto partire il tuo treno in cui Elsa de’ Giorgi racconta (pag.55): “Morto mio padre, spenzolata sulla vertigine di una temibile quanto rozza libertà che la sorte di neodiva poco più che adolescente prospettava, scelsi senza esitazione l’amicizia offertami da gente come Trilussa, Savinio, Cecchi, Palazzeschi, Sibilla Aleramo, Lina Pietravalle, la Magnani allora ancora non rivelata. (…) l’attrazione verso gli spiriti geniali era istintiva. Il primo lusso cui mi abbandonai, indipendente e padrona di casa, fu l’ospitalità, il piacere di accoglierli, accostarli tra loro. Già allora avevo il gusto di riunire la gente nel più assoluto disinteresse, facoltà questa che avrebbe acquistato significato durante l’occupazione tedesca, quando la mia casa divenne meta naturale e rifugio di illustri e meno illustri ricercati.”.
14 Da Elsa de Giorgi, Volevo conquistare una mente ho scelto Italo Calvino in La Stampa del 11/11/1992 n. 309 p.17: «Quello con Italo Calvino è stato l’unico incontro amoroso vero e forte che ho avuto fra i letterati» ricorda Elsa de Giorgi, attrice, poetessa, scrittrice, frequentatrice del gran mondo. «Per tutta la mia vita l’ambizione massima è stata quella di conquistare l’intelligenza, la mente del maestro. Tutta la mia seduzione l’ho esercitata per essere riconosciuta come persona pensante. La bellezza, in questo senso, mi è stata di ostacolo. Per gli uomini la donna bella è oca e deve essere portata a letto. Sedurla significa avere influenza su di lei. E io ero poco adatta a questo gioco. Sono stata una donna un po’ eccezionale: per la mia bellezza, perché ero una diva molto conosciuta, perché ai miei tempi la diva era carica di mistero, non come ora che la televisione porta tutti nelle case di tutti e non c’è più nessun alone intorno a un’attrice. Gli uomini allora erano molto generosi. Una diva scatenava amori e ricatti terribili. Una volta uno mi mandò in dono un’auto sportiva scoperta (che io mandai indietro). Un altro minacciava di rapirmi con la Balilla di famiglia. Tanti minacciavano il suicidio, uomini con cui avevo avuto un flirt o con cui avevo soltanto civettato. Mio marito, che era un uomo spiritosissimo, Sandrino Contini Bonacossi ogni tanto mi ricordava quelli con cui avevo civettato distrattamente. Civettare mi piaceva, e mi piace ancora, moltissimo. Il gioco della seduzione che sapevo condurre era quello della conversazione, dell’allusione, un po’ alla maniera delle dame del Settecento. Con quell’aria dolce e un po’ scema cui il cinema mi aveva condannato, io sono stata la fidanzatina d’Italia. I ragazzi che andavano al fronte avevano la mia foto nello zaino. E mi scrivevano quintali di lettere. Questi riconoscimenti ripagavano, eccome. Ma, come seduttrice, ho avuto anche i miei insuccessi. Fra i più brucianti: il non essere riuscita a rendere eterno un amore».
15 Da Chi è il Conte Bonacossi. Il Conte Bonacossi ha regalato un sacco di miliardi in La Stampa dell’8/02/’74, n.33 pag.2: “Esposti da domani i capolavori d’arte donati a Palazzo Pitti dalla famiglia fiorentina : Seguiamo un po’ la storia di questa donazione. Intanto, la famiglia, originaria di Mantova. Il conte Alessandro, amante dell’arte della quale era finissimo intenditore, sposata la bellissima lombarda Vittoria Galli lasciava l’Italia e si stabiliva in Spagna dove rimaneva dieci anni. E’ in quel Paese che sono nati Alessandro Augusto e Elena Vittoria e che il conte Alessandro riusciva a formare una delle maggiori raccolte filateliche del mondo. In questa raccolta grande importanza hanno i francobolli della Spagna e delle sue colonie. Una raccolta di valore inestimabile. Si pensi che quando nel 1911 il conte tornò in Italia, a Roma, dove si stabiliva, e la vendeva, ricavava una somma tale da poter acquistare quadri di artisti spagnoli (fino al Goya) e italiani (da Cimabue al Tiepolo). Nel ’32 la la famiglia si spostò a Firenze nella villa Strozzi il cui nome venne cambiato in « Villa Vittoria », dove ha sede l’attuale grandioso Palazzo dei Congressi, in Pratello Orsini. Gli studiosi di tutto il mondo sapevano della bellissima raccolta di quadri e sculture e, senza trovare resistenze, si recavano a visitarla accompagnati in questo straordinario « museo di famiglia» da uno dei conti Contini Bonacossi. Firenze, 8 febbraio. Non è esagerato parlare di momento « storico » per il collezionismo d’arte. Domani infatti a Firenze le sale della Palazzina della Meridiana, sul retro di Palazzo Pitti, si apriranno prima alle autorità, poi al pubblico per presentare i capolavori donati allo Stato italiano dagli eredi dei conti Alessandro e Vittoria Contini Bonacossi. La donazione è al primo posto, per importanza, nella classifica di quelle ricevute dallo Stato: le è pari soltanto quella palatina. Fanno parte di questa collezione opere di Cimabue, Sassetta, Andrea del Castagno, Duccio da Boninsegna, Paolo Veronese, del Gianbellino, del Tintoretto, di Giovanni Bellini, per parlare di alcuni dei grandi artisti italiani; di Goya, del Velasquez, di Zurbaran, del Greco, per quanto riguarda gli stranieri. Poi ci sono cassoni intagliati del Rinascimento, marmi del Bernini, tondi robbiani, maioliche del Quattrocento che Bernard Berenson, amico – di famiglia dei Contini Bonacossa definiva « non certo inferiori né per valore né per importanza alla pinacoteca ». Perché questa donazione? Perché « diventi di pubblico godimento » come precisò nel suo testamento il conte Alessandro Contini Bonacossi. Ma non è stato facile per i figli. Alessandro Augusto ed Elena Vittoria, sposata con lo scrittore Roberto Papi, scomparsa qualche anno fa, far rispettare le ultime volontà del padre, morto nel 1955. Sono occorsi ben quindici anni, fra intralci burocratici, ostacoli vari e discussioni circa la natura giuridica della raccolta (con ricorsi anche al Consiglio di Stato). A tutto questo si aggiunsero poi altre complicazioni, e ulteriori ritardi, quando morì uno. degli eredi diretti, cioè la signora Elena Vittoria. Fortunatamente ci fu Augusto Bonacossi chi si adoperò al massimo delle proprie capacità perché tutti i problemi fossero risolti. “
16 Sandro Bertucelli, I Contini Bonacossi di nuovo sott’accusa, in La Repubblica del 16/10/88
17 E. De Giorgi, L’eredità Contini Bonacossi: l’ambiguo rigore del vero, Milano, Mondadori, 1988
18 ‘Congelata’ la collezione Contini di Cinzia Sasso in La Repubblica del 14/06/1989: “Gli altri fratelli si spartiscono intanto tutto quello che possono e con lo Stato raggiungono una sorta di accordo: in cambio della deroga a rispettare la legge che vieta l’ esportazione dal territorio nazionale di opere d’arte, cedono 65 quadri da scegliere tra i 200 che presentano come collezione completa. Successivamente, indagini dei carabinieri del nucleo di protezione del patrimonio artistico, hanno trovato per i quadri mancanti deboli tracce: una Sacra famiglia del Correggio si perde tra Amsterdam e Zurigo; il Cardinal don Luis di Goya è stato venduto dieci anni fa per 8 milioni; un’ annunciazione di El Greco è stato esportato con indicazione di valore di 9 milioni. La saga della famiglia Contini è raccontata anche in un libro, L’eredità Contini Bonacossi scritto proprio da Elsa dé Giorgi. L’ultimo capitolo, scritto da Francesco Cecchi, legale di Elsa e dal presidente del Tribunale Clemente Papi, è il sequestro di ieri”.
Eugenia Petrillo, Italo Calvino ed Elsa De Giorgi: l’itinerario di un carteggio, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Padova, Anno Accademico 2014-2015

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Negli ultimi mesi del 1943 al vertice della Questura di Verona si avvicendano ben quattro dirigenti

La breve parentesi che va dal crollo del regime, il 25 luglio del 1943, all’armistizio dell’8 settembre con l’occupazione tedesca e la nascita della RSI, «viene accolta a Verona nel segno di una sostanziale continuità di atteggiamenti e comportamenti prudenzialmente neutrali» <292 ma permette al contempo ad alcuni dei “vecchi” schedati di ritornare in città dai luoghi di confino, a volte in condizione di semiclandestinità <293. Anche il cuore del sistema di polizia del regime, compresa la rete dei fiduciari OVRA, rimane sostanzialmente al suo posto, fatte salve le nuove “direttive” che è tenuto a seguire <294. Poi, il rapido sviluppo della guerra civile cambia completamente il quadro. Tutte le tendenze che emergono nei primi anni di guerra trovano non solo conferma, ma una radicale accelerazione nei due anni della Repubblica sociale italiana. Come interpretare, quindi, il fatto che nel 1944, nel pieno della guerra civile, siano stati aperti solo nove nuovi fascicoli personali a fronte, ad esempio, dei novanta aperti nel 1937, o dei 47 del 1941, e che contestualmente ci si trovi di fronte a sei condannati dal Tribunale speciale (in questo caso la sua nuova versione provinciale), cioè la cifra più alta dopo le punte del 1939 e del 1928?
Evidentemente la guerra e, più ancora, la guerra civile hanno prodotto una sostanziale trasformazione non solo delle esigenze nella gestione dell’ordine pubblico, ormai minacciato dalle azioni armate delle forze partigiane, ma della stessa sorveglianza e degli organi cui sono affidate funzioni di polizia. Nuovi corpi e nuove pratiche, che spesso appaiono ai vecchi fascisti come il rinverdirsi dello squadrismo della prima ora, si fanno strada prepotentemente aumentando la discrezionalità e la violenza delle autorità preposte alla pubblica sicurezza. Le attività di polizia in funzione antipartigiana vengono infatti condotte principalmente da forze estranee alla catena di comando della pubblica sicurezza: al conflitto interno agli stessi apparati di polizia fra adesione al “nuovo ordine” e fedeltà ai compiti e alla prassi “tradizionali” <295, si somma il conflitto tra i differenti corpi, più o meno fascistizzati e spesso capeggiati da personalità carismatiche con una particolare propensione all’esercizio della violenza <296.
In tale contesto, il consueto dispositivo di sorveglianza condensato nei fascicoli personali si dimostra non più funzionale, tanto da venire sostanzialmente abbandonato: «L’imperativo categorico del momento è quello di volgere tutti noi stessi al combattimento. Il tempo delle scartoffie verrà a guerra vinta», scrive il colonnello Galliano Bruschelli, comandante provinciale della GNR, il 28 settembre 1944 <297. Un giudizio che è rivelatore di un intero atteggiamento mentale e che, anche se nell’occasione si riferisce ad un conflitto di competenze sorto fra diversi corpi repressivi, può essere esteso a tutto il tradizionale dispositivo di polizia del Ventennio. Non è un caso che anche l’attività del Ministero dell’Interno (trasferito al Nord nel gennaio 1944 <298) in questo periodo risulti «piuttosto scarsa», nel quadro di una situazione «assolutamente ingovernabile» <299. Nuovo ministro dell’Interno è Guido Buffarini Guidi, già sottosegretario di Stato del regime dal 1933, ma fin dall’inizio il suo ruolo viene costantemente minacciato dagli organi del Partito, dalla tendenza all’autonomia della Guardia nazionale repubblicana, dalle direttive di Mussolini stesso ai capi delle province (nuova denominazione dei prefetti, che dovevano ora riunire in sé la rappresentanza dello Stato e quella del partito) e soprattutto dal “sistema tedesco” <300.
La polizia in generale e la Questura in particolare perdono la centralità che avevano avuto nell’intero corso del regime: Mussolini provvede alla completa rimozione di prefetti e questori, sostituendoli con funzionari “politici”, incarichi in cui per tutto il periodo della RSI si verificano frequenti avvicendamenti, rischiando di svuotarli quasi del tutto di significato <301. Accanto alla GNR, che riunisce ciò che resta dell’Arma dei carabinieri e la ex Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, tra i nuovi corpi che agiscono con sempre maggiore autonomia vi è la Polizia ausiliaria che, «istituita con l’intenzione in origine di porla sotto il controllo della Ps, in realtà andò sempre più liberandosi da tale tutela per rispondere ai propri capi, i cosiddetti “questori ausiliari”. […] Ex squadristi, fanatici fascisti della “prima ora”, che avevano intuito […] come gli sviluppi della situazione politico-militare concedessero loro insperati spazi di manovra» <302.
Successivamente, dal luglio del 1944 alla Liberazione, prendono forma dai quadri del PFR le Brigate nere, la cui costituzione sanciva il fatto che «anziché procedere verso l’unificazione dei compiti di polizia, […] si era dato vita a un nuovo corpo di polizia»: le Brigate nere assumono dunque le caratteristiche di un corpo di polizia per il controllo del territorio, la sorveglianza dell’opinione pubblica, dell’attività sovversiva e partigiana, degli altri gruppi armati della RSI e di qualunque inadempienza alle norme belliche, agendo in completa autonomia e andando «a sovrapporsi alla GNR e ai suoi UPI, alla Polizia repubblicana e alla sua Polizia politica, nonché ai vari reparti più o meno speciali che agivano con il medesimo fine» <303.
A Verona dopo l’8 settembre Piero Cosmin, a detta dello stesso Pisanò uno degli esponenti più estremisti del fascismo repubblicano <304, si “autoinveste” della carica di prefetto estromettendo Canovai <305, mentre a reggere temporaneamente la Questura al posto di Guarducci lo stesso Cosmin incarica Giovanni Bocchio, console della Milizia. Lo squadrista Bruno Furlotti va invece a dirigere la Polizia federale <306. Per quanto concerne la Guardia nazionale repubblicana, a comandare il 618° Comando provinciale (da cui dipende l’omonima Compagnia O.P.) è, dall’ottobre del 1944, il colonnello Galliano Bruschelli; il 40° Battaglione mobile comandato dal maggiore Ciro Di Carlo, alle dipendenze del Comando delle SS, si distingue come «uno dei reparti più attivi e impegnati nell’opera di repressione delle formazioni partigiane» <307. L’UPI provinciale della GNR è diretto dal capitano Ugo Martinelli e a Verona ha una sede, in via Leoncino 13, anche l’Ispettorato regionale veneto dell’UPI-GNR <308. In città, i reparti della GNR sono dislocati presso l’ex gruppo rionale “F. Corridoni” del PNF, fuori porta Vescovo, l’ex caserma dei carabinieri sita nella piccola piazza a fianco del Teatro Romano, l’ex caserma della Milizia in via San Vitale, l’ex caserma dei carabinieri di Borgo Trento e le cosiddette “casermette” di Montorio, che furono tutti (assieme ad altri ancora) luoghi di detenzione e tortura di antifascisti e partigiani. Infine, a Verona opera anche la 21a Brigata nera provinciale Stefano Rizzardi, forte di 315 uomini e comandata, dal febbraio 1945, dal legnaghese Valerio Valery <309.
Negli ultimi mesi del 1943 al vertice della Questura si avvicendano ben quattro dirigenti, «primo segnale di una ricerca mai soddisfatta di correttezza ed equilibrio nelle relazioni fra la Questura e gli organi del fascismo repubblicano ideologicamente più connotati, i quali nutrono forti sospetti circa l’affidabilità dei questori nella gestione dei reati di natura politica» <310. Sui conflitti che si verificano con frequenza tra Questura, GNR e Brigate nere sono illuminanti le osservazioni e i documenti riportati da Domenichini nel suo saggio già più volte citato, al quale si rimanda.
Resta qui da sottolineare come i sospetti da parte dei fascisti sull’affidabilità del personale della Questura di Verona, certamente infondati nel caso del Vinicio Fachini, questore dall’agosto 1944 alla Liberazione <311, lo erano invece per altri funzionari, entrati in relazione con elementi del CLN, che fornirono un supporto all’attività partigiana <312. Non è un caso che tali funzionari, come il commissario capo Guido Masiero (poi questore di Verona nel dopoguerra) e il vice commissario Guido Costantino, fossero al centro dei contrasti che si verificavano, nella stessa Questura, con il gruppo della Polizia ausiliaria, contrasti dei quali si trova traccia nelle denunce presentate da parte di ex funzionari e agenti nel dopoguerra contro Fosco Tulliani, comandante del Reparto Arditi della Polizia ausiliaria di Verona, accusato (ma non è ovviamente l’unico) di furti, razzie, sequestro di persona e violenze in occasione di rastrellamenti e perquisizioni <313.
[NOTE]
292 O. Domenichini, Verona 1943-1945: guerra civile, delazioni e torture fra cronaca e storia, in Dal fascio alla fiamma, cit., p. 83. Nei quarantacinque giorni restano al loro posto sia il prefetto Tito Cesare Canovai che il questore Giovanni Guarducci, quest’ultimo in carica dal gennaio 1941.
293 Cfr. Domaschi, Le mie prigioni e le mie evasioni, cit., p. 107.
294 Cfr. Canali, Le spie del regime, cit., pp. 479-480.
295 Cfr. Tosatti, Storia del Ministero dell’Interno, cit., p. 219.
296 Sulla storia della RSI si vedano il classico F.W. Deakin, Storia della Repubblica di Salò, Torino, Einaudi, 1963, ma soprattutto L. Ganapini, La repubblica delle camicie nere, Milano, Garzanti, 1999. Per il tema della violenza e la categoria di guerra civile il riferimento obbligato è C. Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Torino, Bollati Boringhieri, 1991. Sulla RSI a Verona cfr. il già citato saggio di Domenichini, Verona 1943-1945: guerra civile, delazioni e torture fra cronaca e storia, e poi L. Rocca, Verona repubblichina. Politica e vita quotidiana negli anni della Repubblica di Salò attraverso i notiziari della Guardia nazionale repubblicana, Verona, Cierre-IVRR, 1996.
297 ASVr, Questura, A8 Radiati, b. Mat-Meq, fasc. “Melca Pietro”.
298 La Direzione generale di polizia disloca i suoi uffici a Maderno, sul Lago di Garda, e a Valdagno, in provincia di Vicenza (cfr. Tosatti, Storia del Ministero dell’Interno, cit., p. 219). L’ex questore di Verona Travaglio, promosso prefetto e facente funzioni di vice capo della polizia, viene incaricato del trasferimento al Nord degli archivi. Cfr. ibid. e Canali, Le spie del regime, cit., p. 491.
299 Tosatti, Storia del Ministero dell’Interno, cit., p. 213, 217.
300 Cfr. ivi, pp. 217-218. Sul ruolo svolto dalla Germania nazista nell’Italia repubblichina cfr. L. Klinkhammer, L’occupazione tedesca in Italia. 1943-1945, Torino, Bollati Boringhieri, 1993.
301 Cfr. Tosatti, Storia del Ministero dell’Interno, cit., pp. 221-222.
302 Canali, Le spie del regime, cit., p. 481. Per le vicende della polizia in questo periodo si veda ivi, pp. 480-494, nonché Carucci, Confino, soggiorno obbligato, internamento…, cit., pp. 25 e segg.
303 D. Gagliani, Brigate nere. Mussolini e la militarizzazione del Partito fascista repubblicano, Torino, Bollati Boringhieri, 1999, p. 197.
304 Cfr. Domenichini, Verona 1943-1945: guerra civile, delazioni e torture fra cronaca e storia, cit., p. 91.
305 Sarà sostituito nel maggio 1944 da Franco Bogazzi sul quale cfr. ivi, p. 108.
306 Cfr. ivi, pp. 92-93.
307 Rocca, Verona repubblichina, cit., pp. 70-71.
308 Sugli UPI della GNR cfr. A. Osti Guerrazzi, Un organo della repressione durante la Repubblica sociale italiana. Gli Uffici politici investigativi della Guardia nazionale repubblicana, in «Quellen und Forschungen aus italiensischen Bibliotheken und Archiven», n. 86, 2006, pp. 465-490.
309 Cfr. Gagliani, Brigate nere, cit., p. 165 e Melotto, Una convivenza difficile, cit., p. 80. Per Bruschelli e Di Carlo cfr. anche i rispettivi fascicoli in ASVr, Questura, A8 Radiati, ad nomina.
310 Domenichini, Verona 1943-1945: guerra civile, delazioni e torture fra cronaca e storia, cit., pp. 103-104.
311 Anche per Fachini si veda il fascicolo personale in ASVr, Questura, A8 Radiati, ad nomen.
312 Cfr. Domenichini, Verona 1943-1945: guerra civile, delazioni e torture fra cronaca e storia, cit., p. 106.
313 Cfr. ASVr, Questura, A8 Radiati, ad nomen. Accuse di collaborazionismo con i partigiani a carico di alcuni agenti di P.S. erano state avanzate dallo stesso questore Fachini dopo la fuga del giovane partigiano Luciano Dal Cero nell’agosto del 1944 (cfr. ivi, ad nomen). Nel fascicolo dell’ex direttore del carcere degli Scalzi, Sergio Olas, sono inoltre conservate testimonianze dei funzionari di P.S. del Commissariato di Piazza dei Signori sui loro contatti con il CLN tramite Vittore Bocchetta. Lo stesso direttore del carcere sostenne, a sua discolpa, di aver avuto contatti con il CLNAI di Milano prima della liberazione di Giovanni Roveda da parte dei GAP.
Andrea Dilemmi, «Si inscriva, assicurando». Polizia e sorveglianza del dissenso politico (Verona, 1894-1963), Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Verona, 2010

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