Nella primavera del 1969 Mirafiori è la più grande fabbrica d’Europa, più della Volkswagen, ed è un vulcano pronto ad esplodere. E’ finito il tempo degli operai piemontesi, specializzati, sindacalizzati, e politicizzati (tessera PCI e Federazione Italiana Operai Metalmeccanici [FIOM]), uniti dalla forte identità comune, con il mito della produzione. L’organizzazione taylorista di Valletta, la sua strategia di espansione del mercato interno e di conquista del mercato europeo, richiede una fabbrica disciplinata, libera dal controllo del sindacato che alla fine degli anni sessanta ha trasformato in una macchina di produzione rigida e gerarchizzata. Valletta ha conquistato la pace sociale con premi antisciopero, una mutua per i dipendenti e i familiari, con i salari migliori dell’industria meccanica italiana. Ma nel ’69 il welfare di Valletta è in crisi: gli operai non hanno case, sono immigrati dal Sud, dequalificati, diffidenti verso partiti, sindacati e deleghe, respinti da una città come Torino che non li accetta ma che ha già conosciuto la loro rabbia negli scontri di Piazza Statuto del luglio 1962.
La città scoppia e la causa è l’emigrazione da sud per cercare lavoro. Gli operai vivono in condizioni disagiate, in tanti su un unico letto; c’è anche chi dorme in stazione, con la sveglia al collo per non far tardi in fabbrica. I ritmi sono incalzanti, il modello è fordista-taylorista, basato su una forza lavoro dequalificata. La struttura gerarchica è rigida e parcellizzata. Gli operai non hanno voce. In commissione interna ne siedono ventuno, che dovrebbero parlare per 55.000. Il sindacato è debolissimo e il Partito comunista quasi non esiste. La sfiducia, la rabbia, la frustrazione attendono una scintilla. Dopo decenni in cui i ritocchi di stipendio e miglioramenti normativi non sono conquistati dai lavoratori ma concessi dall’azienda, a due anni da un contratto nazionale striminzito, si avanzano richieste radicali: forti aumenti di salario, seconda categoria per tutti, abolizione del cottimo che lega la retribuzione alla produttività.
Saltano le forme tradizionali di rappresentanza e di lotta: si tengono continue assemblee, vengono eletti delegati di officina e di reparto, nascono i cortei interni. Il primo sfila alla fine di maggio. Duemila operai partono dalle Carrozzerie. In testa ci sono i futuri leader di Lotta Continua in fabbrica: Luciano Parlanti, Pino Bonfiglio, Antonio Vaccaro, Roberto Sibona.
Ricorda Pino Bonfiglio: ‘ Stavo alle Carrozzerie, Verniciatura. Venivo da Messina. Le condizioni in fabbrica erano a dir poco terribili: la prima settimana non mangiai, per abituarmi alla polvere della vernice, all’odore, alla vaselina che dovevi spalmare in faccia per poterti lavare con l’alcol dopo. A Mirafiori entravi nella cabina di verniciatura e poi non esisteva più niente, sempre la stessa luce anche se fuori pioveva, nevicava o c’era il sole. Ogni ora 15 minuti di pausa: uscivamo dalla cabina e andavamo in un sottoscala, dove c’era la macchina del caffè. Proprio il sottoscala dove andavamo in pausa era il luogo in cui organizzavamo i primi scioperi. Diventammo un punto di riferimento per le altre linee.’ <26
Si videro arrivare i primi studenti alle porte della fabbrica e gli operai si chiesero cosa volessero. L’obiettivo dei gruppi riuniti sotto la sigla “Lotta continua” fu quello di capire la portata rivoluzionaria della rottura tra operaio-massa e movimento operaio tradizionale, seppure con differenze teoriche: il gruppo la Classe fa leva sugli obiettivi capaci di colpire il “piano del capitale” <27, cioè sulle rivendicazioni salariali, mentre il gruppo de Il Potere Operaio toscano e degli studenti torinesi non vuole ridurre la lotta allo scontro sul salario, ma punta ad estendere l’esperienza FIAT ad altri strati sociali e a porre come obiettivi di lotta anche il problema della casa, dei trasporti, dell’immigrazione, della divisione del lavoro, della natura dello stato borghese.
‘Dopo i fatti della Bussola, – ricorda Davide Guadagni – , Adriano Sofri ebbe una grande intuizione politica: capì che questo grande sviluppo della Fiat avrebbe attirato molti ragazzi del Sud, che sarebbero emigrati a Torino per cercare lavoro, e quindi si trasferì nella città della Mole. Lì incontrò Guido Viale, che confermò questa sua intuizione. A Torino, Sofri rappresenta bene quella che, con il senno di poi, ha definito la capacità di “travestimento” di Lc. Era quella la caratteristica di Lotta Continua, la capacità di calarsi nei panni degli altri. Lui vive, con e come i giovanissimi migranti, fa le cose che fanno loro, addirittura i tuffi nel Po. Per questo diventa uno dei leader riconosciuti in fabbrica di quello che sarà ricordato come l’autunno caldo, era il 1969’. <28
I sindacati li chiamavano ‘figli dei padroni’, <29 pagati di volta in volta da Agnelli, dalla Ford o da qualche misteriosa organizzazione. Iniziò una collaborazione tra operai e studenti, che si incontravano alle Molinette per fare il volantino del giorno. Quando videro che i figli di papà prendevano e davano botte come gli operai, anche i più diffidenti non ebbero più dubbi.
Alla fine del maggio 1969 i sindacati siglano un accordo che dovrebbe spegnere l’incendio. Ma lo stesso giorno insorgono le Carrozzerie, 15.000 operai, quasi tutti venuti dal Mezzogiorno. Si fermano la Verniciatura e il Montaggio: gli operai bloccano le linee all’improvviso, urlando le loro richieste. La direzione tenta di elaborare una risposta, annuncia i primi licenziamenti e convoca i sindacati, che sono però tagliati fuori dalla rivolta. Nella metà di giugno è firmato l’accordo che riconosce in parte i delegati, definiti “esperti”. Agli operai ribelli però non basta: si proclama uno sciopero spontaneo e totale che blocca le Carrozzerie per una settimana.
La miccia che innesca la battaglia di corso Traiano si accende il 21 giugno. L’assemblea delle Molinette decide che la Verniciatura, il reparto chiave da cui è partito lo sciopero, non può andare avanti da sola. Due giorni dopo si ferma la Lastroferratura. A luglio sarà sciopero generale per la casa. ‘Perchè siamo noi proletari del sud noi operai massa… che abbiamo costruito lo sviluppo del capitale e di questo Stato. Siamo noi che abbiamo creato tutta la ricchezza che c’è e di cui non ci lasciano che le briciole. Abbiamo creato tutta questa ricchezza crepando di lavoro alla Fiat o crepando di fame al sud. E adesso noi che siamo la grande maggioranza del proletariato non ne abbiamo più voglia di lavorare e di crepare per lo sviluppo del capitale e di questo suo Stato… è ora di finirla con questi porci che tutta questa enorme ricchezza che noi produciamo qua e nel mondo… non sanno che sprecarla e distruggerla… Con tutta questa ricchezza che c’è la gente invece potrebbe non più morire di fame potrebbe non più lavorare. Allora prendiamoci noi tutta questa ricchezza allora prendiamoci tutto’. <30
Il brano citato chiarisce bene l’atteggiamento e il modo di pensare di migliaia di lavoratori che, nelle strade di Torino, furono i protagonisti della rivolta di corso Traiano, l’evento che mostrò in modo dirompente tutta la rabbia e la combattività accumulata dagli operai, in particolare dagli operai Fiat. Fu l’evento che di fatto aprì la stagione rivoluzionaria passata alla storia come Autunno Caldo.
“Cosa vogliamo? Vogliamo tutto!” La scritta citata compare il 3 luglio 1969, in mezzo a bandiere rosse, lungo corso Traiano a Torino. Quel giorno il sindacato ha convocato uno sciopero sulla questione casa, con manifestazione nella mattinata, e vi è stata una partecipazione di massa. Nel primo pomeriggio, per il corteo convocato dall’Assemblea operai alcune migliaia di lavoratori e studenti sono davanti alla porta 2 di Mirafiori. Altri devono arrivare in corteo dallo stabilimento del Lingotto, altri ancora da Nichelino, grosso centro operaio dell’hinterland dove è in corso una dura lotta per il diritto alla casa, con occupazione del municipio.
Il corteo dovrebbe puntare al centro della città, ma non partirà mai. La polizia attacca i manifestanti con estrema violenza. I lavoratori iniziano a disperdersi, ma poi si ricompattano in corso Traiano, l’enorme strada che attraversa il quartiere operaio di Mirafiori o porta diritto alla Fiat. Qui inizia la leggendaria battaglia. I lavoratori e gli studenti iniziano a bersagliare la polizia con pietre, a formare barricate, a cercare armi di difesa nei numerosi cantieri della zona. Gli operai del quartiere, le donne, i giovanissimi scendono in strada dar man forte ai propri compagni. La polizia risponde con raffiche di lacrimogeni. Gli operai riescono a conquistare la strada.
‘Corso Traiano è ora completamente in mano ai dimostranti, comincia ad imbrunire e si diffonde il rumore del martellare ritmico delle pietre che i dimostranti battono sull’acciaio dei pali dei lampioni ‘. <31 Si sentono urla di gioia, canti e slogan rivoluzionari. La polizia riconquisterà il terreno molto lentamente, nel corso della serata, mentre la rivolta si allargherà ad altri quartieri. Le forze dell’ordine si rendono protagoniste di violenza inaudite, picchiando chiunque capiti a tiro, compresi anziani, donne e ragazzini. Operano rastrellamenti casa per casa, sfondando le porte. Scontri si verificano anche nel centro di Torino, presso la facoltà di architettura del Valentino, dove è in programma un’assemblea di studenti ed operai. La battaglia prosegue sin quasi all’alba, spostando il proprio centro a sud, verso Nichelino, dove gli operai ereggono decine di barricate ed impegnano strenuamente e coraggiosamente la polizia.
Il bilancio finale vedrà circa duecento fermati, 29 arresti, un centinaio di agenti feriti, mentre ben pochi fra dimostranti si recano presso gli ospedali a farsi curare, per il timore di essere fermati dalla polizia.
Il bilancio del ’69 alla Fiat è un bollettino di guerra: milioni di ore di sciopero, quasi 300.000 veicoli perduti, boom delle vendite di auto straniere. Per la prima volta dal dopoguerra la produzione è in rosso. La pace sociale è infranta. Ai trucchi per allentare i ritmi si affiancano veri e propri sabotaggi, che l’azienda non può reprimere. Per anni hanno comandato gli ingegneri, con un solo imperativo: produrre. Inserire braccia nell’azienda, senza badare al potenziale di conflittualità che la fabbrica dura e sovraffollata andava accumulando.
Con la nuova stagione la direzione del personale diventa l’area strategica dell’azienda, perché dagli accordi sindacali dipende il funzionamento della fabbrica. La produzione non è più in mano agli ingegneri, ma ai capi del personale. Il nuovo corso porta in Fiat trentenni che fronteggiano l’esplosione con elasticità e fermezza. Nasce allora l’idea, fino a quel momento del tutto estranea alla cultura di corso Marconi, che il sindacato possa essere ‘corresponsabilizzato’. <32 Decisivo è l’avvento di Umberto Agnelli, che diventa amministratore delegato nel dicembre del ’71. Il conflitto industriale alla Fiat rafforza così una nuova generazione di manager, uniti dalla convinzione di dover trovare vie negoziali per riuscire a governare il conflitto.
L’assemblea operai-studenti riunitasi agli inizi del luglio ’69 dopo gli scontri di Corso Traiano decide di indire per il 26-27 luglio il 1° Convegno Nazionale delle avanguardie operaie al Palazzetto dello Sport di Torino per concordare una linea comune diversa da quella del sindacato in vista della trattativa per il nuovo contratto per i metalmeccanici. Qui si consumerà la rottura definitiva tra il gruppo della Classe e la componente dei toscani e dei torinesi. Quest’ultima componente darà vita, nel settembre 1969, al gruppo della sinistra extraparlamentare Lotta Continua.
Dopo l’estate, Mirafiori si infiamma subito: tremila operai in sciopero selvaggio. Il giorno dopo la Fiat annuncia nuove sospensioni. Il 7 lo sciopero rientra, ma partono le agitazioni per il contratto dei metalmeccanici. La conflittualità si estende alle grandi fabbriche del Nord. Girando l’Italia, ci si accorgeva che Mirafiori era diventata un mito insieme a Lotta Continua; i giornali però ne parlavano male, sottolineandone gli episodi violenti.
Nel gennaio 1970 nasce il primo embrione di coordinamento nazionale, composto da delegati che ruotano di continuo. Nelle singole sedi l’organizzazione si struttura in nuclei di fabbrica, di scuola, di quartiere, che si riuniscono in assemblea. Spesso hanno diritto di parola soltanto gli operai, che vengono anche incaricati di tenere assemblee nelle scuole o comizi in altre città. ‘L’operaio di Lc, non era il quadro del sindacato o del Pci, quello che aveva studiato, parlava bene, veniva apprezzato anche dal padrone. Era il proletario, quello che quando interveniva alle assemblee suscitava le risate degli studenti, perché sbagliava a pronunciare le parole. Molti di quegli operai immigrati, non erano come li considerava il Pci braccia da educare alla politica, ma avevano parecchio in comune con gli studenti’. <33
Dopo le vacanze del ’69 studenti e intellettuali si dividono sulle forme da dare all’organizzazione. Piperno, Negri e Scalzone pensano a un partito-guida sul modello leninista; Sofri insiste sulla sua idea di collegare le avanguardie interne, e progetta un giornale nazionale, che si chiamerà Lotta continua. Ma i suoi interlocutori hanno già una testata, “La classe”, che a settembre viene ribattezzata Potere operaio. Non solo rifiutano di lavorare con Sofri, ma vorrebbero impedirgli di usare l’intestazione dei volantini che hanno scandito la battaglia di Mirafiori.
La rottura è definitiva. Se ne vanno i capi di Potere operaio, se ne va Vittorio Rieser, che fonderà il Collettivo Lenin per poi confluire in Avanguardia operaia con i Comitati unitari di base delle fabbriche lombarde. Resta la sigla, Lotta continua. Invano Scalzone e Negri ne contestano l’uso a Sofri e ai suoi. Sarà questa la testata del giornale, che uscirà. Lotta continua è l’ultimo dei gruppi della nuova sinistra a organizzarsi. E lo fa attraverso un giornale, che dovrà aggregare la parte più ampia possibile del movimento nato dal Sessantotto e le decine di collettivi di operai e studenti dispersi in tutta Italia.
E’ Guido Viale che registra il titolo alla Camera di commercio di Milano e a scrivere con Luigi Bobbio, il numero zero. Sofri ne è entusiasta e propone di farlo uscire ogni settimana.
[NOTE]
26 Ivi, p.56-57
27 N. Balestrini, P. Moroni, L’orda d’oro, 1968-1977. La grande ondata rivoluzionaria e creativa, politica ed esistenziale, Feltrinelli, Milano 1997, p. 370
28 Testimonianza resa all’autore a Pisa il 25 novembre 2013
29 Cazzullo, op. cit., p. 59
30 N. Balestrini, Vogliamo tutto, Feltrinelli, Milano, 2004
31 D. Giachetti, Il giorno più lungo. La rivolta di corso Traiano (Torino, 3 luglio 1969), BFS, Pisa, 1997
32 Cazzullo, op. cit., p. 76
33 Ivi, p. 83
Pierluigi Caputo, Lotta continua e Partito comunista. Il caso pisano (1969-1976), Tesi di laurea, Università degli Studi di Pisa, Anno Accademico 2012-2013
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