Pur senza interrompersi, il lavoro degli oralisti italiani non poté che essere pesantemente influenzato dal clima di ostilità

I difficili anni Settanta
L’irrompere del terrorismo rosso ebbe, sul mondo dei cultori dell’oralità, gli effetti di una gelata primaverile. Furono numerosi gli intellettuali e gli accademici, che mai avevano avuto troppa simpatia per il rinnovamento culturale patrocinato dai fautori dell’oralità, che approfittarono degli anni di piombo per scagliarsi contro gli storici «scalzi». In molti, forzatamente e infondatamente, vollero vedere in alcuni giovani ricercatori che battevano con il magnetofono le fabbriche cittadine e i campi del contado degli, sia pur inconsapevoli, fiancheggiatori del terrorismo. In quei giovani animati da fervore politico e passione civile che non ammettevano compromessi si volle vedere i creatori, loro malgrado, di un clima favorevole all’eversione armata. Cesare Bermani, con la vivacità di chi fu toccato in prima persona da quegli aventi, ha lasciato note amare su questo tema.
«Per quel che riguarda la storia orale ricordo l’attacco di Umberto Cerroni subito dopo al rapimento di Moro a chi si occupava di folklore (cioè l’Istituto de Martino) come retroterra del terrorismo, l’arenarsi di ogni esperienza didattica d’avanguardia nella scuola e nelle 150 ore <361, l’attacco mirato alle fonti orali nella didattica (cui peraltro gli Istituti reagirono, non però il sindacato), gli attacchi di Giuliano Ferrara e Gian Mario Bravo che volevano in galera Sergio Bologna e qualcun altro di “Primo maggio”, le deliranti accuse ancora di Giuliano Ferrara su una presunta “formazione di terroristi” che Marco Revelli avrebbe fatto tramite l’insegnamento nelle 150 ore a Rivalta, l’arresto di Liliana Lanzardo… e potrei andare avanti un bel pezzo a fornire altri esempi [… con oralisti] sprezzantemente chiamati in quel periodo “storici scalzoni” o “storici mascalzoni”, con riferimento a Oreste Scalzone e le sue posizioni (che comunque non avevano niente in comune con il lavoro storiografico condotto dai cosiddetti “storici scalzi”)» <362.
Pur senza interrompersi, il lavoro degli oralisti italiani non poté che essere pesantemente influenzato dal clima di ostilità che buona parte dell’establishment culturale italiano nutrì contro di loro alla fine degli anni Settanta. In quel contesto si rinfocolò il livore di chi mai aveva accettato fino in fondo il valore dei lavori scientifici intessuti di oralità. È il caso di Domenico De Masi secondo il quale «arriva il ‘68 preceduto dai canti popolari. […] Si sono abbassati i prezzi dei magnetofoni, ridotte le dimensioni, e tutto ciò ha avuto una forte influenza sull’uso e sull’abuso di interviste […]. Ci sono stati due usi “spasmodici” del magnetofono: l’uso operaista e l’uso femminista. Siccome per anni gli emarginati avevano parlato poco (soprattutto le donne avevano potuto esercitare solo l’arte dell’ascolto) c’era da sfogarsi di due, tre mila anni di silenzio […] Se rileggo queste interviste […] debbo dire che sono delle cose inaudite, senza un minimo di criticismo, senza un minimo di orientamento; il dramma della prevedibilità: tutto era scontato. Le domande erano ovvie, le risposte non potevano che essere ovvie» <363.
Al netto delle osservazioni, talvolta fondate, sul diseguale valore dei molti lavori intessuti di oralità, ciò che colpisce di queste parole è la virulenza con cui ci si scagliava contro l’oralità in quanto tale. Dato il contesto, possiamo allora convenire con Bermani quando afferma che «sembra quasi un miracolo che le testimonianze orali abbiamo continuato a farsi strada» <364.
«La consistenza degli archivi sonori esistenti – prosegue Cesare Bermani – è già una buona testimonianza del grande lavoro svolto principalmente negli anni Sessanta e Settanta ma anche dopo. In Italia – prescindendo da alcuni archivi sonori di grossa entità (per esempio quelli di Roberto Leydi, di Nuto Revelli, di Sergio Liberovici ed Emilio Jona, di Anna Maria Rivera, di Giuseppe Colitti, tutti frutto di ricerche militanti o quanto meno personali) – risultano registrate 56 mila ore di materiale. Di esse ben 18 mila, cioè un terzo, sono state registrate dai ricercatori collegati all’Istituto De Martino e alla rete degli Istituti storici della Resistenza, e aggiungendovi gli archivi di alcune altre strutture militanti si arriva ad almeno metà del registrato […]. Mi sembra un dato più che sufficiente a suffragare l’iter quasi integralmente non accademico degli studi di storia con testimonianze orali» <365.
Ciò è vero per la realtà italiana, un po’ meno per quella piemontese e segnatamente torinese. Infatti l’Università di Torino fin dagli anni Settanta, come accennato, aveva socchiuso la porta all’oralità <366, grazie alle figure di Quazza e Levi, quest’ultimo tra l’altro curatore della collana “Microstrie” dell’Einaudi, dunque in grado, almeno potenzialmente, di veicolare tale novità in ambito editoriale. Anche grazie a loro nell’ateneo subalpino, diversamente da quanto accaduto altrove, progressivamente l’oralità conquistò posizioni accademiche di rispetto. Al fine di coordinare le esperienze dei singoli studiosi e approfondire il dibattito metodologico proprio sotto la Mole tra il 1981 e il 1987 fu edita la rivista “Fonti orali” <367 ove si consacrarono, tra gli altri, Luisa Passerini, Anna Bravo, Maurizio Gribaudi, Daniele Jallà. Insomma, fin dagli anni Ottanta, l’esperienza torinese si consacrò come una delle più organiche realtà italiane attive nell’ambito della storia orale. Ma non precorriamo i tempi.
Il convegno di Bologna (1976)
Il definitivo riconoscimento della bontà delle fonti orali e il loro crescente utilizzo in ambito scientifico che si esplicitò appieno sul finire dei Settanta fu frutto anche di un serrato confronto tra studiosi italiani di ambito diverso che, sulla scorta di quello che avveniva nel resto del mondo, cercarono di superare i tradizionali steccati disciplinari.
Punto di svolta fu il convegno “Antropologia e storia: fonti orali” svoltosi a Bologna nel dicembre 1976, meeting al quale parteciparono coloro che in Italia, nelle più diverse discipline, lavoravano sulle fonti orali: antropologi, storici, etnologi, etnomusicologi, sociologi, docenti universitari. Con loro anche molti ricercatori cosiddetti «scalzi» perché privi di titoli accademici <368. Da un lato, il convegno evidenziava l’esistenza di una vita italiana alla storia orale, originale, dalla forte valenza politica e calata all’interno di un processo di valorizzazione delle tradizioni popolari. Dall’altro, sulle tracce della oral history inglese e statunitense, emergevano alcune innovative esperienze metodologiche e interpretative che presero piede, tra l’altro, anche all’Università di Torino.
«Due filoni di ricerca, diversi nelle finalità ma – notano Giovanni Contini e Alfredo Martini – accomunati dall’esigenza di rinnovare il modo di fare storia, di ampliare orizzonti documentari e metodologici attraverso l’uso delle fonti orali che possono in tal modo entrare nel “salotto buono” della storiografia. Questi due filoni in seguito avrebbero stemperato le diffidenze reciproche focalizzando l’attenzione sulle metodologie e sul valore euristico delle fonti orali che avrebbe portato a un progressivo avvicinamento e a un arricchimento reciproco. Ma non in questo momento. Gli storici tout court, anche i più innovativi, non accettano l’idea di “storia orale”, ritenendo più corretta la nozione di “fonti orali” al servizio della storia» <369.
Autorevole portavoce di questi ultimi fu Luisa Passerini. «Molti trovano da ridire al termine “storia orale” perché sembra alludere a una nuova branca della storiografia – o una specializzazione in più – o avanzare pretese facilone e una storia alternativa e, a suo modo, totalizzante quanto quella tradizionale. “Fonti orali” appare invece una espressione più neutra e può sottintendere altre interpretazioni: che si stia parlando di un tecnica, diffusasi negli ultimi decenni grazie ai mezzi di registrazione, e applicabile a molte discipline diverse» <370.
Indipendentemente dalle più o meno accese discussioni metodologiche che infiammarono i ricercatori che sempre più utilizzarono le fonti orali, dopo il convegno di Bologna, che sancì una svolta epocale, la produzione scientifica avente le stimmate dell’oralità crebbe ulteriormente.
Una letteratura sempre più ampia e profonda
Senza pretesa di esaustività, se volessimo indicare i principali temi scandagliati dalla ricerca italiana che si è avvalsa delle fonti orali a partire dagli anni Sessanta potremmo affermare che essi sono i seguenti <371: – gli emarginati comunque intesi <372; – i militanti politici di base <373 e i militanti sindacali <374; – le donne <375; – il mondo contadino e le piccole comunità <376; – l’emigrazione e l’immigrazione <377; – la storia e la cultura operaie <378; – la Resistenza <379; – la deportazione nei lager nazisti <380. Ovviamente la accresciuta produzione scientifica fu possibile solo grazie al concomitante raffinarsi della «cassetta degli attrezzi» di gramsciana memoria. Negli anni Ottanta, infatti, il dibattito teorico e metodologico interno agli oralisti italiani si allarga e si approfondisce contribuendo a mettere a fuoco la complessità genetica delle fonti, il rapporto tra intervistato e intervistatore, la ricchezza formale del documento orale, la necessità di dotarsi di strumenti interdisciplinari, la delicatezza dei documenti raccolti sul piano della riservatezza e dell’etica del ricercatore. È grazie a questa nuova consapevolezza scientifica che la ricerca con le fonti orali esce in questi anni da una fino ad allora innegabile subalternità disciplinare per porsi come strumento
privilegiato di interpretazione del rapporto tra storia e memoria, tra storia e identità individuale e sociale.
Alla luce di quanto detto finora non stupisce dunque che, dalla seconda metà degli anni Ottanta in poi, gli studi e le ricerche che fanno ricorso alle fonti orali siano aumentati progressivamente, così come è andato elevandosi il livello qualitativo e ampliandosi la varietà tematica.
Al termine di questa disamina, possiamo allora dire che l’oralità da fonte ancillare delle scienze umane comunque intese si è progressivamente consolidata come protagonista della ricerca, passando «dalla cantina all’attico», per usare la fortunata espressione con la quale Le Roy Ladurie alludeva al successo della scuola annalista francese <381. Senza dilungarci in elenchi di studiosi e opere che poco aggiungerebbero alla nostra ricerca, è tuttavia forse utile fare un raffronto tra due saggi che, apparsi a vent’anni di distanza, se comparati esemplificano immediatamente quanta e quale strada ha percorso l’oralistica italiana. Il primo termine di paragone è dato dalla pionieristica, importante rassegna sul dibattito e l’uso in Italia di fonti orali curata nel 1980 da Alfonso Botti e Giuseppe Nigro <382, il secondo consiste nell’ottimo lavoro di sintesi redatto nel 1999 da Cesare Bermani <383. Per evidenziare quanta strada è stata fatta dalle fonti orali è sufficiente comparare le poche decine di pagine di Botti e Nigro, che pure sunteggiavano bene lo stato dell’arte all’inizio degli anni Ottanta, con le centinaia di pagine (ben due volumi!) necessarie a Bermani per rendere conto di quanto avvenuto nei due decenni successivi.
[NOTE]
361 Un bilancio del notevole lavoro compiuto nelle scuole in La storia: fonti orali nella scuola. Atti del convegno “L’insegnamento dell’antifascismo e della Resistenza: didattica e fonti orali,Venezia”,12-15 febbraio 1981, Marsilio, Venezia 1982.
362 Cesare Bermani (a cura di), Introduzione alla storia orale. Storia, conservazione delle fonti e problemi di metodo, op. cit., p. 57.
363 Ivi, p. 59.
364 Cesare Bermani (a cura di), Introduzione alla storia orale. Storia, conservazione delle fonti e problemi di metodo, op. cit., p. 54.
365 Ivi, p. 58. Sul ruolo svolto dagli Istituti storici della Resistenza si veda Franco Castelli, Gli archivi sonori degli Istituti storici della Resistenza. Primi risultati di una inchiesta, in “Rassegna degli Archivi di Stato”, XLVIII, n. 1-2, gennaio-agosto 1988, pp. 87-129.
366 Qualche informazione in Cosimo Lupo, Antropologi sotto la Mole. Una storia delle discipline etnoantropologiche a Torino (1969-1999), tesi di laurea in Lettere e Filosofia, Università degli Studi di Torino, a.a. 2009-2010.
367 Diretta prima da Luisa Passerini, poi da Daniele Jallà, nel comitato scientifico e tra i collaboratori figurano tutti o quasi i ricercatori piemontesi impegnati nell’uso delle fonti orali: Marcella Filippa, Leo Gambino, Bruna Peyrot, Paola Sobrero, Anna Bravo, Anna Maria Bruzzone, Gabriella Gribaudi, Graziella Bonansea, Sandra Cavallo, Bianca Guidetti Serra, Emilio Jona, Liliana Lanzardo, Giorgina Levi, Peppino Ortoleva, Lucetta Scaraffia, Edoardo Zanone Poma. Edito a Torino dall’Istituto Gramsci e diretto da Luisa Passerini, Fonti orali, soprattutto tra 1981-1985, costituisce un importante riferimento per coloro che lavorano con e sulle fonti orali sia per diffondere le proprie ricerche sia per conoscere metodologie e punti di vista.
368 Giovanni Contini, Alfredo Martini, Verba manent. L’uso delle fonti orali per la storia contemporanea, op. cit., p. 197. Gli atti del convegno confluirono in Bernardo Bernardi, Carlo Poni, Alessandro Triulzi (a cura di), Fonti orali. Oral sources. Sources orales, Franco Angeli, Milano 1978.
369 Giovanni Contini, Alfredo Martini, Verba manent. L’uso delle fonti orali per la storia contemporanea, op. cit., p. 197.
370 Luisa Passerini, Storia e soggettività. Le fonti orali, la memoria, op. cit., p. 117.
371 Scrive Luisa Passerini, con giudizio complessivamente critico su quanto fatto dagli oralisti italiani fino ai primi anni Ottanta: «Finora in Italia il discorso storico sulle fonti orali ha insistito soprattutto su alcuni temi: – la necessità di una storia dei non vincenti, dei non dominanti, una storia altra […] nel senso dell’allargamento dell’universo storiografico (questa, in sintesi troppo breve, si potrebbe definire la prima ondata di storia orale, quella degli anni Cinquanta e Sessanta); – la necessità di forme di storia sociale e di microstoria, contro il predominio di temi istituzionali, politici in senso ristretto, e di analisi delle macrostrutture. Necessità quindi, per la natura stessa degli oggetti presi in considerazione, di rapporti con le altre “scienze umane” […]; – concezione non positivistica della storia […]. Se si considerano con attenzione le fonti orali diventa chiaro che esse accentuano il carattere della ricerca storica come invenzione […]. Si tratta di “vedere” tratti trascurati ma “vedere” non indica certo una registrazione passiva, bensì un tratto di produzione del pensiero». Luisa Passerini, Storia e soggettività. Le fonti orali, la memoria, op. cit., pp. 122-123.
372 A titolo di esempio, Danilo Montaldi, Autobiografie della leggera. Vagabondi, ex carcerati, ladri, prostitute raccontano la loro vita, op. cit.; Franco Ferrarotti, Vite di baraccati, Liguori, Napoli 1974; Anna Maria Bruzzone, Ci chiamavano matti. Voci da un ospedale psichiatrico, Einaudi, Torino 1979.
373 A titolo di esempio, Danilo Montaldi, Militanti politici di base, Einaudi, Torino 1971; Enzo Rava (a cura di), I compagni. La storia del Partito Comunista nelle “storie” dei suoi militanti, Editori Riuniti, Roma 1971; Arnaldo Nesti, Anonimi compagni. Le classi subalterne sotto il fascismo, Coines, Roma 1976; Bianca Guidetti Serra, Compagne, Testimonianze di partecipazione politica femminile, 2 volumi, Einaudi, Torino 1977; Giorgio Colorni, Storie comuniste. Passato e presente di una sezione del PCI a Milano, Feltrinelli, Milano 1979.
374 A titolo di esempio, Sesa Tatò (a cura di), A voi cari compagni. La militanza sindacale ieri e oggi: la parola ai protagonisti, De Donato, Bari 1981; Maurizio Carbognin, Luigi Paganelli (a cura di), Il sindacato come esperienza, tomo I, La Cisl nella memoria dei suoi militanti; tomo II, Ventidue militanti si raccontano, Edizioni Lavoro, Roma 1981.
375 A titolo di esempio, Anna Maria Bruzzone, Rachele Farina, La Resistenza taciuta. Dodici vite di partigiane piemontesi, La Pietra, Milano 1976; Lidia Beccaria Rolfi, Anna Maria Bruzzone, Le donne di Ravensbrück, Einaudi, Torino 1978; Erica Scroppo, Donna, privato e politica. Storie personali di 21 donne del PCI, Mazzotta, Milano 1979; Laura Mariani, Quelle dell’idea. Storie di detenute politiche 1927-1948, De Donato, Bari 1982; Nadia Filippini Cappelletto, Noi, quelle dei campi. Identità e rappresentazione di sé nelle autobiografie di contadine veronesi del primo novecento, Gruppo Editoriale Forma, Torino 1983; Nuto Revelli, L’anello forte. La donna: storie di vita contadina, Einaudi, Torino 1985; Liliana Lanzardo, Il mestiere prezioso. Le ostetriche raccontano, Gruppo Editoriale Forma, Torino 1985; Paola Nava, La fabbrica dell’emancipazione. Operaie della Manifattura Tabacchi di Modena: storie di vita e di lavoro, Utopia, Roma 1986.
376 A titolo di esempio, Nuto Revelli, Il mondo dei vinti, Einaudi, Torino 1977; Gianni Bosio, Il trattore ad Acquanegra. Piccola e grande storia in una comunità contadina, a cura di Cesare Bermani, De Donato, Bari 1981.
377 A titolo di esempio, Franco Alasia, Danilo Montaldi, Milano, Corea. Inchiesta sugli immigrati, Feltrinelli, Milano 1975; Cedos (Centro Documentazione Operatori Scolastici di Milano), Storie personali su emigrazione e sottosviluppo
con un modello di ricerca, Mazzotta, Milano 1977.
378 A titolo di esempio, Liliana Lanzardo, Classe operaia e partito comunista alla Fiat, 1945-48, Einaudi, Torino 1971; Pietro Crespi, Esperienze operaie, Jaca Book, Milano 1974; Id., Capitale operaia. Storie di vita raccolte tra le
fabbriche di Sesto San Giovanni, Jaca Book, Milano 1979; Luisa Passerini, Torino operaia e fascismo. Una storia orale, Laterza, Bari 1984; Alessandro Portelli, Biografia di una città. Storia e racconto: Terni 1830-1985, Einaudi, Torino 1985; Giovanni Contini, Memoria e storia. Le officine Galileo nel racconto degli operai, dei tecnici, dei manager 1944-1959, Angeli, Milano 1985; Luigi Ganapini (a cura di), “… Che tempi, però erano bei tempi…”. La Commissione interna della Magneti Marelli nella memoria dei suoi protagonisti, Angeli, Milano 1986.
379 A titolo di esempio, Cesare Bermani, Pagine di guerriglia. L’esperienza dei garibaldini della Valsesia, Sapere, Milano 1971; Daniele Borioli, Roberto Botta, I giorni della montagna. Otto saggi sui partigiani della Pinan-Cichero, Edizioni dell’Orso, Alessandria 1990.
380 A titolo di esempio, Anna Bravo, Daniele Jalla, La vita offesa. Storia e memoria dei Lager nazisti nei racconti di duecento sopravvissuti, Angeli, Milano 1987.
381 Peter Burke, Una rivoluzione storiografica, op. cit., p. 72.
382 Alfonso Botti, Giuseppe Nigro, Fonti orali, storie di vita, storia orale: passato e presente nella ricerca e nel dibattito storiografico in Italia, op. cit.
383 Cesare Bermani (a cura di), Introduzione alla storia orale. Storia, conservazione delle fonti e problemi di metodo, op. cit.
Fabio Bailo, Granai della Memoria, ricerca sui saperi tradizionali orali e gestuali, Tesi di dottorato, Università degli Studi del Piemonte Orientale “Amedeo Avogadro” – Vercelli, 2014

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In questa maniera il fenomeno criminale prende ben presto il posto del terrorismo

La magistratura acquista grande prestigio, viceversa, con l’impulso significativo al contrasto alla criminalità mafiosa che caratterizza la seconda metà degli anni Ottanta. Dopo gli assassini “eccellenti” tra la fine degli anni Settanta e l’inizio del decennio successivo (il questore Boris Giuliano ed il giudice ed ex deputato indipendente di sinistra Cesare Terranova nel 79; Piersanti Mattarella, il capitano dei carabinieri Emanuele Basile ed il magistrato Gaetano Costa nel 1980; Pio Latorre e il gen. Alberto dalla Chiesa nel 1982), l’opinione pubblica e parte della classe politica si sensibilizzano sempre più; anche perché il dilagare della criminalità mafiosa si manifesta in maniera particolarmente violenta in virtù dello scontro interno tra corleonesi ed i vecchi boss della mafia tradizionale. In questa maniera il fenomeno criminale prende ben presto il posto del terrorismo, che appare sempre meno minaccioso, come emergenza nazionale del momento. Il Parlamento approva la legge Rognoni-Latorre nel settembre 1982, che introduce un nuovo reato concepito appositamente per la criminalità di tipo mafioso (attraverso l’aggiunta, nel codice penale, dell’art. 416 bis) e diverse misure circa i sequestri di beni accumulati dai criminali. In seguito la repressione della criminalità organizzata fa notevoli passi avanti, grazie all’azione di Rocco Chinnici, che costituisce il primo pool antimafia, anch’egli assassinato nel 1983, di colui che ne segue le orme, Antonino Caponetto, oltre a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, che istruiscono il cosiddetto maxiprocesso, cominciato nel 1986, che permetterà di includere in una visione d’assieme i maggiori delitti e l’attività della mafia negli anni precedenti e che porterà alle prime condanne nel 1987 con oltre trecento colpevoli individuati. Nello sviluppo dell’inchiesta ha un’importanza fondamentale la collaborazione dei primi “pentiti” di rango: Tommaso Buscetta, catturato nel 1982 e Totuccio Contorno, che comincia a fare rivelazioni nel 1984.
Ma le inchieste sulla mafia, oltre a incontrare scarso favore in alcuni settori della politica, trova anche notevoli ostacoli all’interno della stessa magistratura, come testimonia, presso gli uffici giudiziari di Palermo, l’episodio del “corvo”, cioè di un magistrato, poi identificato in Alberto di Pisa <24 che divulga documenti anonimi che attaccano e diffamano il collega Falcone. Molto più insidiosa per il contrasto alla criminalità mafiosa, sembra essere l’operato del giudice di Cassazione Corrado Carnevale, le cui sentenze, nel corso degli anni Ottanta, concludono con assoluzioni non sempre cristalline diversi iter processuali ai boss mafiosi; l’attività giurisdizionale di Carnevale attira anche l’attenzione dei politici ed in particolare del Pci che rivolge diverse interrogazioni parlamentari con il fine di indurre il Csm a compiere esami accurati circa l’attività giurisdizionale dell’alto magistrato. Da parte sua l’organo
di autogoverno, dopo aver sottoposto Carnevale a diverse inchieste <25, finisce per esaminare l’opportunità di stabilire criteri per la ripartizione dei casi anche in Cassazione, al fine di evitare che tutti i processi di mafia finissero allo stesso magistrato (criteri poi attuati, ma solo a partire dal 1994).
Il 1992 è l’anno in cui comincia la fine di quella che viene oggi denominata la prima Repubblica; vi sono infatti almeno tre nodi che si sciolgono proprio nel corso di quell’anno, rendendo evidente il precedente lento accumularsi di problemi irrisolti. Due di questi nodi riguardano da vicino la magistratura, mentre il terzo, costituito dalla gravissima crisi economico-finanziaria dell’autunno, manifesta i limiti di uno stile di governo (o assenza di esso <26) che in un decennio ha quasi raddoppiato il debito pubblico mettendo a grave rischio la capacità dello Stato di continuare a finanziarsi e compromettendo la stabilità della valuta nazionale ed il benessere delle future generazioni. Si tratta di uno stile di amministrazione che consiste essenzialmente nel cercare il consenso attraverso microprovvedimenti che soddisfano le esigenze di gruppi specifici nel panorama economico nazionale ma, necessariamente, senza un disegno di lungo periodo. Una delle poche significative eccezioni che caratterizzano l’esperienza governativa di Bettino Craxi, presidente del consiglio tra il 1983 ed il 1987, è quella del decreto detto “di San Valentino”, che attenua il meccanismo dell’adeguamento dei salari al tasso d’inflazione e quindi contribuisce a ridurre il problema del differenziale di aumento dei prezzi in Italia rispetto agli altri paesi. Esso però, se ha notevole significato simbolico e politico, anche in virtù della successiva sconfitta della politica del Pci che, contro la posizione del governo, promuove un referendum abrogativo, ha una portata economica decisamente limitata. Mentre sortiscono effetti, ma non solo in ambito economico, i numerosi provvedimenti di condoni, sia fiscali che edilizi, che, uniti all’assenza di seri tentativi di contrastare l’evasione fiscale, contribuiscono a erodere la certezza del diritto ed il principio di comunità.
D’altra parte si tratta di un periodo caratterizzato da una crescita economica che, se non è quella del boom economico a cavallo degli anni Cinquanta e Sessanta, è pur sempre superiore a quella di molti altri paesi europei. Ad essa, in qualche misura, contribuisce probabilmente la diffusione di una cultura e di valori nuovi e diversi rispetto al decennio precedente, caratterizzati da un riscoperta ed un’affermazione della sfera individuale rispetto a quella sociale, e quindi, ad esempio, dall’aspirazione all’arricchimento personale e al consumo; si tratta di valori maggiormente favorevoli all’affermazione della piccola imprenditoria che si afferma proprio in questo decennio <27.
All’inizio degli anni Novanta però questa crescita apparirà effimera, indotta in buona misura dall’ingente indebitamento dello Stato che farà apparire gli anni Ottanta come il decennio delle “cicale”. La mancanza di parsimonia si riferisce però solo alla ricchezza pubblica perché, per quanto riguarda quella privata, gli italiani si confermano notevoli risparmiatori e grandi “formiche”. Non si può dire che tale situazione si dovesse unicamente alle forze politiche, le quali, in qualche misura, non possono che essere espressione della società che le esprime. Del resto lo si era visto già in occasione delle elezioni del 1983, quando una Democrazia cristiana, fortemente rinnovata, almeno nella maniera di proporsi ai suoi elettori e con un De Mita protagonista di una campagna elettorale non più basata sullo spauracchio dei comunisti ma sull’esigenza di un nuovo tipo di amministrazione pubblica, caratterizzata da maggior efficienza e maggior rigore otteneva uno dei risultati più deludenti della sua storia e la gran maggioranza dei dirigenti locali attribuiva la sconfitta, primariamente, a questo rigore, che era pur giusto, riconoscevano, ma che l’elettorato democristiano, o almeno buona parte di esso, non capiva o, forse, non accettava <28.
Se quello economico è forse il nodo più importante che giunge a scioglimento nel 1992 e si manifesta in particolare in autunno, già da diversi mesi si era palesato, in tutta la sua gravità, l’estendersi del fenomeno della corruzione legata ai partiti politici, fenomeno che costituisce il secondo dei tre nodi che si sciolgono in quel fatidico anno. Nel mese di maggio il socialista Mario Chiesa, già tratto in arresto a febbraio su ordine della procura di Milano per corruzione, sentendosi evidentemente abbandonato dai dirigenti del suo partito (lo stesso segretario, forse a causa delle imminenti elezioni, lo aveva definito «un mariuolo» <29) decide di collaborare con la magistratura ed contribuisce con le sue rivelazioni all’emergere di quella che viene poi chiamata “Tangentopoli”. Le vicende che seguono attribuiscono alle inchieste penali della magistratura una tale portata politica da non avere uguali, probabilmente, in nessun altro paese; se vi sono più precedenti di capi di stato e capi di governo costretti a lasciare gli incarichi a causa delle notizie divulgate in seguito all’iniziativa di magistrati, questa è forse la prima volta che i processi sembrano mettere fine ad un’intera classe politica. Perché, per usare un’efficace immagine di Paolo Mieli, «il tappo è saltato» <30 solo nel 1992 e non prima? A questo proposito una prima spiegazione generalmente proposta è costituita dal fenomeno di portata storica, verificatosi poco prima, relativo al crollo dei regimi del “socialismo reale”, che rende meno “minaccioso”, per una parte dell’elettorato, il ruolo del Partito comunista italiano (che nel frattempo si è ribattezzato Partito democratico della sinistra), e quindi rende assai più probabile che si verifichi l’alternanza al governo; circostanza che, a sua volta, rende accettabile l’attribuzione, con tutte le conseguenze del caso, delle responsabilità politiche dei partiti di governo. Una certa disaffezione tra opinione pubblica e partiti, sempre latente dalla fine degli anni Settanta, se non prima, era sembrata intensificarsi negli ultimi anni, ad esempio in occasione del referendum sulla preferenza unica, tenutosi nel 1991 ed in occasione del quale Craxi aveva invitato i cittadini ad «andare al mare»; essi, al contrario, non avevano fatto mancare il necessario quorum, evidenziando una perdita di contatto tra Craxi e gli umori del momento; nel frattempo avanzavano le leghe, a cui una porzione sempre più significativa di elettori del Nord dava la preferenza nelle urne. Qualcuno, anche sul piano storiografico ha sottolineato la «latitanza» della magistratura prima del 1992 <31; eppure il giudizio non sembra confermato dai fatti: nel corso del decennio, ai non pochi scandali con risonanza nazionale si possono aggiungere innumerevoli inchieste che hanno per oggetto amministratori locali. Si tratta di una circostanza certamente nota alla direzione del partito socialista, come testimonia un documento di 114 pagine che contiene una lista, impressionante per la sua lunghezza, di inchieste penali a carico di amministratori (in gran maggioranza democristiani e socialisti) conclusasi con sentenze emesse tra il 1983 e il 1986 <32 (anno in cui viene preparato il documento) o con sentenza ancora pendente; la maggior parte delle accuse sono quelle tipiche di Tangentopoli: concussione, corruzione, truffa, abuso d’ufficio, finanziamento illecito.
[NOTE]
24 Le vicende vengono narrate da uno dei protagonisti in C. Bonini, F. Misiani, La toga rossa. Cit. Pag. 107s.
25 Anche legate alle sue attività extragiudiziarie. Vedere R. Canosa, Storia della magistratura in Italia. Cit. Pag. 213
26 S. Lanaro, Storia dell’Italia repubblicana. Cit. Pag. 452
27 Punti di vista sui valori diffusi negli anni Ottanta, per certi versi opposti, sono quelli di G. Crainz, Il Paese reale. Cit. e di M. Gervasoni, Storia d’Italia degli anni Ottanta. Cit
28 Vedere A. Levi, La Dc nell’Italia che cambia, Laterza, Bari, 1984
29 S. Colarizi, M. Gervasoni, La cruna dell’ago. Cit. Pag. 259
30 L’espressione viene usata da Mieli nel corso della trasmissione Anno zero del 19 maggio 2011, riferendosi a tutt’altra situazione; eppure essa appare particolarmente appropriata per gli avvenimenti che generano le inchieste legate a Tangentopoli
31 P. Craveri, La Repubblica dal 1958 al 1992. Cit. Pag. 542
32 Vedere Fondazione Bettino Craxi, Fondo Bettino Craxi, Sezione I, Attività di partito; Serie 2, vita interna del Psi; sottoserie 4, elaborazione della linea politica; sottosottoserie 4, materiale informativo; UA 7, Situazione processuale di amministratori locali.
Edoardo M. Fracanzani, Le origini del conflitto. I partiti politici, la magistratura e il principio di legalità nella prima Repubblica (1974-1983), Tesi di dottorato, Sapienza – Università di Roma, 2013

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Fin dal principio il programma d’azione dei Gruppi di difesa della donna viene promosso dal Partito Comunista Italiano

Leggendo gli articoli di Noi Donne, si nota che si riferiscono alle donne di una regione specifica: donne piemontesi, donne milanesi, donne di Forlì, di Modena, di Firenze, ecc. All’inizio, potrebbe sembrare che le distinzioni regionali tra i gruppi tolgano l’efficacia del loro messaggio, ossia di una forza comune fatta di donne in ogni dove, di ogni ceto sociale, età e posizione. Però, la studiosa Jomarie Alano sottolinea che gli articoli che facevano appello alle donne di una zona distinta e che affrontavano i loro bisogni specifici diedero in realtà un “punto di riferimento” che orientava la lotta contro il nazifascismo. Alano accentua che le donne indicate non avrebbero potuto probabilmente identificarsi con tutte le italiane, però sostiene che gli avvisi, che evidenziavano i successi e gli eventi dolorosi nelle diverse regioni italiane, rafforzavano l’idea che tante donne e le loro famiglie erano infatti colpite duramente dalla guerra. <219 Fondamentalmente, nonostante la loro specificità regionale, il senso dell’italianità venne rinforzata nei testi che misero insieme tutte le notizie da ogni parte del paese, dove il popolo affrontava gli stessi avversari.
Notevole è anche il linguaggio utilizzato da Noi Donne per descrivere quei nemici, i tedeschi e i fascisti, che sono quasi esclusivamente menzionati insieme nei testi. Però, diversamente dai “tedeschi,” il termine “fascista” è spesso accompagnato da un aggettivo critico: “i fascisti odiati,” “gli sgherri fascisti,” “i furfanti fascisti,” “i servi di Hitler,” tutti vengono ripetuti negli articoli. <220 Sembra che le autrici disprezzassero i fascisti più dell’invasore tedesco, un possibile risultato del disdegno verso la Repubblica Sociale italiana e la sua stretta alleanza con la Germania nazista. La Rsi è considerata il frutto di un tradimento e la causa della drammatica guerra, un conflitto che -come ha sottolineato Claudio Pavone – ha anche il carattere di una guerra civile. <221
Tanti antifascisti vedevano la deposizione di Mussolini il 25 luglio 1943 come un passo falso perché il dittatore evitò un castigo più severo. Per dirla in breve, Giuseppe Lopresti, un socialista, in una riunione a Roma circondato dai responsabili del settore militare Appio-Tuscolano-Prenestino sostenne che “i fascisti sono ritornati perché il 25 luglio sangue fascista non è stato sparso.” <222 Perciò, in un’edizione emiliana-romagnola di Noi Donne pubblicava l’affermazione che le italiane dovevano essere pronte “alla chiamata a portare il nostro contribuito per la cacciata dei tedeschi e l’annientamento dei traditori fascisti.” <223 Per garantire che non riusciranno a ritornare di nuovo, i fascisti, che tradivano il loro paese, dovevano essere debellati e non catturati. È molto interessante, però, che nelle edizioni di Noi Donne trovate nell’Archivio Storico non vengano descritti come italiani i fascisti, chiamati “i traditori.” Un traditore è una persona che ha infranto una fedeltà, che una volta faceva parte del gruppo ma che, data la natura emotiva della slealtà, ha ancora un legame con i traditi. Non solo i soldati, ma anche i prefetti, i sindaci e alti ufficiali erano traditori che collaboravano con il nemico; erano i cittadini infidi che condannavano a morte il loro proprio popolo, <224 che contribuivano alla carestia e pertanto alla fame del loro paese.225 È possibile che l’identità italiana dei fascisti, quello che rendeva così disonorevole il tradimento dei cittadini, fosse allo stesso tempo quello che le autrici di Noi Donne non concedevano al nemico, in quanto c’era la mancanza del gesto semplice di fare cenno alla loro nazionalità.
Inoltre, la questione di nazionalità e italianità non tratta solo di gruppi ideologici, ma concerne anche come si vede la seconda guerra mondiale in Italia, ossia solleva la questione se la si consideri o meno interna allo stato. Nel 1991, Claudio Pavone ha pubblicato la sua opera famosa e influente, Una guerra civile: Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, per risolvere il dibattito in merito al coinvolgimento in una guerra civile della lotta resistenziale. Nel dopoguerra solo i neofascisti consideravano il periodo tra settembre 1943 e aprile 1945 come una guerra civile, mentre quelli di sinistra, soprattutto i comunisti, lo riconoscevano principalmente come una liberazione nazionale. Consideravano l’esercito tedesco come la minaccia per l’esistenza stessa del Paese e svalutavano il ruolo dei “repubblichini” – coloro che giurarono fedeltà alla Repubblica di Salò dopo l’occupazione nazista.
Con la sua significativa opera Pavone ha messo in discussione lo status quo, Pavone, partigiano e liberale azionista oltreché storico, afferma che durante la Resistenza solo qualche volta gli antifascisti e i partigiani si rifiutarono di riconoscere la lotta come una guerra civile. <226 Curiosamente, la retorica di Noi Donne ricorda quella degli storici di sinistra che, dopo la fine della guerra, hanno sostenuto la tesi della lotta per la liberazione nazionale. Sono ripetute frasi come “lottate per la liberazione della patria,” per “la libertà e l’indipendenza nazionale,” combattete “fino alla fine della guerra di liberazione,” <227 e si trovano articoli incoraggianti che informavano le italiane del loro diritto di prendere “parte attiva alla guerra di liberazione nazionale.” <228 Inoltre, alcune pubblicazioni tolgono completamente i fascisti dalla guerra, chiamandola la guerra “hitleriana” <229 oppure sottolineando solamente il loro controllo estremo della vita italiana. Per esempio, nell’edizione di giugno 1944 è dichiarato apertamente che “ormai” donne dei Gruppi hanno capito che le cause della loro difficoltà “sono la guerra tedesca e l’oppressione fascista.” <230
Per di più, è difficile definire con precisione la mancanza di una discussione sulla guerra civile tra i fascisti e gli antifascisti italiani, poiché, secondo Pavone, la frase “guerra civile” dovrebbe essere trovata in Noi Donne per motivi politici. Ossia, molto evidente è l’influenza comunista sui Gruppi di difesa e su Noi Donne. Fin dal principio il Programma d’azione dei Gdd viene promosso dal Partito Comunista Italiano nelle proprie Direttive per il lavoro tra le masse femminili del 28 novembre 1943, <231 e, dato che tra le sue fondatrici troviamo alcune comuniste e che il partito comunista era uno dei più organizzati, tale pubblicazione congiunta non è inaspettata. In questo modo, il Pci ha iniziato a consolidare il suo posto dentro l’organizzazione, attraverso il quale convinse le maestranze femminili nelle fabbriche dei vantaggi di attività sindacali e ribelli, creando anche i nuovi nuclei ed estendendo il loro territorio e la loro influenza. Infatti, si sarebbe potuto trovare l’autorità forte del Pci sui Gruppi in certe zone come quella di Pistoia, dove la militanza di entrambi coincideva quasi completamente e l’appoggio del partito locale era indispensabile per le azioni dei Gdd. <232 Entro il 12 settembre 1944, fu creata una nuova organizzazione, L’Unione donne italiane, fondata da varie esponenti del partito comunista, socialista, azionista e della sinistra cristiana, a causa del predominio delle comuniste nei Gruppi di difesa della donna, che col tempo aumentava lo scontento politico. <233 L’obiettivo era ancora di unire tutte le italiane e di proteggere i bisogni specifici delle donne, e la sua influenza si trova anche sulle pagine di Noi Donne, soprattutto quelle edizioni non clandestine.
[NOTE]
219 Jomarie Alano, “Armed with a Yellow Mimosa: Women’s Defense and Assistance Groups in Italy, 1943-45,” Journal of Contemporary History 38, no. 4 (2003): 620. http://www.jstor.org/stable/3180712.
220 Per esempio, “Gli assassini dei vostri figli sono i traditori fascisti, i servi di Hitler, che fanno continuare la guerra sul nostro territorio solo a beneficio degli occupanti nazisti! MORTE AI TEDESCHI ED AI FASCISTI TRADITORI” (“A fianco dei combattenti,” Noi Donne.).
221 Claudio Pavone, Una guerra civile: Saggio storico sulla moralità nella Resistenza (Torino: Bollati Boringhieri, 1991).
222 Pavone, Una guerra civile, p. 255.
223 “Prepariamoci alle imminenti e decisive battaglie,” Noi Donne.
224 Si veda “Il nostro governo,” Noi Donne (Emilia Romagna, Italia), maggio 1944. http://www.noidonnearchiviostorico.org/scheda-rivista.php?pubblicazione=000084&pag=2.
225 Alano, “Armed with a Yellow Mimosa,” p. 621.
226 Pavone, Una guerra civile, p. 248.
227 Si veda per esempio “Il nostro governo,” Noi Donne.
228 “Lottare – attuale premessa ai compiti futuri,” Noi Donne (Lombardia, Italia), marzo 1945. http://www.noidonnearchiviostorico.org/scheda-rivista.php?pubblicazione=000075.
229 “Non la resa, ma la lotta per la vittoria,” Noi Donne (Emilia Romagna, Italia), maggio 1944. http://www.noidonnearchiviostorico.org/scheda-rivista.php?pubblicazione=000084&pag=3.
230 “Impiegate ed operaie unite per la lotta di liberazione nazionale,” Noi Donne (luogo sconosciuto), 1 giungo 1944. http://www.noidonnearchiviostorico.org/scheda-rivista.php?pubblicazione=000066&pag=4.
231 Orlandini, La democrazia della donna, p. 12.
232 Orlandini, La democrazia della donna, p. 24.
233 Patrizia Gabrielli, La pace e la mimosa: l’Unione donne italiane e la costruzione politica della memoria, 1944-1955 (Italia: Donzelli, 2005), p. 3.
Jordan Lin Brewer, Salvare la nazione: la coscienza femminile della seconda guerra mondiale, Tesi di dottorato, Georgetown University, 2021

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E i fascicoli venivano mandati periodicamente in copia agli americani

La pratica della schedatura, nata da principio per controllare le sole opposizioni di sinistra, era arrivata a colpire, sotto la spinta di Tambroni, anche i membri della Dc. Infine, sotto il Sifar di De Lorenzo, si allargò esponenzialmente ad una significativa percentuale dell’intera popolazione: l’argomento è di fondamentale importanza, in quanto la scoperta di questi dossier, nel 1967, innescò uno scandalo pubblico dalle dimensioni inedite, a seguito del quale ci fu una reazione a catena che portò dalla destituzione del direttore alla riforma dell’intero servizio, nonché alle dimissioni di De Lorenzo e infine all’istituzione di una commissione parlamentare.
Come abbiamo accennato al par. 1.1, il generale Giovanni De Lorenzo venne nominato capo del Sifar nel 1955. La sua gestione del servizio da subito si distinse per una spiccata spregiudicatezza e autonomia nelle relazioni con l’alleato americano, con il quale aveva iniziato a collaborare durante la guerra.
L’ascesa politica del generale s’impennò in quegli anni anche in virtù del rapporto privilegiato che arrivò a intrattenere con il presidente Gronchi, tanto che il generale fece crescere appositamente una la voce di un inesistente complotto contro il Presidente della Repubblica (atto a rapirlo e trasportarlo in Corsica) per poi presentarsi ai suoi occhi come suo salvatore e aumentare ulteriormente il proprio credito presso il capo dello Stato <54.
Ricordando tale episodio, Andreotti (che all’epoca era ministro della Difesa) [disse]: ” […] per una quindicina di giorni fui in disgrazia o in sospetto presso il presidente Gronchi, perché quando mi raccontò del sottomarino noleggiato mi misi a ridere. […] se esiste una vicenda in cui il generale De Lorenzo, certamente non da solo, mise una certa carica per apparire il salvatore del rapendo presidente, è proprio questa” <55.
Il generale era dunque uno che non si faceva troppi scrupoli a sfruttare ogni occasione per aumentare il proprio potere e la propria capacità d’influenza. In collaborazione con la Cia, fece piazzare una serie di microfoni nelle stanze del Quirinale e nella biblioteca del Pontefice in Vaticano <56.
Fu nel biennio 1959-60 che gli uomini del Sifar iniziarono quella schedatura in massa degli italiani attraverso il famigerato ufficio “D” (il controspionaggio). Un prezioso documento spiega nei dettagli la procedura che veniva seguita: “[…] ogni volta che in una pratica venivano citati nomi di persone, dovevano essere formati dei nuovi fascicoli intestati a questi nominativi; inoltre dovevano essere fatte tante copie di quel rapporto per inserirne una in ogni fascicolo intestato al nominativo citato” <57
E i fascicoli venivano mandati periodicamente in copia agli americani. Va da sé che, seguendo una procedura del genere, i fascicoli si sarebbero moltiplicati a dismisura.
L’ufficio si era posto il dichiarato obiettivo di “conoscere tutto di tutti”. <58 Nel 1974, il presidente della commissione d’inchiesta calcolò 157.000 fascicoli ordinati per nome, più altri 40.000 ordinati per argomento. <59 La fonte era sempre anonima, in modo da rendere impossibile l’individuazione dell’ufficio che aveva diramato le informazioni, nonché verificarne l’attendibilità. Un fatto che prova l’utilizzo arbitrario e ricattatorio dei dossier è che spesso, sul conto di una data persona, veniva prima propalata la notizia di cui si voleva conferma e poi cercata; si può intuire che, se non si fosse trovata conferma della notizia di cui si aveva bisogno, la si creava <60.
De Lorenzo fu promosso generale di corpo d’armata il 2 febbraio 1961 e avrebbe dovuto lasciare la guida del servizio per dirigere la divisione “Mantova” di Udine, in quanto lo statuto prevedeva che, per ottenere la promozione a grado di comandante alla quale De Lorenzo ambiva, il generale avrebbe dovuto prima assumere un comando operativo. Invece, con la complicità dei vertici politici che procrastinarono le nomine per ben 20 mesi, egli lasciò il Sifar soltanto nell’ottobre 1962 <61, quando venne direttamente nominato Comandante dell’Arma dei Carabinieri. Per un salto di carriera così repentino egli, durante gli ultimi 20 mesi al Sifar, si impegnò da una parte per aggirare quella specifica regola di statuto, con l’emanazione di una circolare che equiparava il comando del Sifar a quello di una divisione; dall’altra, attivò i suoi uomini per indagare e creare sospetti (che non crearono mai riscontro) intorno all’allora comandante dell’Arma De Francesco, che venne collocato a riposo con nove mesi di anticipo. De Lorenzo prese il suo posto. Infine, falsificando il curriculum di Viggiani, lo presentò come idoneo alla promozione al grado di generale e riuscì a farlo nominare alla guida del Sifar. All’ufficio “D” fu collocato il generale Giovanni Allavena, altro fedele di De Lorenzo.
Commenta così Giuseppe De Lutiis:
“Questo il Sifar a partire dall’ottobre 1962: l’intero servizio in mano a due uomini che sono in pratica due controfigure di De Lorenzo. […] I sei incarichi più delicati dell’Arma e del Sifar (comandante generale, capo del servizio segreto, capo dell’ufficio “D”, capo del raggruppamento Ccs di Roma, amministratore del Sifar, capo dell’Ufficio bilancio dell’arma) sono interamente in mano a De Lorenzo, o direttamente o attraverso tre soli uomini di sua assoluta fiducia” <62.
Nel frattempo, sul piano politico, naufragato nel sangue l’esperimento del governo Tambroni, la Dc si trovava a fare i conti con l’ineluttabilità di una cauta apertura a sinistra e proponeva, come contropartita, l’elezione del conservatore Segni alla presidenza della Repubblica.
[NOTE]
54 G. De Lutiis, op. cit., p. 57
55 Commissione Difesa della Camera del 5 Luglio 1974, Audizione di Giulio Andreotti. Citato in D. Conti, op. cit.
56 G. De Lutiis, op. cit., pg. 57
57 Relazione della commissione d’inchiesta costituita dal Ministero della Difesa ed affidata al generale Aldo Beolchini, in G. De Lutiis, Storia dei servizi segreti in Italia, Editori riuniti
58 G. De Lutiis, op. cit., pg. 5-60
59 Ibidem
60 Ibidem
61 Ibidem
62 Ibidem
Claudio Molinari, I servizi segreti in Italia verso la strategia della tensione (1948-1969), Tesi di laurea, Università degli Studi di Trieste, Anno Accademico 2020-2021

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I tedeschi minacciarono di incendiare Buttigliera Alta se i partigiani non si fossero consegnati

Buttigliera Alta (TO). Fonte: mapio.net

Con ogni probabilità Mario Greco raggiunge Eugenio Fassino in montagna a inizio 1944. In particolare, nella notte del 23 gennaio, i giovani della leva ‘25 di Buttigliera (residenti e sfollati), ingrossano le file dei partigiani agli ordini di Fassino. <47 Secondo i documenti ufficiali del Ministero dell’assistenza post-bellica invece, Mario Greco si è arruolato fra i partigiani il 10 febbraio. Indipendentemente dalla data effettiva di adesione alla Resistenza, abbiamo la certezza che Greco partecipa, in maniera più o meno diretta, al movimento. Purtroppo all’interno della divisione De Vitis vige il divieto assoluto per i partigiani di scrivere e tenere un proprio diario, cosa che non facilita la ricostruzione della quotidianità dei combattenti. Grazie però ad alcune testimonianze e alle poche lettere giunte sino a noi, siamo in grado di ricostruire alcuni eventi importanti della militanza di Mario Greco fra le file dei partigiani. Non sappiamo ad esempio come vive i giorni del grande rastrellamento di maggio, ma abbiamo una conferma indiretta della sua presenza e della sua permanenza in vita da una lettera inviate alla madre di Greco da Rina Giacobina, insegnante in quel periodo all’Indiritto. “Il suo carattere così sincero attirava la simpatia di tutti; nessuno diceva male di lui, nemmeno schivava la sua compagnia e vi dico sinceramente, signora, che in quel periodo che io ero lassù (fino al 10 maggio 1944) avevo notato che tutti gli volevano bene”. <48
Fino all’inizio di maggio l’esperienza di Mario Greco appare analoga a quella della maggior parte dei partigiani valligiani, poi qualcosa cambia. Rifugiatosi con altri compagni a Buttigliera Alta, presso amici e familiari per sfuggire ai rastrellamenti dei nazifascisti, egli si trova di fronte ad un bivio. I tedeschi infatti, seguono, le tracce sue e dei suoi compagni (oppure sono aiutati da una delazione, ma è impossibile saperlo con certezza) e, circondato l’intero paese, minacciano di incendiarlo se i partigiani non si consegnano a loro per poi arruolarsi nell’esercito della Repubblica di Salò. <49
Che i tedeschi mirino a indebolire il partigianato locale costringendo i giovani ad arruolarsi lo racconta anche Zanolli nel suo diario, in particolare nella pagina dedicata al 16 maggio 1944. “Ieri alle ore 16 ho fatto una scappata dal Dottor Giaglione ad Avigliana a farmi consegnare dei permessi bilingue per salvare alcuni giovani. Ai primi di questi metto il nome sul permesso e glielo consegno, ma agli altri dico chiaro “che se non hanno documenti certi non si presentino. Ma quelli che hanno veri permessi del comando tedesco e sicuri é meglio si presentino perché la seduta non vada completamente deserta in modo da attirare rappresaglie sulla popolazione. Alle ore 8 il Tenente Rolf della Todt passa il controllo nel cortile del teatro Alfieri e quelli che sono provvisti di validi documenti vengono messi da una parte e gli altri dall’altra tenuti a bada da due metropolitani”. <50
Nonostante l’odio nutrito verso gli occupanti, le minacce sono pesanti e i tedeschi hanno già dimostrato in passato di esitare a distruggere intere borgate con il napalm. Mario e altri partigiani decidono allora di consegnarsi, per evitare guai peggiori alla popolazione. A questo punto non vi sono documenti ufficiali sulla sorte di Mario Greco e degli altri partigiani di Buttigliera Alta. Dal suo foglio matricolare, conservato presso l’Archivio di stato di Torino, risulta non essere mai stato arruolato <51. Eppure dalle lettere e cartoline che lo stesso scrive ai familiari risulta tutta un’altra storia.
Il 30 maggio egli scrive dal distretto militare: “Cara mamma, ti scrivo dal distretto di Torino. Sono stato assegnato ad Aosta negli Alpini. Sto bene nell’attesa di rivederti presto ti abbraccio e bacio. Tuo aff.mo Mario”. <52
Considerando anche il destino subito da molti altri italiani, Mario e i suoi compagni valligiani sembrano indirizzati all’internamento in Germania piuttosto che l’arruolamento nell’esercito di Salò. Un piano però rovinato dai bombardamenti alleati. Secondo la testimonianza di Silvio Filia, partigiano e amico di Mario Greco, che con lui aveva combattuto tra le fila della banda di Fassino e si era consegnato ai tedeschi, la sera del trasferimento da Aosta verso la Germania, la RAF bombardò diverse città del nord est, così da rendere impraticabile la ferrovia per il Brennero. La ricostruzione di Filia trova conferma da una cartolina di Mario, datata 31 maggio, che riporta come mittente “M. Alpino Greco Mario 4° regg. comp. comando regg. posta da campo 939”. Con certezza, seppur a malincuore, Mario rimane arruolato almeno fino a metà giugno, come dimostra una lettera che riporta come mittente “Greco Mario, Feldpost 86074”.
“Cara mamma, finalmente ci hanno spediti siamo arrivati ieri sera qui ad Alessandria ci hanno vestiti tutto di nuovo. So che sei andata a trovare nonno spero che tu l’abbia trovato bene, e nell’insieme tu non abbia trovato tanto duro il viaggio fammi sapere le notizie del nonno più preso che puoi. Fa il favore di avvisare papà del mio trasferimento e fagli sapere il mio indirizzo che ancora non ho mai ricevuto da lui. Salutami tutti e dimmi come fa Nini. Saluta tanto Mode Gepan e Cichina. Ti saluto e abbraccio tanto bacioni Mario P.S. ti unisco l’indirizzo Greco Mario Feld Post 8607453”
Ma i partigiani resistono poco tra le file dell’esercito repubblichino. “Scappammo un po’ alla volta, in piccoli gruppi. Io e altri due compagni raggiungemmo la stazione dopo una lunga camminata e prendemmo il treno per Torino Porta Nuova. Qui fummo fermati prima da due tedeschi, ai quali demmo il foglio di viaggio usato da Torino ad Aosta (non conoscendo l’italiano ci lasciarono andare), e in seguito, sul lato di via Sacchi, da una pattuglia di repubblichini. Poteva succedere qualsiasi cosa, ma per fortuna videro le divise e ci hanno lasciato andare. Mario non era con me, lui è scappato in un momento successivo, ma sempre alla stessa maniera”. <54
Da quanto è stato possibile ricostruire, Mario Greco fuggì dall’esercito per tornare in montagna tra la seconda metà di giugno e l’inizio di luglio. Quello che sappiamo per certo è che a settembre Mario Greco è a Giaveno e la conferma sta in una foto.
“[…] Era settembre e siamo andati tutti a Giaveno nello studio di un fotografo. Di armi ne avevamo poche quindi tutti compreso Mario ci siamo fatti la foto nella stessa posa e con la stessa arma che ci passavamo l’un con l’altro”. <55
La storia di Mario Greco rappresenta per certi versi l’eccezione che conferma la regola. Seppur costretto a rispondere alla chiamata di leva della Repubblica di Salò, alla prima occasione utile è scappato, tornando fra le file partigiane, con l’intento di resistere al nazifascismo.
[NOTE]
47 G. Oliva, La Resistenza, cit., p. 105.
48 Lettera ricevuta dalla madre (scritta 1/3/45) e conservata dagli eredi di Mario Greco.
49 Testimonianza di Silvio Filia, raccolta dal sottoscritto.
50 Giuseppe Zanolli, Diario, cit., p. 127.
51 Archivio di stato di Torino, Sala L/M, Armadio 22.
52 Cartolina conservata dagli eredi di Mario Greco, che riporta come mittente: “Greco Mario – Distretto di Torino”.
53 Lettera conservata dagli eredi del 14/6/1944.
54 Testimonianza di Silvio Filia, raccolta dal sottoscritto.
55 Testimonianza di Silvio Filia, raccolta dal sottoscritto.
Francesco Rende, Mario Greco e la Resistenza in val Sangone, Tesi di laurea, Università degli Studi di Torino, Anno accademico 2016-2017

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Il PCI a Bologna subito dopo il 1956

Foto: Gian-Maria Lojacono

Nei primi anni Sessanta, come approfondirò meglio nel prossimo capitolo, matura in seno alla giunta social-comunista [di Bologna] la consapevolezza che «un difetto […] nei piani urbanistici degli anni cinquanta risiedeva nel fatto che tale pianificazione separava artificiosamente la componente economica dalla componente urbanistica» <230. La diffusione dei comprensori nel resto del territorio provinciale – e poi la loro sostanziale ripresa da parte di tutte le altre province emiliano-romagnole – si pone in diretta continuità con lo sviluppo dei piani intercomunali costruiti attorno alle aree metropolitane, di cui Bologna è naturalmente un indiscusso punto di riferimento. Tali piani, nel tentativo di allargare le maglie della legge urbanistica sopravvissuta alla cesura repubblicana (“legge Gorla”, 1942), costituiscono il tentativo di individuare un livello di governo intermedio in diretto collegato all’istituzione – che appare ormai imminente – delle regioni a statuto ordinario. Nelle intenzioni della classe dirigente locale, inoltre, il comprensorio è un momento particolare di un più generale processo di decentramento politico verso le periferie e assume pertanto il significato di “spazio ottimale”, ovvero di area omogenea dal punto di vista economico-produttivo, per dare corpo a un concreto intervento di programmazione non più fermo agli obiettivi parziali della pianificazione urbanistica <231. Nel caso di Bologna, e non poteva essere altrimenti, questo spazio ottimale coincide con la «cintura industriale» che era in quegli anni al centro del dibattito pubblico e della riflessione sullo sviluppo economico della città <232.
Si tratta dunque di spazi economicamente connotati, emergenti in quanto spazi industriali fino a poco prima scarsamente interessati da questo tipo di attività, che sollecitano l’attenzione e gli sguardi di molti osservatori. Ragionando in prospettiva, proprio l’anticipo sulle procedure burocratiche per l’istituzione del Pic avrebbero permesso alla Giunta comunale di difendersi da un attacco frontale della Camera di commercio, diretto a sottrarle un ambito strategico di governo dello sviluppo, quello sulle aree industriali.
[…] Prima di procedere oltre, è necessario inquadrare il contesto nel quale questo episodio si colloca, al fine di trarne indicazioni utili a comprendere il tipo di cultura di governo che si è andata formando all’interno del Pci bolognese. In tale contesto, non si può non considerare l’evoluzione che il movimento comunista compie nel corso degli anni Cinquanta, a partire cioè dalla morte di Stalin del 1953 fino all’acme del 1956. Com’è noto, in quell’anno si susseguono il XX congresso del Pcus in febbraio – che segna l’avvio della destalinizzazione -, la diffusione mondiale del rapporto Chruščëv sui crimini staliniani in giugno, quindi la repressione della rivolta operaia in Polonia e poi dei moti popolari in Ungheria fra giugno e novembre. Si tratta, notoriamente, di uno dei momenti più drammatici della storia dei partiti comunisti e, per molti versi, della storia politica del Novecento <233.
Senza ombra di dubbio, esso ha fortissime ricadute anche in Emilia-Romagna, com’è chiaro se si guarda alla posizione di assoluto rilievo che la regione ha nel quadro del partito italiano, a partire dalla banale considerazione numerica <234. Per questo la storiografia sul Pci non ha mai potuto esimersi dal confrontarsi con l’esperienza comunista in questa regione, che tende a rappresentare un significato non solo locale. Il 1956 è, infatti, anche l’anno in cui il Pci rende espliciti con l’VIII congresso i presupposti di un’evoluzione, che sarebbe giunta a maturazione nel corso dei successivi due decenni, ma che di fatto è già implicita nelle scelte compiute almeno dal 1944 in poi. Anche per questo, a posteriori, la memorialistica e la storiografia vicina al partito avrebbero collocato questa maturazione sempre più indietro nel tempo, caricando di significato periodizzante proprio il 1956 <235. Al netto di ciò, è
innegabile che solo in quell’anno diventa palese, anche agli occhi degli avversari, che il Pci, con la formula della «via italiana al socialismo», ha rilanciato il proposito di conciliare la prospettiva di una trasformazione socialista – ed è un socialismo concepito come culmine di una ben precisa sequenza stadiale – con il quadro repubblicano italiano <236.
A ridosso di eventi di tale portata, inoltre, bisogna considerare il particolare stato di salute del partito emiliano-romagnolo. In quegli anni, infatti, si sta compiendo un intenso ricambio, che ha l’effetto di portare una nuova leva di funzionari in posizione dirigente. Una delle federazioni più direttamente legata a questa dinamica è proprio quella bolognese, in cui sono presto riconoscibili originali spinte verso un «rinnovamento» della linea e dell’organizzazione di partito <237. È certamente un ricambio anche generazionale <238 in cui gioca un ruolo importante la costituzione di un gruppo, piuttosto compatto, che si raduna attorno alla figura-simbolo di Guido Fanti, futuro sindaco di Bologna, il quale sul finire degli anni Cinquanta è ancora alle prime tappe di una fulgida carriera di funzionario e dirigente comunista, amministratore locale, deputato, senatore e, infine, europarlamentare <239. Non è un caso che da questo gruppo, all’indomani del congresso del ’56, sarebbe arrivata la proposta di avviare un dibattito interno al fine di discutere i problemi organizzativi e «porre l’accento su un esame critico, il più ampio, coraggioso e costruttivo, dell’attività svolta» <240, come recitano le tesi preparate proprio da Guido Fanti con Gian Carlo Ferri e Giuseppe D’Alema <241. La discussione prende così la forma di una conferenza regionale – sulla scorta di iniziative analoghe in tutta Italia, a segnare anche un più convinto appoggio comunista alla mobilitazione per l’attuazione delle regioni <242 – che si tiene nel giugno 1959 nel salone del Podestà di Bologna. Si apre così un momento di intenso confronto, non tanto fra vecchi e nuovi funzionari di partito, quanto piuttosto fra settori maggiormente legati alla cultura politica della Guerra fredda e un gruppo piuttosto consistente che, forte anche dell’esperienza maturata sotto i gonfaloni dei comuni amministrati e del lavoro organizzativo, interpreta la «via italiana al socialismo» in modo squisitamente realistico, tentando di adattare l’organizzazione e l’azione locale in maniera del tutto coerente con le premesse da cui è scaturita la linea.
Ciò che mi sembra palese in questo dibattito, fin dalle tesi, è la finalità esplicita di far precipitare a livello locale, cioè di diffondere nel corpo del partito, la linea politica elaborata al congresso del ’56. È, quindi, netta la sensazione che, assieme alla destalinizzazione, a provocare talune «sfasature» <243 interne – non riconducibili semplicisticamente all’attaccamento popolare al mito di Stalin – sia la consapevolezza che sono diffuse nel partito sensibilità ideali assai poco pronte ad abbracciare con coerenza le implicazioni profonde della discussione del ’56, che pertanto rappresentano una potenziale grave minaccia alla buona riuscita dell’azione politica locale. L’esigenza primaria dei «rinnovatori» è dunque quella di «assicurare una costante visione unitaria e organica […] e il necessario coordinamento delle iniziative e degli impegni locali» <244 quindi di coinvolgere gli iscritti di tutta la regione attorno a «una vigorosa azione di orientamento politico» <245. Ne nasce l’indicazione di un lavoro che procede in direzione duplice: da un lato, di approfondimento della conoscenza della realtà economica e, dall’altro, di conoscenza di quanto si muove nel paese – sostanzialmente, se non esclusivamente, dal punto di vista politico – per poterne correttamente interpretare le ricadute a livello regionale.
[NOTE]
230 Entrambe le citazioni in Piano poliennale, 1963: 246.
231 Sulla centralità di questi aspetti nell’elaborazione politica dei primi anni Sessanta cfr. G. Campos Venuti, 1961: 42-46.
232 La cintura tratteggiata giornalisticamente nella Schermografia, infatti, comprendeva già il cuore dei comuni del futuro Pic, nel quale verranno inseriti Anzola-Crespellano a ovest e Minerbio-Budrio a est. L’area comprensoriale del Pic nel 1969-70 risulterà ulteriormente allargata fino a comprendere Castel San Pietro Terme (che “prolunga” lo sviluppo della via Emilia dopo Ozzano dell’Emilia) e Bazzano (sulla seconda direttrice appenninica di sviluppo industriale).
233 Cfr. E.J. Hobsbawm, 1997. Sull’importanza globale del momento cfr. M. Flores, 1996. Per una panoramica sul Pci dinanzi a questi fatti, cfr. G. Gozzini, R. Martinelli, 1998: 505-571; A. Agosti, 2003: 429-464; M. Flores, N. Gallerano, 1992: 105-129. Non è un caso che i fatti del 1956 agitino ancora oggi il dibattito pubblico: v. le lettere recentemente declassificate che documentano il dissenso di E.P. Thompson (I. Cobain, 2016).
234 Per il periodo 1959-70 è concentrato in Emilia-Romagna una percentuale di adesioni al partito che crescono progressivamente dal 24,9 al 27% (cfr. S. Giordani, 2014: tabelle); a questo si somma una netta prevalenza negli organi di governo locale per quasi tutte le province, con posizioni più debole soltanto per le province di Piacenza e Parma (cfr. Banca Dati Elettorale, Assemblea legislativa Emilia-Romagna, Archivio storico elezioni, http://consultaelezioni.regione.emilia-romagna.it/elezioni/storico.jsp). Perciò, la rilevanza nazionale del partito nella regione è un dato acquisito in casa comunista – a partire da P. Togliatti, 1946; 1959 (1974) – e riconosciuto dagli osservatori contemporanei, anche quelli meno simpatetici: cfr. G. Galli, 1963; L. Pedrazzi, 1963; G. Degli Esposti, 1966.
235 Si tratta di un metodo ricorrente nella pratica politica comunista, che corrisponde a precise esigenze di «continuità» che nell’azione politica accompagna qualsiasi proposta di «rinnovamento»; a riguardo cfr. M. Flores, N. Gallerano, 1995: 115; ma anche D. Montaldi, 1975, il cui metodo di analisi è attento a far emergere le distorsioni di questo metodo.
236 Cfr. G. Gozzini, R. Martinelli, 1998: 572-638. Una puntuale ricostruzione del problema del «rinnovamento nella continuità» che analizza le «sfasature» interne al partito è in R. Martinelli, 2004: 363-384.
237 «Rinnovamento» sarà, per appena quattro mesi all’inizio del 1960, il nome della rivista attorno alla
quale si raggruppa il circolo di funzionari bolognesi che si fanno portatori di alcune istanze di
cambiamento emerse in quella fase.
238 Il gruppo dei «rinnovatori» – cui ci si riferisce talvolta come «nouvelle vague» del comunismo bolognese o emiliano (G. Degli Esposti, 1966) – non è definibile su parametri esclusivamente generazionali, che pure prevalgono. Fra i bolognesi, il gruppo annovera senz’altro Gian Carlo Ferri (1929), Umbro Lorenzini (1925), Mario Soldati (1924) e Giuseppe Venturoli (1920) a cui si aggiungono Renato Zangheri (Rimini 1925), Giuseppe Campos Venuti (Roma 1926) e Sergio Cavina (Ravenna 1929).
239 Nato a Bologna nel 1925, nel novembre 1943 risponde alla leva della Repubblica di Salò per poi disertare l’anno dopo e prendere servizio con i combattenti partigiani. Si iscrive al Pci nel 1945 e assume incarichi da funzionario, nel 1957 è consigliere comunale per il gruppo “Due torri”, l’anno dopo è vicesegretario della federazione provinciale, nel 1960 diventa prima segretario provinciale, poi entra nel Comitato centrale del Pci. Dal 1966 al 1970 è sindaco di Bologna succedendo a Giuseppe Dozza, primo presidente della Regione Emilia-Romagna nel 1970, più volte deputato e senatore, dal 1979 è membro del Parlamento europeo, di cui diviene vicepresidente negli anni Ottanta. Per un profilo biografico sintetico cfr. P. Furlan, s.d.; più in dettaglio S. Alongi, 2012.
240 Pci ER Tesi, 1959, p. 3.
241 G. Fanti, G.C. Ferri, 2001: 47.
242 Fra il 1959 e il 1961 si hanno conferenze regionali in Abruzzo, Sicilia, Veneto, Toscana, Marche, Lazio, Basilicata, Friuli-Venezia Giulia, cfr. Fger, APCI Bo, Ce, b. 1, f. 5, Per l’iniziativa economica regionale del partito, novembre 1959. Sulla lenta maturazione di una sensibilità regionalista nel Pci cfr. P. Bonora, 1984.
243 Faccio ancora riferimento alla terminologia di R. Martinelli, 2004: 363-384.
244 Pci ER Tesi, 1959, p. 5.
245 Ivi, p. 6.
Alfredo Mignini, Piccole imprese grande Bologna? Spazi della produzione e culture del lavoro autonomo nel bolognese fra anni Sessanta e Settanta, Tesi di dottorato, Alma Mater Studiorum – Università di Bologna, 2017

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Giglio ritornò nella Capitale con una radiotrasmittente

Tra i suoi [di Peter Tompkins] aiutanti più fidati vi sono Maurizio Giglio (“Cervo”) – giovane ufficiale di polizia della RSI che, in realtà, lavora per l’OSS, ovvero colui che, dopo aver partecipato agli scontri di Porta San Paolo contro i tedeschi, si era recato al Sud per mettersi a disposizione degli Alleati ed aveva portato a Roma, da Napoli, la radiotrasmittente clandestina dell’OSS (chiamata in codice “Vittoria”) e che si occupa di spostarla periodicamente per evitare che venga trovata dai nazifascisti – e Franco Malfatti, stretto collaboratore del socialista Giuliano Vassalli […] Tompkins stabilisce relazioni con i capi militari della Resistenza e con rappresentanti delle forze badogliane. Viene così allestita un’estesa rete spionistica […] A metà marzo 1944 radio Vittoria, per la cattura del suo radiotelegrafista e di Maurizio Giglio, è obbligata a cessare le trasmissioni. Giglio, il 17 marzo 1944, viene fermato dalla banda Koch mentre sta prelevando la radio, installata in una chiatta sul Tevere, per metterla al sicuro: il 23enne è torturato a lungo e poi ammazzato nell’eccidio delle Fosse Ardeatine. Tompkins si impegna a riorganizzare il servizio di informazioni […] Marco Scipolo, Maurizio Giglio, Sicurezza Nazionale

Maurizio Giglio nacque a Parigi il 20 dicembre 1920. Suo padre Armando, capitano di fanteria, fu ferito sul fronte francese durante la Grande Guerra e decorato con Medaglia d’Argento al Valor Militare.
Al termine del corso per Ufficiale di complemento del Regio Esercito, frequentato ad Ancona, fu chiamato alle armi nel gennaio del 1940. Nominato sottotenente fu inviato sul fronte francese.
Una volta cessate le ostilità, chiese di essere assegnato come volontario sul fronte greco albanese, laddove si distinse per coraggio e spirito di sacrificio non comuni, rischiando più volte la vita per salvare quella dei suoi soldati esposti alle repentine sortire nemiche.
Ferito gravemente nella battaglia del Kurvalesch, a seguito della quale fu decorato con una Medaglia di Bronzo al Valor Militare, nel gennaio 1941 ritornò in Italia con la nave ospedale “Aquileia”.
Dopo alterni periodi trascorsi in luoghi di cura e in licenze di convalescenza, durante i quali si laureò in Giurisprudenza, iscrivendosi, poi, all’Albo dei Procuratori Legali di Roma, fu richiamato in servizio ed assegnato alla Commissione Italiana di Armistizio con la Francia con sede a Torino, ove rimase fino al gennaio 1943, conseguendovi la promozione a Tenente.
Chiese ed ottenne di tornare in forza ad un reggimento. Rimpatriato fu assegnato al deposito dell’81° Fanteria di Roma con sede in Via delle Milizie.
Unitamente ad altri militari collaborò attivamente alle operazioni di soccorso delle centinaia di Romani rimasti vittima dei tremendi bombardamenti del 19 luglio e 13 agosto del 1943.
Dopo l’8 settembre 1943, a Porta San Paolo prese parte alla “guerra di popolo” per la difesa di Roma dall’occupante nazista, combattendo strenuamente fianco a fianco a molti eroici cittadini e soldati, molti dei quali appartenenti al Reggimento di appartenenza.
Deciso a continuare ad oltranza la lotta ai nazifascisti a fianco delle truppe Alleate, che già risalivano la Penisola, non esitò a passare le linee nemiche e a mettersi a disposizione della Quinta Armata.
Facendo leva sull’ardimento e sulla capacità evidenziate nel viaggio pericolosissimo appena compiuto, i Servizi d’Informazione statunitensi lo convinsero a diventare un loro agente e a fare ritorno a Roma, divenuta “Città aperta”, per acquisire informazioni di vitale importanza militare ai fini dell’avanzata Alleata verso Nord.
Il Ten. Giglio quindi, con altri suoi commilitoni, ritornò nella Capitale con una radiotrasmittente e i relativi cifrari, rischiando in più di un’occasione di essere scoperto e fucilato come spia.
Con l’aiuto del padre, che allora era Questore di Bologna e già Direttore della 2^ Zona della OVRA, riuscì ad arruolarsi nel Corpo degli Agenti di P.S., divenendo Tenente ausiliario del Corpo degli Agenti di P.S. presso la Divisione Speciale di Polizia di Roma, Assegnato allo Squadrone a Cavallo di stanza a Villa Borghese, seppe tessere una fitta rete di informatori, avvalendosi della collaborazione sia dei militari del Fronte Militare Clandestino del Col. Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo che dei socialisti delle “Brigate Matteotti”.
La sua opera si rivelò, altresì, preziosissima nel preparare alcune basi sulla costa tirrenica (grossetano) per facilitare, con l’aiuto delle motosiluranti alleate, il passaggio nell’Italia Liberata di molti antifascisti braccati dalle SS: Gen. Accame, il Comandante Calosi, l’Ing. Morris, gli Ufficiali Paolo Poletti e Clemente Menicanti, prigionieri alleati evasi dai campi di internamento, e due delegati dei partiti del fronte antifascista per il Congresso di Bari.
Con l’arrivo a Roma nell’imminenza dello sbarco alleato ad Anzio del Ten. Peter Tompkins , responsabile delle attività dell’OSS nella Capitale, l’attività del Ten. Giglio si fece più frenetica e rischiosa.
Non una ma tre radiotrasmittenti erano affidate alla sua responsabilità e da lui personalmente spostate frequentemente in varie parti della Capitale per evitarne l’individuazione da parte della Gestapo e dei reparti Speciali del Questore Caruso.
L’abilità negli spostamenti da lui messa in campo e la sua prudenza fecero si che per cinque lunghi mesi neanche i suoi più stretti collaboratori sospettassero minimamente l’importanza e complessità della sua missione.
Le informazioni sui movimenti e i concentramenti di truppe naziste nella Capitale e dintorni, da lui filtrate e fatte trasmettere in particolare da “Radio Vittoria”, risultarono così dettagliate da consentire agli Alleati di bombardare gli obiettivi segnalati con relativa facilità e precisione, disarticolando l’apparato bellico nemico e facendo risparmiare molte perdite umane ai contingenti impegnati duramente sui fronti di Anzio e di Cassino.
La sorte cominciò ad essergli avversa allorquando fu sorpreso dall’autista del Segretario federale del PFR Pizzirani mentre fotografava con un apparecchio miniaturizzato, marca Minox, le fasi di caricamento sui torpedoni di alcuni antifascisti da lungo tempo ricercati, catturati all’interno della Basilica di San Paolo fuori le mura, tra cui i generali Monti e Fortunato del Regio Esercito.
Per questo Maurizio Giglio venne sottoposto ad un provvedimento disciplinare che si concluse con la comminazione di un richiamo orale.
Decisivo anche in questo caso fu l’intervento del padre sul Questore Caruso.
Ciò non valse, però, a distogliere sul suo conto i sospetti della SS che presero a pedinarlo con assiduità per sospettata connivenza con gli antifascisti.
Si legò a sincera amicizia con Mons. Didier Nobels, parroco di San Giuseppe all’Arco di Travertino, anch’egli organizzatore di una rete di informatori denominata “banda dell’Arco di Travertino” .
La formazione partigiana era costituita da civili e militari, in prevalenza marinai, che dopo l’8 settembre operava in clandestinità nei pressi della Chiesa di campagna di San Giuseppe
Avendo appreso dell’arresto del suo collaboratore Enzo Buonocore, addetto all’apparato “Radio Vittoria”, che era stato avvicinato da Walter Di Franco, una spia di Koch e poi arrestato dai componenti della stessa banda, riuscì ad avvisare in tempo i compagni ma fu arrestato dagli uomini della Banda capeggiata da Pietro Koch, mentre tentava di recuperare una delle radiotrasmittenti a lui assegnate.
Nell’insospettabile Pensione “Oltremare” di Via Principe Amedeo, 2, adibita a luogo di tortura dagli scherani di Koch, Giglio per sei giorni subì torture inaudite, senza mai avere un istante di cedimento, accollandosi tutte le responsabilità pur di non rivelare i nomi e i nascondigli degli amici patrioti.
Intanto, il nome di Maurizio Giglio era stato aggiunto alla lista delle 330 persone che dovevano essere eliminate per rappresaglia dopo l’attentato di Via Rasella, ove perirono 33 soldati tedeschi appartenenti all’undicesima compagnia del 3° Battaglione del Reggimento di polizia SS Bozen (l’ultimo di essi perirà la mattina del 24).
Uno dei primi ad essere trucidato fu il giovanissimo Maurizio Giglio (aveva appena ventitrè anni)
Il 26 marzo 1944 fu il Capo del Corpo di Polizia della RSI Eugenio Cerruti a dare l’annunzio della morte di Maurizio Giglio al genitore Armando.
Redazione, 17 marzo 1944: viene arrestato il partigiano e martire delle Fosse Ardeatine Maurizio Giglio, medaglia d’Oro al Valor Militare, 17 marzo 2020, ANPI Roma

Questa è stata anche la sfortunata sorte di Maurizio Giglio (Cervo) il cui impegno e la fermezza hanno conquistato l’ammirazione degli agenti OSS che gli avevano chiesto di infiltrarsi in Roma mentre le forze fasciste e naziste controllavano ancora la città.
Un collaboratore che percorse clandestinamente l’intera distanza da Napoli alla città eterna attraverso le linee di combattimento portando con sé la radio affidatagli dall’OSS, in codice segreto Vittorio, radio che doveva essere la fonte della trasmissione di informazioni vitali agli Alleati.
Giglio aveva la copertura di prestare servizio come tenente della polizia romana, mentre segretamente aiutava l’OSS tramite Radio Vittorio con la quale forniva un prezioso collegamento di informazioni tra Peter Tomkins, l’agente più importante dell’OSS a Roma, e la V Armata.
Giglio fu catturato e ferocemente torturato dalla polizia fascista nel tentativo di costringerlo a rivelare l’identità dell’agente segreto dell’OSS a Roma.
Incapace di fargli tradire il nome del suo contatto, la polizia fascista italiana consegnò Giglio agli occupanti nazisti che lo mise con 335 civili e militari italiani che giustiziarono nel famigerato massacro delle Ardeatine il 24 marzo 1944: l’evento divenne il simbolo delle dure rappresaglie naziste contro gli italiani durante il periodo di occupazione. La strage delle Ardeatine fu solo un episodio di un vasto numero di orrende rappresaglie tedesche di rappresaglia a fonte delle azioi dei partigiani. Adottando la formula dei dieci civili italiani da giustiziare per ogni soldato tedesco ucciso, i nazisti avevano scelto indiscriminatamente di masacrare vittime civili innocenti indipendentemente dall’età o dal sesso.
Giglio sapeva che il suo rifiuto di divulgare identità di agenti segreti dell’OSS avrebbe comportato la sua morte. Il suo silenzio e la sua abnegazione di fronte alla tortura atroce lasciò al sicuro quegli agenti.
Rinunciando alla sua salvezza, “Cervo” aveva infatti sacrifica la propria vita tenendo altresì indenne suo padre da ogni accenno di sospetto.
Robert Katz, The Battle for Rome, Simon & Schuster Ltd, 2004, p. 278

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La morte dei segretari Frausin e Gigante provocherà, all’interno del partito comunista triestino, l’allontanamento dal CLN italiano per passare sotto il comando sloveno

Per cui, con le dimissioni del re, e con l’avanzata dell’Armata Rossa in Bulgaria e in Romania (che avevano firmato un armistizio con le forze sovietiche), Tito viaggiò segretamente in aereo, all’insaputa degli inglesi, per arrivare a Mosca per chiedere aiuti militari a Stalin e addestrare le sue truppe in modo da poter combattere efficacemente i tedeschi e cacciarli dalla Jugoslavia. Stalin approvò la richiesta <22, e il 20 ottobre 1944, l’Armata Rossa lanciò la sua terza offensiva verso l’Ungheria, sebbene in seguito delle divisioni sovietiche si riversarono su Belgrado, e insieme alle forze titine la liberarono. Questa offensiva, l’offensiva di Belgrado, permise a Tito di stabilire il suo quartier generale nella capitale <23
[…] Le rivendicazioni jugoslave erano di stampo nazionale e quindi non condivise dalla popolazione italiana, principalmente la borghesia e gli antifascisti democratici. L’AVNOJ (Antifašističko vijeće narodnog oslobođenja Jugoslavije) per avere dalla loro parte, parte della popolazione italiana, nella guerra di liberazione contro i nazifascisti, per integrare i comunisti italiani, riuscirono tramite la propaganda, le linee politiche comuniste dell’internazionalismo e l’ideologia di Stalin. Di fatto un certo consenso ci fu tra gli operai delle città industriali italiane come Trieste, Pola, Fiume e Monfalcone <24. Un ulteriore motivo per cui gli operai italiani, diedero appoggio alla resistenza jugoslava, era la delusione per la conduzione politica ed economica del fascismo, vedendo così nel socialismo jugoslavo una possibilità di miglioramento delle loro condizioni lavorative. Per gli jugoslavi l’annessione di tutte queste città industriali alla loro nuova nazione sarebbe stata considerata una vittoria comunista, un esempio di insediamento proletario in Occidente, nella retorica che le città non appartenessero alle popolazioni slave. <25
Le rivendicazioni jugoslave erano ben note al governo italiano e anche al CLN dal 1942, e in particolare nel PCI triestino, nessuno era particolarmente entusiasta. Umberto Massola rappresentante del PCI, protestò timidamente contro le rivendicazioni, essendo ospite presso il comando sloveno, tant’è che Edvard Kardelj (Dirigente dell’OF) lo annotò in una lettera, indirizzata a Tito, per avere il via libera ufficiale da parte di Georgi Dimitrov, nell’aprire le relazioni con la resistenza comunista italiana, il risultato fu che oltre al via libera alle relazioni, era stata inoltrata la richiesta di costituire gruppi kps nei territori italiani, il prima possibile. <26
L’8 settembre, oltre allo sbando dell’esercito, causò la fuga di figure politiche dalle carceri fasciste, tra le quali figurano i comunisti Luigi Frausin, Vincenzo Gigante e Giordano Pratolongo. La dirigenza comunista giuliana del segretario Frausin era intenzionata a collaborare con i partiti all’interno del CLN, e protestare contro le politiche di annessione jugoslave, ritenuta un ostacolo alla strategia unitaria “etnica” dei partiti antifascisti italiani. La condizione politica, ossia la lotta contro i nazisti e i fascisti, portò alla creazione di gruppi armati, in particolare la brigata Osoppo e i Gap, ma nel resto dell’Istria non se ne formeranno altri gruppi, limitando la presenza partigiana solo a Trieste. Infatti, l’Istria e Fiume, verranno considerate perdute a causa della mancanza di gruppi clandestini italiani agli ordini del CLN in contrasto alle politiche di annessione jugoslave <27.
Tra le fila della resistenza giuliana, non è da trascurare il ruolo svolto dai cattolici, specialmente il contributo da parte di esponenti del clero, come Don Edoardo Marzari. Don Edoardo Marzari era un sacerdote di Capodistria, che attirò l’attenzione dei fascisti per la sua attività sulla formazione dei giovani, ma anche per la sua distanza dalla politica del regime. Dopo l’occupazione tedesca di Trieste, iniziò ad impegnarsi nel propagandare forme di lotta non armata dei suoi fedeli, divenendo una figura importante nella resistenza giuliana. Le sue attività furono notate anche da Frausin, il quale nonostante talvolta si scontrasse con il prete sui suoi metodi di resistenza, lo nominò alla presidenza del CLN, primo caso in Italia di un sacerdote a capo di un movimento di liberazione. Altra figura da non trascurare, è il vescovo Santin che proteggerà i preti e membri dell’Azione Cattolica e che fungerà da contatto tra le autorità tedesca e la popolazione locale. <28
Con le politiche di Frausin, le riunioni tra il PCI italiano e i partiti sloveni e croati erano particolarmente accese, a causa delle politiche del segretario contrarie alle direttive politiche e militari jugoslave, tanto da portare la resistenza slovena a boicottare gli accordi che coinvolgevano le brigate garibaldine. Il 4 settembre, Anton Vratusa, dopo lunghe trattative con il CLN a Milano, firmò un accordo, nel quale si sospendevano fino al dopoguerra, tutte le questioni sulla delimitazione delle frontiere <29 e allo stesso tempo si decideva di costituire un comitato antifascista composto da 6 persone: 2 di rappresentanza del CLN, 2 per l’OF e 2 per l’organizzazione di Unità Operaia. Si può notare che i comunisti avevano la maggioranza all’interno di questo comitato, poiché Unità Operaia era composta da filocomunisti italiani ed era stata creata dall’OF. <30
Nonostante gli accordi, ci furono due svolte nei i rapporti tra il CLN e le forze jugoslave: la prima svolta, fu la notizia da parte del Kps nel continuare le rivendicazioni nella Venezia Giulia, a seguito dell’incontro del 12 – 13 agosto a Caserta tra Churchill e Tito sulla decisione che prevedeva, oltre all’appoggio militare alleato ai titini, la città di Trieste esclusa dall’amministrazione jugoslava <31, e l’inglobare nel comando sloveno i gruppi partigiani italiani, comportando l’annullamento degli accordi di Milano il 25 settembre. L’altra svolta fu l’arresto di Frausin, avvenuto il 28 agosto 1944 assieme di altre figure importanti del CLN, da parte degli uomini dell’Ispettorato Speciale di Pubblica Sicurezza per la Venezia Giulia, nota anche come “banda Collotti”, e consegnato alle SS, le quali dopo giorni di torture, lo fucileranno nella Risiera di San Sabba. <32 Si sospetta che l’arresto di Frausin sia stato ad opera degli sloveni, che lo volevano eliminare, poiché ritenuto un elemento influente nella resistenza italiana contro le rivendicazioni panslave nella regione, indebolendo allo stesso tempo il CLN triestino intento a favorire l’occupazione angloamericana di Trieste. <33 La morte del segretario, comporterà la perdita di uno dei maggiori dirigenti del PCI di Trieste e anche dei fautori delle politiche interne del CLN. Nemmeno il suo successore, Vicenzo Gigante, riuscirà a colmare questo vuoto, perché verrà arrestato a novembre da Colloti e morirà anche lui nella Risiera. <34
La morte dei segretari Frausin e Gigante provocherà, all’interno del partito comunista triestino, l’allontanamento dal CLN italiano per passare sotto il comando sloveno. Questa decisione fu presa, in seguito alle pressioni del comitato centrale del PCS composto da Miha Marinko, Lidija Šentjurc e Vratuša, da Vincenzo Bianco, nuovo segretario del PCI triestino e filo jugoslavo, il quale facendosi portavoce degli jugoslavi presentò alcune richieste, che causarono il suo allontanamento dal CLN, ossia: il riconoscere che gli italiani dovevano unirsi alla Jugoslavia e che venisse ammesso nel CLN, un rappresentante dell’OF. <35
L’allontanamento dei comunisti dal CLN provocherà una spaccatura all’interno della resistenza nella Venezia Giulia, e alcune unità garibaldine passeranno sotto il comando del Fronte di liberazione sloveno. Bianco, doveva seguire le indicazioni di Kardelj, ossia ripulire gli elementi fascisti e imperialisti italiani insediati nelle unità partigiane, <36 e scrisse, il 17 settembre, una lettera a Togliatti rivelando d’aver acconsentito alla cessione delle zone reclamate dagli sloveni: «Non potevo oppormi alle giuste rivendicazioni nazionali di un popolo, che da tre anni combatte eroicamente contro il nostro comune nemico e non potevo dividere – e non si può – la città di Trieste e altri centri dal loro naturale retroterra». <37 Mentre i vertici comunisti del CLNAI scrissero, il 13 ottobre 1944, un lungo articolo che esortava tutte le forze democratiche nella Venezia Giulia a continuare la lotta al fianco dei comunisti jugoslavi, pena essere considerati come traditori nazionali. <38
Il 17 ottobre 1944, Palmiro Togliatti ebbe un incontro personale a Roma con Kardelj e altri dirigenti comunisti jugoslavi: secondo Kardelj, Togliatti non metteva in discussione che Trieste spettasse alla Jugoslavia; tuttavia, raccomandava di applicare una politica nazionale che potesse soddisfare gli italiani. Il 19 ottobre, Togliatti inviò una lettera a Bianco, esprimendo il favore, all’occupazione delle truppe titine di Trieste, al fine non solo di battere tedeschi e fascisti, ma anche di creare nell’area «un regime democratico e progressivo», ordinando a tutte le divisioni garibaldine operanti nei territori reclamati dagli jugoslavi, di passare sotto il comando dell’OF. Il 7 novembre 1944 tutte le unità garibaldine dovettero passare l’Isonzo per unirsi agli sloveni. <39
[NOTE]
22 Consultare B. B. Dimitrijević and D. Savić (2011) Oklopne jedinice na Jugoslovenskom ratištu 1941-1945, Institut za savremenu istoriju, Beograd
23 Novak, p 99
24 Pupo. Trieste ‘45. Pp da 44 a 46
25 Nevenka troha, Il movimento di liberazione sloveno, cit. p.113 e consultare il libro Raoul Pupo, Il lungo esodo, Istria: le persecuzioni, le foibe, l’esilio. Editore Rizzoli storica, edizione 2005.
26 Pupo, Trieste pp 48 – 49
27 Pupo, Trieste ‘45 pp 50 – 51
28 Pupo, pp 94 – 97
29 Diego de Castro, p 189
30 Novak, p 115
31 Novak, p 124
32 Pupo, p 60
33 Novak, p 117
34 Pupo, p 60
35 Novak, p 116
36 Pupo, Trieste ’45, pp 64 – 65
37 Pupo, Trieste ’45, p 64
38 Cfr. “La nostra lotta”, a. II, n. 17, 13 ottobre 1944. È da notare che il proclama non menziona le manovre anglo-americane sulla regione.
39 Pupo, Trieste ’45, pp da 67 a 71
Matteo Boggian, La questione triestina (1945-1954), Tesi di Laurea, Università degli Studi di Padova, Anno Accademico 2020-2021

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Il comandante partigiano Bisagno non era tipo da far tanti discorsi

Lumarzo (GE). Fonte: Wikipedia

M. [Manlio Calegari] È chiaro che il primo periodo, circa due mesi, passati insieme a Cichéro resta molto importanti anche se, come dici, Bisagno [Aldo Gastaldi] non era tipo da far tanti discorsi. Però era uno che guardava e sapeva ascoltare. Cerco di capire che cosa ha spinto Bisagno a darti un comando.
C. [Stefano Malatesta (Croce)] Sono rimasto un po’ caposquadra, poi il fatto di Acero – che avevamo fatto quei tre prigionieri e ne avevamo mandato indietro due e uno l’avevamo fucilato – ha provocato delle conseguenze; un vespaio da Chiavari fino alla Spezia. Già due giorni dopo avevano organizzato delle puntate ma noi, già la sera del giorno dopo, avevamo deciso con Bisagno di trasferirci in massa e di andare a Varese Ligure. Bisagno mi ha detto: “Tu vai a Varese; là c’è Marzo che per dormire ha già preparato i casoni e quello che occorre”. E ha affidato tutti gli uomini a me. Invece lui, Bisagno, era andato sull’Antola per vedere dove fare le capanne; che adesso, a ripensarci… Aveva certe idee, Bisagno, che a volte erano lontane dalla realtà. Perché andare a fare delle capanne lassù e non ad esempio dove adesso c’è il ristorante, sul falso piano? Quando sono andato in questo ristorante, si parlava e mi hanno chiesto: “Perché le capanne non le avete fatte qua?”; ho risposto che non lo sapevo. Bisagno aveva cercato un posto in cima alla montagna e questi ragazzi dicevano: “Alla mattina dovevamo andare fin giù a Temossi o a Sopralacroce per comprare qualcosa”. Tenere trenta uomini lassù non aveva molto senso. Poi lì, in seguito, è stato fissato il campo di lancio e ci restavano solo due o tre partigiani di guardia mentre gli altri stavano più giù.
Io comunque sono andato con questi settantacinque o ottanta uomini a Varese Ligure. Bisagno li ha affidati a me. Ricordo che quella sera la staffetta che ci guidava verso Varese ci aveva detto che stavamo passando sul confine dove s’incontravano i territori di tre province: Piacenza, Parma e la Spezia.
GB. [Giambattista Lazagna (Carlo)] Con te c’erano Beppe [19] e Jack [20], due di quei posti.
C. Beppe era un ragazzo di valore! Jack non c’era ancora.
M. Comandare un gruppo così numeroso percorrendo un territorio sconosciuto. Sembra che ti riuscisse tutto facile.
C. Non saprei; forse a me veniva tutto facile o sarò stato anche fortunato, però lui, G.B., un po’ di cose le sa e altre si possono leggere nel libro di Testa [21]: la formazione di Croce, la brigata Jori, era quella più disciplinata. Non so dire il perché ma non mi sono mai trovato ad avere dei contrasti con un comandante di distaccamento, con un commissario. Anche Lesta, che era uno dei più vecchi, Bisagno se lo portava sempre con sé, e gli dava certe responsabilità. Quando qualcuno diceva a Bisagno: “Perché ti porti sempre dietro Lesta? Non si può mai parlare liberamente” [22], al che Bisagno rispondeva “Se lo lascio là è peggio! Lesta è un bravo ragazzo, e diversamente non cambierebbe mai”.
GB. Gino [23] c’era già, allora?
C. C’era, c’era ma i distaccamenti non sono stati fatti tutti e tre insieme.
GB.Voi siete partiti per primi, da Cichéro, per andare nella zona dell’Antola.
C. Ho fatto prima il mio distaccamento.
M. Quando, ti ricordi?
C. In maggio. Il 2 di maggio 1944. Il 1° maggio eravamo ancora a Varese Ligure, dove abbiamo fatto saltare due o tre tralicci della luce. Però il 1° maggio abbiamo dovuto venir via, perché di là, da La Spezia facevano una puntata, e siamo stati là quattro o cinque giorni, poi abbiamo dovuto rientrare. Rientrando a Cichéro, Bisagno ha capito che eravamo in troppi e avrà parlato con Marzo, Bini…
M. Quando partite da Cichéro, ai primi di maggio, il vostro distaccamento ha un nome?
C. Torre [24].
M. Gli altri distaccamenti vengono formati dopo.
C. Per primi da Cichéro siamo partiti noi; in val Trebbia, sotto l’Antola, ai casoni sotto l’Antola.
M. Facciamo un passo in avanti: verso la metà di giugno del 1944 c’è stata una discussione per decidere se queste formazioni dovessero entrare nelle brigate garibaldine. Si parla di assemblee. Ricordi di aver fatto delle riunioni?
C. Sempre nel giugno del ’44?
M. Sì, sembra siano state fatte, più o meno, tutte attorno a quella data, dopo la formazione dei tre distaccamenti. Dei tre distaccamenti il vostro era stato il primo…
C. Sì, il primo. Lesta, che allora era ancora a Cichéro, mi ha detto che quello di Gino era stato fatto una settimana dopo la mia partenza. Prima il Torre, e siamo partiti per l’Antola, poi è stato fatto quello di Gino e dopo è stato fatto il terzo, che poi è diventato il Peter in ricordo del polacco [25]… Poco dopo spostato a Pànnesi [Frazione di Lumarzo (GE)], comandato da Scrivia e seguito personalmente da Bisagno che non l’ha mollato un giorno.
M. Ecco, parlami un po’ di questa cosa che mi sembra interessante.
C. Tutti ci siamo un po’ domandati… Perché Bisagno è stato là per circa un mese e mezzo, nel corso del quale non ci siamo visti. Però eravamo sempre in contatto per mezzo delle staffette.
M. In quel periodo non vi siete visti per niente. Lui da voi non è venuto.
C. Infatti; è venuto soltanto con Lesta alla vigilia del giorno in cui abbiamo disarmato lo -Slavo” [26]. E in quel periodo ci scrivevamo dei bigliettini, informandoci di quello che succedeva. Bisagno è rimasto sempre con Scrivia, perché… Carlo e Minetto poco tempo fa mi hanno chiesto come mai Bisagno avesse scelto Scrivia per comandare il nuovo distaccamento: forse perché si conoscevano per essere stati studenti insieme all’Istituto tecnico e avevano fatto tutto il servizio militare insieme, come sottotenenti del Genio telecomunicazioni, fino a Caperana (Chiavari). Forse era per la politica. Allora c’era già, la politica.
M. Fosse quel che fosse, comunque Bisagno seguiva Scrivia molto da vicino.
C. Non l’ha mollato un giorno. Può darsi che a Cichéro ci sia tornato per qualche giorno, ma da me non è venuto. È rimasto sempre a Pànnesi con Scrivia. Perché? Probabilmente era preoccupato di lasciare trenta uomini ancora senza esperienza a un ragazzino come era allora anche lo Scrivia. Ma ragazzino ragazzino! Sai di quei ragazzini… Mi ricordo che è arrivato su con quei pantaloncini stretti, era anche piccolino. Gli ha dato il distaccamento però gli è andato insieme.
M. (rivolto a GB.; ndr) Quando siete andati a Pànnesi?
GB. Guarda, quando io sono arrivato a Cichéro, in aprile, verso la fine di aprile, mi pare, Scrivia non c’era ancora. È arrivato pochissimi giorni dopo che voi (rivolto a Croce; ndr) eravate partiti per l’Antola. Mi ricordo della vostra partenza. Io con il distaccamento ancora unito sono rimasto forse una diecina o una quindicina di giorni, non so dirlo con precisione. Scrivia è arrivato a Cichéro, come ho detto, che io ero lì da qualche giorno [27]. Poi io sono rimasto a Cichéro, e Scrivia è partito per andare con Nino [28], il commissario politico, a Pànnesi dove poi sono arrivato io a sostituire Nino; devo chiedere a Nino, per quale motivo mi hanno mandato a sostituirlo. Forse gli avevano dato qualche altro incarico, oppure non andava d’accordo con Scrivia. Non lo so.
C. C’era Bisagno anche quando sei arrivato a Pànnesi?
GB. No, quando ci sono andato io non c’era. Mi ha accompagnato Tromba [29]. Te lo ricordi? Siamo passati da Neirone, dove c’era Nicola [30] che faceva una festa da ballo nel bosco, con le ragazze del paese e una fisarmonica. Mi ricordo che siamo capitati in mezzo alla festa da ballo. Tanto che poi ho fatto un bigliettino per Bisagno per informarlo di quel fatto. Quando io sono arrivato a Pànnesi, Bisagno non c’era; era tornato indietro. Io ero arrivato lì verso la metà o la fine di giugno, diciamo attorno al 20 di giugno e mi pare che Bisagno fosse ormai tornato a Cichéro.
C. Bisagno è venuto con Lesta il 10 o il 12 di giugno in val Trebbia, quando abbiamo disarmato il gruppo dello Slavo [31]. Avevamo preso accordi con Bisagno per iscritto. C’era questa banda… Bisagno mi aveva chiesto se portare in appoggio un distaccamento dei nostri. Ma là c’era già Marco [32] con i suoi, che erano venuti dalla val Borbéra dove stavano prima che in val Borbéra arrivasse Scrivia; Scrivia in val Borbéra è arrivato dopo il rastrellamento di agosto.
GB. In val Borbéra siamo arrivati il 24 agosto, il secondo giorno della battaglia di Pertuso.
C. Noi eravamo sull’Antola, a Capanne di Carrega, e andando in giù, a Cabella avevo trovato, insieme a Marco, un ragazzo col quale eravamo stati militari insieme. Pensa che quando ci siamo incontrati, con questo Caveggia…
GB. Ah! Eliseo Cavecchia, “Tullio” [33].
C. Ci siamo parlati un quarto d’ora, venti minuti senza riconoscerci. Lui era conciato male, proprio male. Noi bene o male avevamo almeno un paio di scarpe; lui ne aveva un paio di gomma senza suola; il piede che gli perdeva sangue di sotto, la barba lunga, i capelli lunghi. Poi, dopo un po’ gli dico: “Sei Caveggia?”, e lui risponde: “E tu sei Malatesta?”.
M. Era carabiniere, Cavecchia?
C. No. Carabiniere io sono passato dopo. A militare erano arrivate delle richieste, secondo le quali avevano bisogno di carabinieri e chi faceva la domanda poteva passare dall’esercito ai carabinieri. Io, tutte le mattine – eravamo a Camporosso – andavo a Ventimiglia con uno di Riva Trigoso, che aveva poi un negozio a Sestri Levante, e vedevo questo manifesto per il passaggio nei carabinieri. Allora facciamo la domanda. A lui, dopo un mese e mezzo, gli è arrivato l’ordine di tornare allo stabilimento di Riva Trigoso [34] dove già lavorava prima di andare sotto le armi. E così sono rimasto io. Avevo già fatto una richiesta di avvicinamento a casa – avevo mio padre da solo in casa – quando mi è arrivato l’ordine di trasferimento ai carabinieri. Il colonnello mi ha chiamato e mi ha detto: “Non ci vuoi proprio più stare qui. Prima hai fatto domanda per andare a Genova, e ora…”, e io rispondo: “E voi non me n’avete concessa una”. “Adesso ti hanno richiesto alla Legione di Genova, hai fatto una domanda…”, e mi ha mandato alla Legione di Genova.
Con Caveggia eravamo militari insieme a Camporosso. Quando Bisagno mi dice: “Vengo, che distaccamento ti porto?”, io gli ho risposto: “Guarda che qui c’è già un distaccamento con un comandante, Marco, che è un ufficiale dell’esercito, dell’aviazione, e ci conosco un amico, così faccio venire questi coi quali ormai ci siamo conosciuti”. Quando Bisagno è arrivato da noi, alla sera, con Lesta, io avevo il distaccamento di Tullio e di Marco già in val Trebbia, a Gorreto.
M. È in quella occasione che Bisagno ha conosciuto Marco?
C. Sì. Marco è stato lì una settimana, poi è rientrato in Val Borbéra. Bisagno e Marco si sono parlati in quei giorni. Bisagno, con uno che era ufficiale si capiva di più. -Per lo meno – diceva – questo è un po’ più dei nostri”, perché a Cichéro eravamo un po’ in mezzo a tutti questi vecchi volponi di partito. Tu (rivolto a G.B.; ndr) lo sai, eh, di quelli che c’erano, i vecchi: tolto tuo papà (Canevari; ndr), gli altri erano già tutti patentati politicamente. Marzo, che forse era più liberale degli altri… Anche lui, però, se gli toccavi il partito, cominciava a dire: -Non va bene!”.
GB. Te lo ricordi il Grigio? [35] Era un bagnino di Lavagna, uno che aveva quaranta, cinquant’anni.
C. Ma lassù non c’era.
GB. Sì, era a Cichéro quando sono arrivato io. Poi non ne ho più saputo niente. Non mi pare che fosse comunista. Era sicuramente un antifascista di vecchia data, perché aveva dovuto scappare. Aveva i capelli bianchi, o quasi. Ce n’erano pochi di quella età.
C. Nel periodo che tu sei rimasto a Cichéro, quando a comandare c’era solo Gino. Nelle cave, alla sera, ci andavi anche tu?
GB. Siamo andati nella cava di Orero, che in paese c’era Marzo. Poi c’era Domenico [36] che andava a prenderci da mangiare. Siamo stati al buio per quasi una settimana, in questa cava di ardesia. Da lì andavamo sull’Aiona per ricevere il famoso lancio e poi tutti i giorni giù di corsa.
M. Il tuo primo comando, dopo Acero e dopo aver portato gli uomini a Varese, è stato di comandarli in val Trebbia, ai casoni dell’Antola. Guardie, staffette, messaggi, contatti, il mangiare, tutto quanto, insomma. Mi diresti qualche altra cosa di quel periodo, di come te la sei cavata?
C. Non era facile dare degli ordini a tenenti, tenentini e sottotenenti, eppure ne avevo quattro o cinque. Ultimamente ne avevo cinque o sei (nei mortaisti c’erano tre sottotenenti, ingegneri) [37]. Lì (ai casoni dell’Antola; ndr), i primi quindici giorni, ho avuto più difficoltà. Difficoltà nel senso della questione viveri, perché arrivavi nuovo del posto e andare a bussare alle porte delle case non è stato facile. Avevo con me un maresciallo che poi è andato giù con voi (rivolto a G.B.; ndr) in val Trebbia. E poi facevamo un po’ d’istruzione militare. Perdevamo quelle tre o quattro ore al giorno con questo maresciallo che era bravo con le armi, facevamo un po’ di ginnastica. Per non stare fermi, per tenerci in forma, mandavamo una pattuglia sull’Antola e una nell’altra direzione… per non tenere gli uomini fermi tutto il giorno.
Però Bisagno aveva un po’ la mania di costruire delle capanne, e un giorno mi manda a dire di fare una capanna da qualche parte sotto il monte Carmo, dentro a una foresta fitta. Allora abbiamo fatto questa capanna ma non come l’avete fatta voi di Cichéro sul monte Aiona. Abbiamo chiesto aiuto ad alcuni contadini del posto, il legname c’era già, e abbiamo coperto la capanna con la paglia del grano, come è l’uso contadino. Si fa a rotoli. E infatti il tetto proteggeva bene dalla pioggia. Abbiamo fatto una capanna di quaranta metri, e c’eravamo una trentina e potevamo starci abbastanza comodi. Ma non ci siamo stati molto. A Bisagno ho detto: -Guarda che tenere gli uomini sempre dentro a una foresta è una cosa impossibile”. Bisagno li aveva mandati su proprio in cima all’Aiona, ma poi ha dovuto rinunciarci. Allora di lì siamo passati a un casone sulla strada tra Carrega e Capanne di Carrega, ma era vicino una decina di metri dal sentiero e da lì passavano continuamente i contadini di Carrega, e quindi tutti ci vedevano. E poi la voce della nostra presenza camminava. A Alpe avevamo un prete, il primo prete che abbiamo conosciuto; uno un po’ vivace che poi gli è successo quello che gli è successo…
GB. È morto… era a Rovegno, poveretto.
C. Mah… Ha fatto una morte che non si sa ancora adesso… In ogni modo, da quando è venuto con noi (lo chiamavamo Nero per via della tonaca) è andato sempre bene, fino a marzo o aprile del ’45; in aprile si sono accorti che questo prete qua… e l’hanno levato da mezzo. C’era da fucilare due o tre persone e dicono che lui, andando là per dargli la benedizione, li slegava… ma a me non è mai risultato che avessimo legato i prigionieri. Ci aveva aiutato per più di un anno, era un prete e una brava persona, poi hanno detto che slegava questi prigionieri e l’hanno passato per le armi [38]. A noi aveva dato una mano – era uno che trafficava con sigarette e altro – e ci aveva organizzato i rifornimenti. A Bobbio c’era un consorzio dove c’era il deposito del grano. C’erano quattro o cinque repubblichini che facevano la guardia, a questo deposito. Per noi, a quei tempi, era dura. Allora don Nero è andato lì, ha parlato e ci ha guidato a Bobbio dicendoci: -Voi mandate via queste guardie, senza fargli niente”. Siamo andati a Bobbio con un camion, ci siamo caricati tutto il camion di grano e l’abbiamo portato a Bavastrelli. Lì c’era un mulino, e così abbiamo cominciato ad avere farina abbondante per mangiare. Da allora per noi è cominciata una vita diversa da quella di Cichéro.
GB. Questo prelevamento di grano a Bobbio è più o meno in luglio ’44?
C.No, è prima: a fine maggio o ai primi di giugno. Noi, la val Trebbia, il fondo valle, l’abbiamo occupato dal 12 al 15 di giugno. Fino ad allora eravamo ancora in cima ai monti, e faceva ancora freddo. Poi, quando abbiamo occupato la val Trebbia è stato come per voi quando siete arrivati in Val Borbéra: zone ricche. Cichéro era una zona triste! Nella zona di Cichéro e dell’Aveto c’erano sempre difficoltà per i viveri; posti molto poveri già per sé stessi. Invece in val Trebbia, da Bobbio verso Piacenza, arrivava il grano e la situazione era ben diversa. A quello che mi chiedevi prima, ti rispondo che non ho trovato molte difficoltà.
M. Avevi dei collaboratori che ti davano una mano…
C. E che mi ascoltavano, anche.
GB. Ma dimmi un po’, Croce: per esempio Denis [39] e quel gruppetto, a parte l’Oreste che poveretto ha fatto quella brutta fine, quei dieci o dodici del vecchio distaccamento -Scintilla”, del primo inverno, erano con te?
C. Quel gruppo era venuto a Cichéro, in aprile mi pare.
GB. Ma poi sono ritornati con voi all’Antola, in maggio.
C. Sì, ma non tutti. Nino è andato a Pànnesi. Nicola è andato a Bargagli e ha creato un suo gruppo autonomo che in giugno o luglio si è unito alla Giustizia e Libertà.
GB. Quelli di loro che erano con te, erano già pratici della zona, perché avevano già girato tra Berga, l’Antola, Carrega e Bogli.
C. Sì, erano stati una settimana sull’Antola. Badoglino [40], per esempio, e i suoi amici, erano ragazzi che avevano preso fiducia. Badoglino una volta è andato a fare un’azione con il mio vicecomandante, che era un sottotenente. Sono andati e hanno fatto tanto che l’azione è fallita, se li sono fatti scappare. Questo ragazzino, Badoglino, allora aveva diciassette anni.
GB. Chi era il tuo vice?
C. Era Fontana [41]. Badoglino era tornato al comando ma non mi aveva detto niente. Non è che mi abbia detto: -È successo questo”. Mi dice però che uno era andato di qua e l’altro di là; dovevano essere in quindici ma mancava questo e mancava quello.
Un bigliettino da Torriglia ci aveva informato che certe carrette che portavano materiale militare e andavano a Gorreto partivano alla tale ora. A una certa ora la nostra squadra si doveva trovare nel tal punto per catturare questo materiale. Invece erano arrivati sul posto non al completo, perché si erano divisi e non avevano concluso niente. E questo ragazzino, Badoglino, aveva detto a Fontana: -Se c’era Croce…”. Fontana era il vice-comandante del distaccamento Torre, il mio distaccamento e stava con noi da parecchio. Era un po’ come Lesta, ma Lesta, se diceva qualcosa, lo ascoltavano. Fontana invece…
Io avrò anche fortuna, e ho avuto anche la fortuna di avere dei collaboratori che non piantavano grane; però qualche volta dipende anche da noi, se piantarle o no. Nella brigata Berto, il comandante era Banfi [42], un capitano dell’esercito che in seguito è diventato generale; non l’ultimo arrivato. Però non c’era giorno che non avesse grane. Avevano perfino chiamato Lesta per sostituirlo. Ho parlato con Bill [43] l’altro giorno. Era deciso: Banfi doveva andare via, Bisagno lo mandava via, poi gli hanno messo insieme Lesta come vice comandante della brigata. Alla Berto, tra il comandante e il commissario c’era sempre qualche grana. Nella mia formazione è successo un caso solo; uno che però abbiamo sistemato in ventiquattro ore.
Ho avuto la fortuna di avere un commissario come Moro [44], che era bravissimo perché, quando siamo andati a fare azioni, quando abbiamo disarmato la caserma dei carabinieri di Rovegno, l’ho decisa in una mezz’oretta. Un carabiniere è venuto su e mi ha detto -Guardi, stasera c’è così e così, c’è la festa, venite giù e li disarmiamo tutti”. Io mando un biglietto a Moro, e gli scrivo: -Vieni giù che andiamo a fare così e così” [45].
Quando Moro è arrivato a Alpe di Gorreto, mi ha preso da parte: Moro era stato già commissario del distaccamento Scintilla, con Edoardo, e gli era già successo che dovevano andare a disarmare una caserma a Garbagna, verso Tortona, dov’erano appena quattro carabinieri [46]. Però, il giorno prima andare a disarmarli, tutti già sapevano che alla tale sera i partigiani andavano a prendere quei carabinieri; e così è successo che hanno preparato l’accoglienza ai partigiani, tirandogli delle bombe a mano dalla finestra, e i partigiani erano venuti via, per fortuna senza danni. Moro, quest’uomo che aveva un po’ di anni più di me – di Moro, tu Manlio, avrai sentito parlare a Lavagna – era una persona straordinaria. A me non ha mai dato fastidi, politicamente; non ci siamo mai detto: -Tu come sei?”. Io sono come sono! Neanche con Marzo ho mai avuto fastidi, però qualche volta…
Quando poi Scrivia è arrivato in val Trebbia, Bisagno, con Marzo, ha pensato bene di prendere il nostro commissario, Moro, e di mandarlo da loro. E da me è arrivato un certo Bruno che veniva dalla Quarta zona [47]. Era bravissimo. È stato con noi una ventina di giorni però in mente aveva la politica. Era arrivato un lancio e col lancio anche le sigarette che venivano portate da me, al comando. Bruno dice: -Se mi dai una staffetta che mi accompagni, vado a fare un po’ un giro in due o tre distaccamenti”. E si prende un po’ di sigarette. Va a fare questo giro, e fa per andare giù sotto l’Antola, per andare a Casella, prima di Casella…
GB. A Frassinello, Valbrevenna, Nenno, val Vobbia…
C. Ora succede che quando a Cichéro capitavano dei carabinieri per mettersi coi partigiani, Bisagno li mandava tutti da me. E io avevo tre comandanti di distaccamento che erano carabinieri [48]. Va beh! Questo Bruno va in un distaccamento, prende il commissario, e gli dà un po’ di sigarette, e gli dice: -Stasera, quando fai la riunione, dai un po’ di sigarette agli uomini del distaccamento. A quelli che non ci sono, non ne dai. Va nell’altro distaccamento, da Gino, che è un altro carabiniere [49], e prima che arrivasse lì, a me erano già arrivati due bigliettini e poco dopo me ne arriva un terzo. Vado a Casa del Romano, dove c’era il telefono – perché avevamo un telefono a manovella –, chiamo Bruno e chiedo: -Dove ti posso vedere?”. Mi dice: -Domattina vengo a Loco”. Io vado su e racconto a Bisagno quello che è successo e gli spiego: -Questo Bruno è bravissimo, però se mi va nei distaccamenti a piantare delle grane…”. Quando Bruno è rientrato, l’hanno chiamato al comando della divisione: non è successo niente, ma due giorni dopo è stato trasferito e con me è venuto Paolo [50], un ragazzo anche lui comunista, amico di Marzo.
GB. Di questo Paolo ho sentito parlare. Chi era? Ne parla Gimelli, nel suo libro, quando riferisce della famosa riunione di Fascia, quando Santo [51] ha portato mezzo distaccamento Alpino…
C. A ogni modo, alla Jori non abbiamo avuto questioni coi commissari. Bisagno sapeva come la pensavo, però a me non succedeva come a lui, che aveva vicino quelle tre o quattro persone che gli andavano a soffiare: -Lì c’è rosso, lì c’è rosso!”. Con Bisagno, qualche volta mi sono permesso di discutere. Quando mi ha chiesto di fare la capanna, prima l’ho fatta ma poi gli ho detto: -Di lì noi veniamo via, perché non è un posto adatto per starci”.
Quando mi ha detto di fare i rifugi, gli ho detto che con i rifugi ci mettevamo fuori strada. -Abbiamo tanta montagna aperta davanti a noi; meglio stare fuori! E ci difendiamo fuori. Se facciamo i rifugi non sappiamo che cosa succede fuori”; da Scrivia hanno fatto i rifugi e poi è successo qualche patatrac, come quello di Pinan che l’hanno pescato dentro nel rifugio; a Favale si erano infilati in un casone, e poi è successo il pandemonio. Qualche volta Bisagno mi ascoltava. Mi ha ascoltato anche quando, finita la guerra, voleva portare tutti i partigiani su a Fontanigorda quando sembrava che gli americani dovessero disarmarci. Diceva: -Non ci lasciamo disarmare. Andiamo di nuovo su, in montagna, andiamo a Fontanigorda”, ma a Fontanigorda per arrivarci ce ne vuole! Eravamo di nuovo nel deserto. Eravamo già stati venti giorni a Genova, a mangiare all’albergo, seduti a tavola; a dormire bene o male in un letto; per non dire quelli che abitavano vicino e andavano a casa. Andare di nuovo su: impensabile! Poi mi ha dato retta e noi della brigata Jori siamo andati tutti a Torriglia: ma proprio tutti, ci siamo andati. Solo noi con Bisagno, ma non quelli delle altre brigate. A Torriglia c’era un albergo che neppure ci stavamo tutti e c’erano camion e macchine che andavano e venivano. A Torriglia, bene o male, ci siamo arrivati e ci siamo stati. Tenere i partigiani lì a Torriglia a dieci giorni dalla Liberazione! Siamo stati lì dieci giorni e abbiamo tenuta unita tutta la brigata.
[NOTE]
[19] Mario Ginocchio (1923-1944), tornitore all’Ansaldo, all’8 settembre era marinaio alla Spezia; salì a Cichéro, da Borgonovo di Mezzanego, dove abitava, ai primi di marzo del 1944; cominciò come staffetta e arrivò ad essere, in ottobre, vice comandante della brigata Berto; ucciso durante un rastrellamento presso monte Pagliaro, sopra Favale di Malvaro, il 28 novembre 1944.
[20] Angelo Spinetto (1922-1992), di Borgonovo (Mezzanego); partigiano a Cichéro dalla metà di marzo del 1944, comandante del distaccamento Castagna della brigata Berto.
[21] Antonio Testa, nato a Napoli nel 1921, caposquadra e poi vice-comandante del distaccamento Guerra della brigata Jori, restò ferito presso la Colonia di Torriglia il 21 aprile 1945 durante un’operazione di sminamento; autore di Partigiani in Valtrebbia. La brigata Jori (Genova, 1980).
[22] Lesta era comunista, diversamente da Bisagno e da chi gli avanzava queste osservazioni.
[23] Michele Campanella (1922-2012), partigiano a Cichéro dalla metà di febbraio del 1944, comandante di distaccamento, dopo il rastrellamento dell’agosto 1944 fu nominato comandante della brigata volante Severino.
[24] In realtà, il distaccamento assunse il nome Torre dopo la fucilazione del gappista Giovanni Battista -Baciccin” Torre, eseguita il 23 maggio 1944; cfr. ivi, Archivio M. Calegari, -Intervista a Denis”.
[25] Józef Peter, partigiano a Cichéro dall’aprile 1944, vittima di un’imboscata dei tedeschi nei pressi del monte Becco, la sera del 25 giugno 1944; cfr. ivi, Archivio M. Calegari, -Intervista a Canevari”, nota 44.
[26] La banda dello Slavo, anche banda del Croato, ebbe sede a Cerignale fino al suo disarmo, avvenuto fra il 30 giugno ed il 1° luglio 1944; il comandante era uno jugoslavo fuggito dopo l’8 settembre 1943 da un campo di concentramento per militari prigionieri, nato a Lubiana nel 1915 e passato alla storia come Gaspare Ciameranik, benché esistano dubbi sulla grafia del suo cognome (si trova anche come Gialernich o Giamenich). Accusati di violenze e grassazioni, i partigiani di Gaspare furono disarmati da quelli di Bisagno con l’aiuto del gruppo di Marco e Tullio (vedi note 32 e 33), proveniente dalla val Borbéra (si veda M. Calegari, Comunisti e partigiani. Genova 1943-1945, Acqui Terme, 2007, pp. 210-213); tuttavia Gaspare al 25 aprile fu smobilitato, con il grado di comandante di distaccamento, nei ranghi della brigata Caio, comandata da un suo connazionale, -Istriano”, Ernesto Poldrugo, di Pola, classe 1923.
[27] Secondo la documentazione a disposizione (tutt’altro che insuscettibile di errori e imprecisioni, come del resto la memoria dei protagonisti), G.B. entrò in banda effettivamente alla fine di aprile del 1944, il giorno 27, mentre Scrivia risulta aver ottenuto un’anzianità partigiana datata 16 aprile: dieci giorni prima, anziché dopo.
[28] Stefano Porcù (n.1925); cfr. ivi, Archivio M. Calegari, -Intervista a Denis”.
[29] Luigi Borriello, nato a Napoli nel 1924, partigiano a Cichéro dal febbraio 1944 e poi in val Borbéra, nel distaccamento SIP comandato da -Nero” (Antonio Cossu, 1919-1981), smobilitato con la brigata Arzani.
[30] Nicola Cusanno (1924-1945); cfr. ivi, Archivio M. Calegari, -Intervista a Denis”.
[31] Il disarmo dello Slavo avvenne il 1° luglio 1944, mentre qui -Croce” probabilmente fa confusione con il disarmo, ad opera sua, del distaccamento di -Giustizia e Libertà” comandato da -Murri” (Franco Fantozzi, vedi nota 87), avvenuto effettivamente tra il giorno 11 e il giorno 12, ma di luglio e non di giugno.
[32] Franco Anselmi (1915-1945); nato a Milano, ufficiale dell’Aeronautica militare, all’armistizio si trovò all’aeroporto di Cameri, presso Novara, dove si sottrasse alla cattura dopo che il comandante del campo, tenente colonnello Alberto Ferrario (genovese, n.1904), si tolse la vita per non consegnarsi ai tedeschi. Anselmi raggiunse Dernice, in val Curone, luogo di villeggiatura della sorella, dove or­ganizzò uno dei primi gruppi partigiani dell’alessandrino, poi inquadrato nella divisione Cichéro nell’estate del 1944 con il nome di -battaglione Casalini”; in settembre fu nominato vice-comandante della bri­gata Oreste, in ottobre comandante della brigata Arzani, poi dispersa dal rastrellamento di dicembre. Arrestato a Milano il 30 gennaio 1945 ai funerali del padre, ritornò libero grazie ad uno scambio di prigionieri. Trasferito in Oltrepò pavese, fu capo di stato maggiore della divisione Gramsci, alla testa della quale il 26 aprile 1945 entrò a Casteggio, dove rimase ucciso nel corso dei combattimenti.
[33] Eliseo Cavecchia (1914-1969), di San Quirico, in val Polcevera; comandante di un distaccamento della banda di -Marco”.
[34] La militarizzazione della manodopera interessò numerosi stabilimenti industriali liguri, fra cui il Cantiere Navale di Riva.
[35] Cesare Marsili, nato a Lavagna nel 1885, il più anziano partigiano della compagnia comando della divisione Coduri.
[36] Aldo Arata (1924-1999), tranviere originario di Orero, partigiano a Cichéro dalla metà di marzo del 1944.
[37] Comandante e vice-comandante del distaccamento mortaisti, nell’aprile 1945, erano -Elio” (Elio Saettone, n.1922) e -Ivan” (Giovanni Casini, n.1920), entrambi genovesi.
[38] Attilio Pavese (1908-1944), nato a Borghetto di Borbera, parroco di Alpe di Gorreto; dopo l’ar­mistizio, fornì assistenza e rifugio in canonica a militari sbandati e a renitenti alla leva. Nell’estate del 1944 fu intendente della 3ª divisione Cichéro e il 23 settembre prese parte alla riunione delle Capanne di Carrega con i comandanti della Sesta zona. Il 6 dicembre 1944, a Casanova, frazione di Rovegno, morì – secondo la versione ufficiale – mentre somministrava i conforti religiosi a sette prigionieri tedeschi condannati alla fucilazione, raggiunto accidentalmente dagli spari.
[39] Dionigio Marchelli (1925-2007); cfr. ivi, Archivio M. Calegari, -Intervista a Denis”.
[40] Giacomo Bonicelli (1927-2002); cfr. ivi, Archivio M. Calegari, -Intervista a Denis”, nonché M. Calegari, La sega di Hitler (Milano, 2004), pp. 99/103; un’intervista a Badoglino è visibile qui: https://www.youtube.com/watch?v=jloo6VcqMIo.
[41] Franco Mortarini (1920-1966), di Sampierdarena; ex sottotenente dell’esercito regio, partigiano dal luglio 1944, vice-comandante della brigata Jori dal mese di settembre alla Liberazione; ferito il 24 aprile 1945 sul ponte di Siginella, località del Comune di Torriglia nei pressi di Laccio, da un mitragliamento effettuato da aerei americani. Morì in Cile.
[42] Eugenio Sannia (1917-2007), originario di Chiavari; ufficiale d’Accademia in contatto con ambienti militari genovesi antifascisti e membro, dal novembre del 1943, dei Volontari armati italiani, fondati dal capitano di fregata Jerzy Sas Kulczycki (1905-1944, fucilato a Roma), organizzazione diretta a Genova dal tenente colonnello Efisio Simbula (n.1892); ricercato, salì in montagna nel luglio del 1944 e fu poi nominato comandante della brigata Berto.
[43] Claudio Floris (1924-2015), di Rivarolo; partigiano dal giugno del 1944, sul monte Aiona, con il distaccamento Forca della banda di Cichéro; dal marzo 1945 commissario politico del distaccamento Alpino della brigata Jori (poi della Berto); autore del volume di memorie Testimonianze partigiane: Divisione Cichero, la Brigata Berto (Genova, 2005).
[44] Otello Pascolini (1905-1962), fabbro, comunista; cfr. ivi, Archivio M. Calegari, -Intervista a Denis”.
[45] La caserma dei carabinieri di Rovegno fu disarmata dai partigiani di Croce il 5 giugno 1944 grazie ad Amilcare Del Monte (1920-1985), originario di Fidenza, carabiniere in servizio presso quella caserma. Insieme a Del Monte, che assunse nome di battaglia “Gino” e fu comandante del distaccamento Bellucci della brigata Jori, fecero il loro ingresso nelle fila partigiane i carabinieri Mario Botti (1915-1989), -Paton”, suo compaesano; Michele Gianfrancesco (1924-2000), -Giura”, foggiano; Giuseppe Giglio (1920-1962), -Fioravante”, catanese; e, forse, Domenico Lacopo (1915-1945), -Scala”, calabrese, fucilato a San Colombano Certenoli il 2 marzo 1945 (per Lacopo, cfr. ivi, Archivio E. V. Bartolozzi, Il mio 68° 25 Aprile).
[46] Per l’azione di Garbagna, cfr. ivi, Archivio M. Calegari, -Intervista a Denis”, infra.
[47] Francesco Rivara (1910-1970), di Sampierdarena; comunista, partigiano alla Benedicta e poi nel battaglione Casalini, dove affiancò -Tullio” in qualità di commissario politico. Rimase in val Borbéra, alla brigata Oreste, sino alla fine del mese di settembre 1944, quando giunse in val Trebbia, da Croce, alla brigata Jori; infine, nel marzo 1945, finì al comando del Sip (il Servizio informazioni e polizia) della divisione Mingo, alle pendici del monte Beigua.
[48] Si tratta di “Reggio” (Demetrio Castellini, 1904-1983), originario dell’Appennino reggiano, ma residente a Marassi sin dal 1929, comandante del distaccamento Maffei; di “Gino” (Amilcare Del Monte, 1920-1985), parmigiano, comandante del distaccamento Bellucci; e di un terzo non ancora individuato.
[49] Amilcare Del Monte; vedi note 46 e 48.
[50] Ferruccio Spagnoli (1908-1991), di Sampierdarena; commissario politico del distaccamento Alpino della brigata Jori, il 7 marzo 1945 dissentì dalla decisione del comandante del distaccamento, -San­to”, che aveva portato a Fascia i suoi uomini, e passò a far parte del comando della brigata Jo­ri con il ruolo di commissario politico.
[51] Elvezio Massai (1920-2009), partigiano in val d’Aveto dal giugno 1944, poi comandante del distaccamento Alpino della brigata Jori, distaccamento trasferito alla brigata Berto dopo l’episodio di Fascia.
Manlio Calegari, Intervista a Stefano Malatesta “Croce” (realizzata nella sua abitazione di Arma di Taggia il 3 agosto 1995, presente Giambattista Lazagna “Carlo”), Archivio della Divisione Partigiana “Coduri”

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Il contenimento dell’influenza sovietica in Europa occidentale

La natura dei rapporti tra Stati Uniti e Europa occidentale negli anni della guerra fredda è spesso descritta utilizzando le categorie di “impero” o “egemonia”. Dal momento che per “impero” si intende un principio di organizzazione dello spazio politico in cui gli attori coinvolti perdono formalmente la loro autonomia a favore della potenza centrale, al caso americano sembra più adeguata la categoria di “egemonia” che rispecchia meglio la natura del condizionamento statunitense sull’Europa occidentale in quanto i soggetti coinvolti, in questo caso i paesi dell’Europa occidentale, non persero mai la loro indipendenza formale <239. Il concetto di egemonia implica infatti la capacità, da parte della potenza egemone, di controllare il comportamento degli altri attori del sistema e di influenzarne gli esiti, in virtù di una distribuzione delle risorse tale da renderli notevolmente superiori per capacità <240. La concentrazione di risorse materiali (militari ed economiche) in capo ad un unico attore non è tuttavia sufficiente per parlare di egemonia anche perché, nell’immediato dopoguerra, anche l’Urss poteva considerarsi una delle maggiori potenze dal punto di vista delle risorse materiali. E’ importante infatti considerare l’influenza esercitata in virtù di quelle risorse. Per parlare di egemonia, quindi, è necessario detenere anche risorse di tipo non materiale: in particolare la volontà egemonica di esercitare la propria influenza, e la legittimità che gli altri attori le riconoscono <241. In particolare, è proprio quest’ultimo elemento, e cioè la ricerca del consenso, che secondo Gaddis contraddistinguerebbe l’egemonia democratica americana da quella sovietica <242.
Sulla validità di queste categorie, e sul complesso equilibrio tra politica interna e politica estera dei paesi europei, tra autonomia decisionale e dipendenza internazionale dagli Stati Uniti, si è sviluppata una vasta letteratura. Tra le opere prodotte, non mancano le posizioni estreme di chi esclude che nel dopoguerra gli Stati Uniti abbiano esercitato una reale egemonia sull’Europa, come Nye, e di chi invece supporta la tesi di una completa sottomissione delle realtà nazionali al sistema internazionale, come Bonanate <243. Quest’ultimo ad esempio ha scritto, sul caso italiano: “L’Italia fu quale la divisione dell’Europa concepita a Yalta la volle”, in un contesto in cui persino i tratti del sistema politico e lo sviluppo interno italiano furono vincolati dalla potenza dominante nel quadro internazionale <244.
Bisogna anche notare che l’egemonia americana sull’Europa vanta una storia molto lunga, che non nasce nel dopoguerra, ma i cui tratti tipici erano già evidenti dall’inizio del secolo. Il termine della seconda guerra mondiale, e la conseguente esigenza di risanare un’Europa distrutta dal conflitto, non fecero che accelerare e rafforzare il decorso di un percorso già in atto, affiancando alla componente economica della dominazione, anche un elemento di subordinazione politica e militare <245. Alla vigilia della prima guerra mondiale, gli Stati Uniti, la cui produzione industriale superava del doppio quella della Germania, del triplo quella della Gran Bretagna e di ben otto volte quella della Francia <246, erano già una superpotenza e si preparavano ad espandere il proprio dominio economico e a proiettare tale superiorità anche in campo politico <247. Il primo conflitto mondiale offrì alla potenza americana la prima opportunità per abbandonare il tradizionale isolazionismo e penetrare in Europa. A tale scopo, gli Stati Uniti rifornirono e sostennero i paesi dell’Intesa sin dall’inizio del conflitto <248. Essi si accollarono la gran parte delle spese economiche legate al conflitto ed elargirono prestiti ai paesi europei per un totale di oltre 40.000 milioni di sterline, relegando i partners europei in una posizione di forte dipendenza sul piano finanziario <249. Al supporto economico va aggiunto l’aiuto operativo, determinante ai fini della conclusione del conflitto, che gli Stati Uniti apportarono a partire dal loro ingresso in guerra, nel 1917. Inoltre, attraverso il Piano Dawes (1924), concepito allo scopo di stabilizzare il marco e il bilancio tedesco, e per definire un programma di pagamenti annuali in conto riparazioni adeguato alle capacità tedesche, gli Stati Uniti si accollarono l’onere di emettere sul loro mercato i titoli del prestito che avrebbero dovuto consentire il pagamento delle riparazioni tedesche <250. Se il Piano Dawes segnò uno spartiacque nell’interdipendenza finanziaria tra Stati Uniti ed Europa, fu il secondo dopoguerra a sancire l’apice dell’egemonia americana in Europa, in quanto fornì agli Stati Uniti l’occasione cruciale per plasmare il nuovo ordine mondiale. Usciti dal conflitto in una posizione di potere senza precedenti, gli Stati Uniti avviarono un processo di consolidamento della loro dominazione economica nei paesi in guerra contro il nazifascismo, ponendo le basi perché tale dominazione si protraesse dopo il termine del conflitto attraverso l’influenza delle politiche commerciali dei singoli paesi. I mezzi per esercitare tale dominazione furono i prestiti, gli accordi economici, ma anche la coercizione e gli incentivi, il tutto sostenuto da una maggiore capacità degli Stati Uniti in termini di mezzi e di risorse <251.
Dal 1941, infatti, con l’approvazione della legge Affitti e Prestiti (Lend and Lease Act) gli Stati Uniti sostennero quasi esclusivamente il peso della guerra. Il provvedimento consisteva nell’elargire, in favore dei partner europei, ingenti crediti finalizzati all’acquisto dei beni necessari alla conduzione del conflitto. L’unica condizione prevista era che, al termine del conflitto, i beneficiari avrebbero ripagato i beni ricevuti con altre merci o servizi <252. Dal 1944, gli accordi di Bretton Woods segnarono un altro successo sostanziale per la potenza americana, che aveva ora possibilità di intervenire in maniera più attiva nell’economia europea, senza cui non sarebbe stato possibile alimentare lo sviluppo industriale statunitense <253. In particolare, la regola del Gold Exchange Standard, che fissava la convertibilità del dollaro in oro e delle altre valute in dollaro, contribuì a fare del dollaro la moneta di riferimento per gli scambi internazionali e a dare stabilità al sistema finanziario internazionale. Inoltre, il sistema del Gold Standard fornì agli Stati Uniti la possibilità di controllare direttamente la liquidità internazionale, assumendo una posizione di predominio nel mercato finanziario mondiale. Il sistema fu perfezionato nel 1947 con la firma del General Agreement on Tariffs and Trade (Gatt), con cui i paesi firmatari decidevano di aprire i loro mercati senza discriminazione, attraverso la riduzione dei dazi doganali e degli altri ostacoli al commercio e all’integrazione internazionale <254.
Al termine della guerra, la necessità di risanare l’economia del vecchio continente, e quella di scongiurare il dominio sovietico sul continente europeo, presupponevano da parte degli Stati Uniti l’assunzione della responsabilità non solo economica, ma anche di carattere politico e diplomatico, nei confronti di quei paesi che non erano stati ancora occupati dall’Urss. La convinzione di fondo che portò le amministrazioni americane a questa conclusione era legata al fatto che la tutela degli interessi e della sicurezza statunitensi derivassero anche dalla garanzia di un equilibrio politico europeo, in una fase storica in cui la Gran Bretagna non era più in grado di assumere il ruolo di leader sul vecchio continente <255. L’argomento che fornì lo spunto per un controllo politico dell’Europa era legato al destino della Germania. Il momento in cui si cominciò a palesare un interesse statunitense sull’Europa occidentale fu infatti un intervento del Segretario di stato James Byrnes a Stoccarda, nel settembre 1946, in cui presentò la nuova politica per la Germania e l’Europa. L’ipotesi avanzata dagli Stati Uniti prevedeva innanzitutto il contributo tedesco alla ricostruzione dell’Europa, che sarebbe stata lenta e difficoltosa senza l’apporto delle risorse metallurgiche e carbonifere tedesche, sanciva la divisione tra le due Germanie, e poneva le basi per una unificazione della Germania occidentale, economicamente più ricca ed avanzata <256. Un disegno simile rivelava l’interesse statunitense ad intervenire nella politica degli Stati europei, ed implicava la permanenza delle truppe americane in Europa per un periodo più lungo rispetto ai due anni inizialmente previsti, escludendo allo stesso tempo la possibilità di un dominio sovietico sull’Europa occidentale <257.
[NOTE]
239 J. S. Nye, Soft Power. The Means to Success in World Politics, New York, Public Affairs, 2004, p. 136; G. J. Ikenberry, V. E. Parsi, Manuale di relazioni internazionali, Roma-Bari, Laterza, 2009.
240 R. O. Keohane, After Hegemony: Cooperation and Discord in the World Political Economy, Princeton, Princeton University Press, 1984, pp. 32 e ss. Sulle diverse tipologie di egemonia esistenti, si vedano gli studi: F. Hirsch, M. Doyle, Alternative to Monetary Disorder, New York, McGraw Hill, 1977, p. 27; D. Snidal, Hegemonic Stability Theory Revised, in “International Organisation”, 39, 3 (1985): pp. 579-614.
241 M. Clementi, L’egemonia e i suoi limiti, in “Rivista italiana di Scienza politica”, 35, 1 (2005): pp. 29-53.
242 G. L. Gaddis, We Know Now. Rethinking Cold War History, Oxford, Clarendon Press, 1997.
243 J.S. Nye, Bound to Lead. The Changing Nature of American Power, New York, Basic Books, 1990; L. Bonanate, L’Italia nel nuovo sistema internazionale 1943-1948, in Id., Teoria politica e relazioni internazionali, Milano, Comunità, pp. 99-166.
244 Ibidem.
245 E. Di Nolfo, Europa e Stati Uniti tra il 1945 e il 1989, in A. Giovagnoli, L. Tosi (a cura di), Un ponte sull’Atlantico. L’alleanza occidentale 1949-1999, Milano, Guerini e Associati, 2003, pp. 49-61.
246 G. Mammarella, Destini incrociati. Europa e Stati Uniti nel XX secolo, Roma-Bari, Laterza, 2000, p. 4.
247 J. Ikenberry, Il dilemma dell’egemone. Gli Stati Uniti tra ordine liberale e tentazione, Milano, Vita e Pensiero, 2007.
248 I principi alla base dell’ingresso degli Stati Uniti in guerra sono condensati nei 14 punti stilati dal Presidente Wilson, a proposito dei quali Mammarella sostiene “è il primo documento di politica estera di un’America diventata superpotenza”, G. Mammarella, Destini incrociati, cit. pp. 31-34.
249 E. Di Nolfo, Europa e Stati Uniti tra il 1945 e il 1989, cit. p. 52.
250 Id., Storia delle relazioni internazionali, cit. pp. 42-43.
251 In un rapporto americano si legge “i vantaggi offerti dai prestiti degli Stati Uniti e altri accordi sono le nostre migliori carte negoziali per assicurare concessioni politiche ed economiche nell’ambito della stabilità mondiale”, in: J. Ikenberry, Il dilemma dell’egemone, cit. p. 43.
252 G. Mammarella, Destini incrociati, cit. p. 103; E. Di Nolfo, Storia delle relazioni internazionali, cit. pp. 414 e ss.
253 S. Lupo, A. Ventrone, L’Età contemporanea, Milano, Mondadori, 2018, p. 386.
254 S. A. Aaronson, Trade and the American Dream: A Social History of Postwar Trade Policy, Lexington, University Press of Kentucky, 1996; F. Mckenzie, GATT and the Cold War Accession Debates, Institutional Development, and the Western Alliance, 1947–1959, in “Journal of Cold War Studies Vol. 10, No. 3, Summer 2008, pp. 78–109.
255 G. Mammarella, Destini incrociati, cit. p. 146.
256 G. Mammarella, Europa-Stati Uniti. Un’alleanza difficile. 1945-1985, Bari-Roma, 1996, p. 59.
257 Restatement of US Policy on Germany, Adress of the Honorable J. Byrnes, Secretary of State of the United States of America, delivered at Stuttgart, Germany, on September 6, 1946, Department of State Bulletin, 26161, 13, disponibile al link: https://babel.hathitrust.org/cgi/pt?id=umn.31951d035590724;view=1up;seq=4.
Letizia Marini, Resistenza antisovietica e guerra al comunismo in Italia. Il ruolo degli Stati Uniti. 1949-1974, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Macerata, 2020

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