Il 10 Settembre 1980 la FIAT annunciò 14.469 licenziamenti

A differenza di quanto sostenuto all’epoca dal movimento dei capi così come da altri commentatori, esisteva nella sinistra istituzionale e anche in alcune parti del sindacato una malcelata preoccupazione per l’ingovernabilità della FIAT. Giorgio Amendola su Rinascita nel 1979 e poi un intervento del senatore comunista Colajanni mettevano in guardia sulle condizioni di crisi dell’azienda, sull’esasperato egualitarismo delle rivendicazioni e sul calo della produttività <699.
Conferme su questo atteggiamento venivano anche dagli avversari sindacali. Una relazione del congresso provinciale della CISNAL affermava che la «crisi attraversata della FIAT», era frutto di «errori e ritardi nelle scelte di politica aziendale, dovuti a rivalità interne a livello dirigenziale» e non quindi al sovversivismo degli operai <700. Mentre in un altro documento si criticava il PCI e gli altri sindacati per essere stati promotori della conflittualità permanente ed essersi ora trasformati nei «promotori della produttività aziendale e schiera[ndo]si contro i cosiddetti assenteisti» <701. Il PCI fu molto attivo sul tema e presentò un “Piano auto” nazionale, con aperture alla flessibilità in cambio di un mantenimento del ruolo del sindacato.
Era all’interno di quest’ultimo che c’erano più divisioni. Le strutture di base e la FLM sostenevano che non si poteva accettare nessuna ipotesi di risanamento che avesse comportato perdite di posti di lavoro e di potere degli operai. Ma anche per il sindacato c’erano dati allarmanti, visto che una ricerca del CESPE-Istituto Gramsci segnalava che solo una minoranza credeva nell’opera di mediazione del sindacato e la maggior parte dei dipendenti aveva posizioni moderate <702. Il sindacato “partecipativo” consiliare, dopo la fase alta di movimento, aveva finito per lasciare indietro i lavoratori più apatici e in più alla FIAT il consiglio di fabbrica aveva talmente tanti delegati che «un potente fattore di legittimazione era quindi costituito dai dibattiti e dalle votazioni che per quanto ristretti in relativo ad una élite assumevano in assoluto l’andamento di effettive dinamiche di massa» <703.
Il Piano auto del PCI era una espressione della filosofia dell’EUR, della concertazione, proposta dalla Triplice nel 1978 e contestata dall’ala più combattiva, ma nel 1980 questa proposta venne affossata dal rifiuto di imprenditori e governo cosicché il piano venne rivalutato come una cosa “di sinistra” e ciò secondo Bonazzi, diede un prestigio e un ruolo particolare al PCI durante i 35 giorni <704.
Il clima cominciò a surriscaldarsi quando Umberto Agnelli e poi Gianni Agnelli, a fine giugno 1980, rilasciarono interviste a tutto campo nelle quali parlarono della crisi dell’auto e delle problematiche aziendali paventando di doversi alleggerire di molte migliaia di lavoratori per adeguare le strutture al mercato e recuperare produttività. Il prefetto di Torino De Francesco in una riunione estiva con il questore e i capi delle forze dell’ordine sottolineò che «il diffuso disagio esistente nel settore metalmeccanico (FIAT-Indesit-aziende dell’indotto)» poteva essere terreno per infiltrazioni pericolose e momenti di tensione «in particolare, nel prossimo mese di settembre, allorché la FIAT – come pare – darà inizio a procedure di licenziamento» <705. Secondo Marco Revelli, che sia allora che in seguito si è occupato della vicenda, “la FIAT andò a sfidare in uno scontro dichiaratamente frontale (e mortale), un sindacato dall’aspetto invincibile ma in realtà già minato da una crisi profonda, e lo sconfisse in campo aperto. Sfidò, col rifiuto programmatico della mediazione, un ceto politico apatico se non ostile, e lo umiliò e conquistò. Soprattutto riuscì a disperdere [in fabbrica] l’aggregato di risorse umane e di valori, di comportamenti collettivi e di codici morali[…] che nel corso degli anni ’70 era anche riuscito a divenirvi egemone: a porsi come autentica, reale alternativa globale al suo potere”. <706
La vicenda fu da subito caricata di un significato che andava molto al di là dei licenziamenti di massa, i quali comunque «dopo dodici anni in cui le conquiste operaie avevano obbligato l’azienda a contrattare ogni minimo aspetto nell’uso della forza lavoro,[…] acquistava[no] il senso traumatico di una “catastrofe”» <707. Dal canto loro, i capi che avevano perso fiducia nell’azienda e nella sua capacità di difendere il loro ruolo si sentirono di nuovo «parte viva di un sistema risoluto a non abdicare ed a questo sistema nuovamente disposti a dare disinteressatamente piena adesione» <708.
L’azienda si preparò minuziosamente allo scontro anche varando nuove strategie che spiazzarono il sindacato. Durante la vertenza, giovedì 2 Ottobre 1980 la FIAT acquistò spazi pubblicitari sui quotidiani, tra cui Il Corriere della Sera e La Repubblica, scrivendovi che si trattava di spazio destinato ad una pubblicità di una vettura che in quei giorni non era prodotta a causa dello sciopero, in cui si riaffermava l’inutilità e il danno del blocco degli stabilimenti a fronte della cassa integrazione. Se prima acquistava intere testate o concordava articoli favorevoli con le redazioni, ora era passata ad un rapporto diretto con il lettore: “L’appello alla opinione generale introduce una nuova variabile nel tradizionale triangolo padronato-sindacati-governo investendo direttamente i cittadini, la collettività, tutti coloro che non sono implicati nella vertenza attraverso la diffusione di un’immagine pubblica della vertenza stessa direttamente prodotta dall’impresa (e quindi non mediata dai mezzi d’informazione). Si apre un nuovo campo[…] un terreno questo su cui proprio il sindacato appare del tutto impreparato”. <709
Il 10 Settembre 1980 la FIAT annunciò 14.469 licenziamenti (di cui 12.934 nel settore auto, 169 in quello siderurgico, 166 alla Lancia di Varrone) <710. Iniziarono quelli che vennero in seguito definiti i “35 giorni della FIAT”. Secondo Revelli la prima fase di lotta operaia è “una grande replica, dal vivo, dei primi anni Settanta”: “A prendere in mano la guida delle operazioni sono, in queste prime battute, i protagonisti di allora, quelli dell’Autunno caldo[…] sue sono le forme d’azione, suoi il rituale di lotta, gli slogan e i modelli organizzativi. […] Tra l’11 Settembre e la fine del mese si va avanti così, con gli scioperi di sei ore che permettono di concentrare nelle prime due ore del turno la massa operaia nei reparti per poi farla confluire nelle decine di assemblee, comizi, sfilate in città, verso la prefettura, la regione, la RAI, l’Unione industriali”. <711
Sulle prospettive di vittoria e le forme di lotta, quindi sull’utilità delle stesse, Bonazzi diceva che dalle interviste emergeva che “l’oltranza [lo sciopero a oltranza con il blocco degli stabilimenti] fu più o meno coscientemente vissuta da molti come l’esito obbligatorio di una mobilitazione che si presagiva comunque perdente, l’ultima testimonianza che un’avanguardia erede di dieci anni di lotte doveva dare di se stessa”. <712
La vera discriminante nella scelta delle forme di lotta non era la posizione politica o l’appartenenza sindacale, bensì l’età e l’epoca di assunzione in FIAT: la maggioranza di quelli che propendevano per l’oltranza e l’occupazione erano gli operai fino a 35 anni, assunti fra il 1969 e il 1977 <713.
[NOTE]
699 T. Giglio, La classe operaia va all’inferno. I quarantamila di Torino. Un atto di accusa degli italiani ai sindacati e ai partiti, Milano, Sperling & Kupfer, 1981, pp.28-29
700 Comunicazione prefettura Torino 8/3/1980, in f. 12000/84, cit.
701 Relazione consultiva bilancio e attività prevalente del segr. provinciale Bruno Labate allegata a ivi 702 G. Bonazzi, La lotta dei 35 giorni alla Fiat. Un’analisi sociologica, in “Politica ed economia”, n.11, novembre 1984, pp.34-35
703 Ivi, p.35
704 Ivi, p.36
705 Comunicazione prefettura Torino 14/7/1980, in f. 11001/84, ACS, Min. Int., Gab., Arch. Gen., fasc. corr., anni 1976-1980
706 M. Revelli, Lavorare in Fiat, da Valletta ad Agnelli a Romiti. Operai, sindacati, robot, Milano, Garzanti, 1989, pp.7-8
707 G. Bonazzi, La lotta dei 35 giorni alla Fiat, cit., pp.34-35
708 L. Arisio, Vita da capi, cit., p.179
709 G. Grossi, Sindacato e opinione pubblica: il caso della vertenza Fiat del 1980, in “Rappresentanza e Rappresentazione, Milano, Franco Angeli, 1985, pp.118-119
710 M. Revelli, Lavorare in Fiat, cit., p.84
711 Ivi, pp.86-87
712 G. Bonazzi, La lotta dei 35 giorni alla Fiat, cit., p.37
713 Ibidem
Alberto Libero Pirro, La “maggioranza silenziosa” nel decennio ’70 fra anticomunismo e antipolitica, Tesi di Laurea Magistrale, Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, Anno Accademico 2013-2014

Parallelamente si svolgerà, sempre a Torino, uno sciopero generale di quattro ore di tutta l’industria, per sensibilizzare la Fiat e per contrastare le riforme e i tagli aziendali; in questa occasione Luciano Lama cercherà un dibattito con l’azienda, proponendo soluzioni alternative ai licenziamenti e ai pensionamenti anticipati; dopo aver constatato il completo disinteresse della controparte, viene indetto un ulteriore sciopero di due ore, che coinvolgerà tutto il gruppo Fiat.
L’azienda comunque è decisa a proseguire sulla strada dei provvedimenti e a metà luglio annuncia una serie di trasferimenti (punitivi) e ben 2 mila licenziamenti tra gli “assenteisti”, anche se in realtà si tratterà di operai invalidi e non idonei alla produzione; è importante sottolineare che l’assenteismo che intendeva l’azienda comprendeva anche i ricoveri ospedalieri e la maternità, entrambe riconosciuti come diritti del lavoratore <49.
Il 31 luglio, a un passo dalle “sospirate” ferie estive, la Fiat confermerà i provvedimenti e i tagli previsti per settembre; intanto Romiti succederà ad Agnelli alla carica di amministratore delegato. Romiti prenderà le redini della Fiat e guiderà l’azienda durante i 35 giorni di lotta; il dirigente rivelerà successivamente che la decisione di accollarsi il peso della “svolta” del 1980 è frutto di una serie di riunioni tra i vertici della casa torinese che, oltre a confermare i provvedimenti nei confronti degli operai, lasceranno il peso di tale decisione nelle mani di un solo amministratore delegato. Così facendo la famiglia Agnelli, proprietaria della Fiat, può restare “fuori dai giochi” mantenendo la distanza di sicurezza da provvedimenti decisamente impopolari, facendo apparire, all’opinione pubblica, Romiti come la faccia dura della classe dirigente torinese, al contrario del suo predecessore che invece sarà identificato come la parte ragionevole dell’azienda, aperta al dialogo. Dirà più tardi Alan Friedman, parlando di Gianni Agnelli: «se c’è da menare un colpo, non è mai lui a farlo: preferisce che siano altri a sporcarsi le mani. Non è stato sempre così; ma ha imparato quanto sia importante coltivare un’immagine senza macchia» <50.
[NOTE]
49 Cfr. Con Marx alle porte. I 37 giorni della Fiat.
50 A. Friedman, Tutto in famiglia, p. 46.
Mirco Calvano, Terrorismo e tute blu, gli Anni di Piombo alla Fiat, Tesi di Laurea Magistrale, Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, Anno Accademico 2014-2015

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Pensionato di Bordighera (IM)
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