In alta Val Taro protagonisti dell’attività di guerriglia furono i gruppi autonomi

Bardi (PR). Foto: Filippo Aneli su Wikipedia

All’inizio dell’estate del 1944 le alte valli del Taro e del Ceno, situate nell’Appennino occidentale Parmense al confine con la provincia di Piacenza, la Liguria e la Toscana, si trovavano ormai in larga parte sotto il controllo militare delle formazioni partigiane. Durante i primi sei mesi del 1944 «l’esercito partigiano» era cresciuto sia per numero di effettivi che per capacità militare. Superate le difficoltà iniziali – carenza di cibo, di armi e il costante pericolo di essere catturati – tutti ostacoli che sembravano dover limitare lo sviluppo della guerriglia sui monti dell’Appennino, i primi distaccamenti e gruppi di «ribelli» si trasformarono in pochi mesi in formazioni strutturate capaci di passare all’offensiva contro le postazioni nemiche. In alta val Ceno l’afflusso di uomini provenienti da Parma e dagli altri centri della valle, organizzati dal Partito comunista, che si aggiunsero ai giovani renitenti e disertori nativi di quei luoghi fecero del monte Barigazzo e dell’alta valle uno tra i maggiori centri di sviluppo della guerriglia in Emilia settentrionale. Territorio della 12a Brigata Garibaldi che aveva tra le sue fila molti giovani provenienti dal capoluogo e dalla pianura, «forestieri», portatori di mentalità, di abitudini e di idee politiche distanti da quelle che regolavano tradizionalmente la convivenza in quei luoghi. Giovani «ribelli» che chiedevano di essere ospitati e sfamati, e che facevano presagire possibili scenari di guerra e di violenza mai sperimentati prima in quelle terre, finendo per suscitare non solo diffidenza e fastidio tra le comunità locali ma anche paura e insicurezza. Una presenza che in alcuni settori della popolazione venne vissuta come una sorta di occupazione, creando i presupposti per una futura memoria antipartigiana che si sarebbe sedimentata nel tempo in una parte delle comunità a partire dall’indomani del 1945.
Per tutta la lotta di liberazione Bardi rappresentò comunque, per i garibaldini, una delle loro «piccole capitali». Fu nel villaggio di Osacca – Val Noveglia – a pochi chilometri dal centro dell’alta Val Ceno che si consumò il primo scontro a fuoco tra partigiani e fascisti, il giorno di Natale 1943, segnando l’avvio dello scontro armato e della guerra civile nel Parmense. È proprio a Bardi che reparti e combattenti colpiti da rastrellamenti e attacchi nemici si sarebbero riparati, anche dal Piacentino e dalle valli sul versante ligure; e da lì il comando della 12a Brigata Garibaldi (dalla quale sarebbero sorte tutte le altre che operarono nel Parmense) avrebbe condotto e organizzato le molteplici fasi della lotta fino alla liberazione definitiva.
Diversa la situazione in alta Val Taro dove protagonisti dell’attività di guerriglia furono i gruppi autonomi che si erano formati sul finire del 1943 e consolidati nella primavera del 1944, dando vita in estate alla 1a Brigata Julia, al Gruppo Centocroci, alla Brigata Beretta e ad alcuni altri distaccamenti e gruppi autonomi. Proprio per la forte presenza di combattenti nativi di quelle valli e per i loro legami con le comunità contadine l’insediamento della Resistenza si sarebbe rivelato assai più armonioso, favorito anche dal sostegno decisivo, sia nella fase di mobilitazione delle prime bande che nel sostegno per il prosieguo della lotta, da alcune figure autorevoli tra cui numerosi parroci. Inoltre va ricordato come le diverse formazioni partigiane autonome manifestarono la loro contrarietà ad una eccessiva politicizzazione della Resistenza e il loro fastidio verso le brigate Garibaldi, soprattutto quando penetravano nel loro territorio. Più inclini a interpretare la lotta di liberazione nei suoi aspetti militari e patriottici, i primi gruppi si erano infatti costituiti attorno ad alcune figure del posto, ex ufficiali e sotto-ufficiali, manifestando tiepidezza verso l’autorità espressa dal Cln provinciale.
Già da diversi mesi i distaccamenti garibaldini e i gruppi autonomi controllavano larga parte delle alte valli, mentre contingenti fascisti e tedeschi presidiavano i principali centri abitati, primi fra tutti Borgotaro, Bedonia e Bardi. La consapevolezza di avere mezzi e capacità per dare l’assalto ai presidi nemici non aveva fatto altro che alimentare il desiderio crescente tra i combattenti antifascisti di passare all’azione. Frenati fino a quel momento dai comandi superiori e dalle indicazioni dei centri politici clandestini di riferimento, consapevoli che una volta eliminati i presidi repubblicani e cacciati i reparti tedeschi le «terre liberate» andavano necessariamente difese, i partigiani non smisero di immaginare una azione corale per liberare le «loro» terre. Le perplessità di una parte dei comandi e dei dirigenti politici nascevano dalla consapevolezza che la liberazione avrebbe costretto le formazioni partigiane a forme di difesa statiche, snaturando di fatto una delle prerogative essenziali dell’azione di guerriglia che li aveva portati al successo in numerose azioni in quelle ultime settimane. Le formazioni partigiane si sarebbero trovate costrette a difendere un ampio settore del territorio appenninico senza averne la reale possibilità, esponendo le comunità contadine all’inevitabile reazione violenta dei fascisti e dei tedeschi.
Ciò risultava particolarmente vero per l’alta Val Taro, vista la presenza di vie di comunicazione considerate vitali dall’esercito d’occupazione e con infrastrutture strategiche per i collegamenti tra la pianura e il fronte di guerra, prime fra tutte la stazione ferroviaria e la galleria del Borgallo a Borgotaro.
Dopo mesi trascorsi spostandosi tra boschi e pendii, lungo i monti che sovrastavano quelli che per una parte dei partigiani erano i paesi natii, per molti era giunto il momento di ritornare a casa da «liberatori». Sotto il profilo strettamente militare, i comandi si illudevano nell’ipotesi – sempre più convincente – che l’avanzata alleata avrebbe consentito alle armate anglo-americane di raggiungere il crinale appenninico prima dell’inverno. A quel punto gli eserciti alleati avrebbero trovato larga parte del versante emiliano dell’Appennino già controllato dai partigiani e la liberazione delle valli sarebbe diventata definitiva. Come sappiamo le cose andarono diversamente e invece dei liberatori a metà luglio sarebbero giunti i reparti tedeschi in rastrellamento.
Nelle settimane che precedettero la nascita dei «territori liberi», avvenuta nella seconda metà di giugno 1944, il numero degli effettivi e gli assetti militari della Resistenza subirono una robusta accelerazione, sospinta innanzitutto dal grande flusso di uomini che continuavano a raggiungere le alte valli in seguito alla chiusura del bando Graziani il 25 maggio e della liberazione di Roma il 4 giugno, ma anche dallo slancio impresso all’avanzata alleata verso nord. Alla fine di giugno in Val Ceno la 12a Brigata Garibaldi contava circa 500 partigiani, mentre le formazioni distribuite in Val Taro raggiungevano le 480 unità circa. Un migliaio di uomini animati dal desiderio di passare all’offensiva e avviare la liberazione a partire dalle loro valli.
Ad aumentare le differenze tra le esperienze che si stavano consumando nelle due vallate, l’arrivo in Val Taro all’inizio di giugno di Pietro Lavani “colonnello Lucidi”, inviato dal comando militare di Milano con il compito di ispezionare le formazioni partigiane in alta valle e di valutarne l’efficienza. Accolto con interesse dai comandi partigiani delle diverse formazioni «autonome», il colonnello Lavani, probabile agente del Servizio informazioni militari del governo Badoglio e vicino a Raffaele Cadorna, mostrò fin da subito di essere lì con altri scopi. Andando oltre l’incarico ricevuto, nei numerosi incontri avuti con i gruppi partigiani sparsi nelle diverse località propose ai comandanti l’unificazione delle diverse formazioni della Val Taro in quella che doveva diventare, nei suoi programmi, la Divisione Nuova Italia, collegata politicamente con la Democrazia cristiana.
L’iniziativa, in un primo tempo, sembrò avere successo: a Compiano – comune dell’alta valle – venne creato il Comando di Compiano, che avrebbe dovuto garantire una più equa distribuzione degli armamenti e una migliore organizzazione degli approvvigionamenti e finanziamenti alle diverse formazioni, fino ad arrivare a costituire una cassa unica gestita dal Comando. Un progetto che certamente faceva progredire l’organizzazione militare delle formazioni in valle e li dotava di un riferimento politico in grado di garantire assistenza, rifornimenti e peso politico negli organismi collegiali della Resistenza.
Non mancarono però le difficoltà. L’armonia all’interno del coordinamento non era sempre rispettata e i contrasti tra i diversi comandanti rese incerta la costituzione della Divisione, le cui sorti si sarebbero legate, a partire dalla metà di giugno, alle sorti del «territorio libero del Taro». Anche in questo il colonnello Lucidi ebbe un ruolo chiave nel determinare forma e conduzione della zona libera, riconducendola all’interno del suo progetto politico di unificare le formazioni partigiane operanti in alta valle sotto la tutela del Partito della democrazia cristiana.
Il progetto dovette anche fare i conti con il Comando di Milano. Ovviamente la sua attività non sarebbe passata inosservata ai comandi garibaldini e l’intervento del Comando del Corpo volontari della libertà (Cvl) non avrebbe tardato ad arrivare, censurando l’operato del colonnello Lucidi per aver ampiamente travalicato i compiti ispettivi assegnatigli. Ciò che sarebbe accaduto poi è difficile da stabilire. All’inizio dell’estate del 1944 le alte valli del Taro e del Ceno, situate nell’Appennino occidentale Parmense al confine con la provincia di Piacenza, la Liguria e la Toscana, si trovavano ormai in larga parte sotto il controllo militare delle formazioni partigiane. Durante i primi sei mesi del 1944 «l’esercito partigiano» era cresciuto sia per numero di effettivi che per capacità militare. Superate le difficoltà iniziali – carenza di cibo, di armi e il costante pericolo di essere catturati – tutti ostacoli che sembravano dover limitare lo sviluppo della guerriglia sui monti dell’Appennino, i primi distaccamenti e gruppi di «ribelli» si trasformarono in pochi mesi in formazioni strutturate capaci di passare all’offensiva contro le postazioni nemiche. In alta val Ceno l’afflusso di uomini provenienti da Parma e dagli altri centri della valle, organizzati dal Partito comunista, che si aggiunsero ai giovani renitenti e disertori nativi di quei luoghi fecero del monte Barigazzo e dell’alta valle uno tra i maggiori centri di sviluppo della guerriglia in Emilia settentrionale. Territorio della 12a Brigata Garibaldi che aveva tra le sue fila molti giovani provenienti dal capoluogo e dalla pianura, «forestieri», portatori di mentalità, di abitudini e di idee politiche distanti da quelle che regolavano tradizionalmente la convivenza in quei luoghi. Giovani «ribelli» che chiedevano di essere ospitati e sfamati, e che facevano presagire possibili scenari di guerra e di violenza mai sperimentati prima in quelle terre, finendo per suscitare non solo diffidenza e fastidio tra le comunità locali ma anche paura e insicurezza. Una presenza che in alcuni settori della popolazione venne vissuta come una sorta di occupazione, creando i presupposti per una futura memoria antipartigiana che si sarebbe sedimentata nel tempo in una parte delle comunità a partire dall’indomani del 1945.
Per tutta la lotta di liberazione Bardi rappresentò comunque, per i garibaldini, una delle loro «piccole capitali». Fu nel villaggio di Osacca – Val Noveglia – a pochi chilometri dal centro dell’alta Val Ceno che si consumò il primo scontro a fuoco tra partigiani e fascisti, il giorno di Natale 1943, segnando l’avvio dello scontro armato e della guerra civile nel Parmense. È proprio a Bardi che reparti e combattenti colpiti da rastrellamenti e attacchi nemici si sarebbero riparati, anche dal Piacentino e dalle valli sul versante ligure; e da lì il comando della 12a Brigata Garibaldi (dalla quale sarebbero sorte tutte le altre che operarono nel Parmense) avrebbe condotto e organizzato le molteplici fasi della lotta fino alla liberazione definitiva.
Diversa la situazione in alta Val Taro dove protagonisti dell’attività di guerriglia furono i gruppi autonomi che si erano formati sul finire del 1943 e consolidati nella primavera del 1944, dando vita in estate alla 1a Brigata Julia, al Gruppo Centocroci, alla Brigata Beretta e ad alcuni altri distaccamenti e gruppi autonomi. Proprio per la forte presenza di combattenti nativi di quelle valli e per i loro legami con le comunità contadine l’insediamento della Resistenza si sarebbe rivelato assai più armonioso, favorito anche dal sostegno decisivo, sia nella fase di mobilitazione delle prime bande che nel sostegno per il prosieguo della lotta, da alcune figure autorevoli tra cui numerosi parroci. Inoltre va ricordato come le diverse formazioni partigiane autonome manifestarono la loro contrarietà ad una eccessiva politicizzazione della Resistenza e il loro fastidio verso le brigate Garibaldi, soprattutto quando penetravano nel loro territorio. Più inclini a interpretare la lotta di liberazione nei suoi aspetti militari e patriottici, i primi gruppi si erano infatti costituiti attorno ad alcune figure del posto, ex ufficiali e sotto-ufficiali, manifestando tiepidezza verso l’autorità espressa dal Cln provinciale.
Già da diversi mesi i distaccamenti garibaldini e i gruppi autonomi controllavano larga parte delle alte valli, mentre contingenti fascisti e tedeschi presidiavano i principali centri abitati, primi fra tutti Borgotaro, Bedonia e Bardi. La consapevolezza di avere mezzi e capacità per dare l’assalto ai presidi nemici non aveva fatto altro che alimentare il desiderio crescente tra i combattenti antifascisti di passare all’azione. Frenati fino a quel momento dai comandi superiori e dalle indicazioni dei centri politici clandestini di riferimento, consapevoli che una volta eliminati i presidi repubblicani e cacciati i reparti tedeschi le «terre liberate» andavano necessariamente difese, i partigiani non smisero di immaginare una azione corale per liberare le «loro» terre. Le perplessità di una parte dei comandi e dei dirigenti politici nascevano dalla consapevolezza che la liberazione avrebbe costretto le formazioni partigiane a forme di difesa statiche, snaturando di fatto una delle prerogative essenziali dell’azione di guerriglia che li aveva portati al successo in numerose azioni in quelle ultime settimane. Le formazioni partigiane si sarebbero trovate costrette a difendere un ampio settore del territorio appenninico senza averne la reale possibilità, esponendo le comunità contadine all’inevitabile reazione violenta dei fascisti e dei tedeschi.
Ciò risultava particolarmente vero per l’alta Val Taro, vista la presenza di vie di comunicazione considerate vitali dall’esercito d’occupazione e con infrastrutture strategiche per i collegamenti tra la pianura e il fronte di guerra, prime fra tutte la stazione ferroviaria e la galleria del Borgallo a Borgotaro.
Dopo mesi trascorsi spostandosi tra boschi e pendii, lungo i monti che sovrastavano quelli che per una parte dei partigiani erano i paesi natii, per molti era giunto il momento di ritornare a casa da «liberatori». Sotto il profilo strettamente militare, i comandi si illudevano nell’ipotesi – sempre più convincente – che l’avanzata alleata avrebbe consentito alle armate anglo-americane di raggiungere il crinale appenninico prima dell’inverno. A quel punto gli eserciti alleati avrebbero trovato larga parte del versante emiliano dell’Appennino già controllato dai partigiani e la liberazione delle valli sarebbe diventata definitiva. Come sappiamo le cose andarono diversamente e invece dei liberatori a metà luglio sarebbero giunti i reparti tedeschi in rastrellamento.
Nelle settimane che precedettero la nascita dei «territori liberi», avvenuta nella seconda metà di giugno 1944, il numero degli effettivi e gli assetti militari della Resistenza subirono una robusta accelerazione, sospinta innanzitutto dal grande flusso di uomini che continuavano a raggiungere le alte valli in seguito alla chiusura del bando Graziani il 25 maggio e della liberazione di Roma il 4 giugno, ma anche dallo slancio impresso all’avanzata alleata verso nord. Alla fine di giugno in Val Ceno la 12a Brigata Garibaldi contava circa 500 partigiani, mentre le formazioni distribuite in Val Taro raggiungevano le 480 unità circa. Un migliaio di uomini animati dal desiderio di passare all’offensiva e avviare la liberazione a partire dalle loro valli.
Ad aumentare le differenze tra le esperienze che si stavano consumando nelle due vallate, l’arrivo in Val Taro all’inizio di giugno di Pietro Lavani “colonnello Lucidi”, inviato dal comando militare di Milano con il compito di ispezionare le formazioni partigiane in alta valle e di valutarne l’efficienza. Accolto con interesse dai comandi partigiani delle diverse formazioni «autonome», il colonnello Lavani, probabile agente del Servizio informazioni militari del governo Badoglio e vicino a Raffaele Cadorna, mostrò fin da subito di essere lì con altri scopi. Andando oltre l’incarico ricevuto, nei numerosi incontri avuti con i gruppi partigiani sparsi nelle diverse località propose ai comandanti l’unificazione delle diverse formazioni della Val Taro in quella che doveva diventare, nei suoi programmi, la Divisione Nuova Italia, collegata politicamente con la Democrazia cristiana.
L’iniziativa, in un primo tempo, sembrò avere successo: a Compiano – comune dell’alta valle – venne creato il Comando di Compiano, che avrebbe dovuto garantire una più equa distribuzione degli armamenti e una migliore organizzazione degli approvvigionamenti e finanziamenti alle diverse formazioni, fino ad arrivare a costituire una cassa unica gestita dal Comando. Un progetto che certamente faceva progredire l’organizzazione militare delle formazioni in valle e li dotava di un riferimento politico in grado di garantire assistenza, rifornimenti e peso politico negli organismi collegiali della Resistenza.
Non mancarono però le difficoltà. L’armonia all’interno del coordinamento non era sempre rispettata e i contrasti tra i diversi comandanti rese incerta la costituzione della Divisione, le cui sorti si sarebbero legate, a partire dalla metà di giugno, alle sorti del «territorio libero del Taro». Anche in questo il colonnello Lucidi ebbe un ruolo chiave nel determinare forma e conduzione della zona libera, riconducendola all’interno del suo progetto politico di unificare le formazioni partigiane operanti in alta valle sotto la tutela del Partito della democrazia cristiana.
Il progetto dovette anche fare i conti con il Comando di Milano. Ovviamente la sua attività non sarebbe passata inosservata ai comandi garibaldini e l’intervento del Comando del Corpo volontari della libertà (Cvl) non avrebbe tardato ad arrivare, censurando l’operato del colonnello Lucidi per aver ampiamente travalicato i compiti ispettivi assegnatigli. Ciò che sarebbe accaduto poi è difficile da stabilire. All’inizio dell’estate del 1944 le alte valli del Taro e del Ceno, situate nell’Appennino occidentale Parmense al confine con la provincia di Piacenza, la Liguria e la Toscana, si trovavano ormai in larga parte sotto il controllo militare delle formazioni partigiane. Durante i primi sei mesi del 1944 «l’esercito partigiano» era cresciuto sia per numero di effettivi che per capacità militare. Superate le difficoltà iniziali – carenza di cibo, di armi e il costante pericolo di essere catturati – tutti ostacoli che sembravano dover limitare lo sviluppo della guerriglia sui monti dell’Appennino, i primi distaccamenti e gruppi di «ribelli» si trasformarono in pochi mesi in formazioni strutturate capaci di passare all’offensiva contro le postazioni nemiche. In alta val Ceno l’afflusso di uomini provenienti da Parma e dagli altri centri della valle, organizzati dal Partito comunista, che si aggiunsero ai giovani renitenti e disertori nativi di quei luoghi fecero del monte Barigazzo e dell’alta valle uno tra i maggiori centri di sviluppo della guerriglia in Emilia settentrionale. Territorio della 12a Brigata Garibaldi che aveva tra le sue fila molti giovani provenienti dal capoluogo e dalla pianura, «forestieri», portatori di mentalità, di abitudini e di idee politiche distanti da quelle che regolavano tradizionalmente la convivenza in quei luoghi. Giovani «ribelli» che chiedevano di essere ospitati e sfamati, e che facevano presagire possibili scenari di guerra e di violenza mai sperimentati prima in quelle terre, finendo per suscitare non solo diffidenza e fastidio tra le comunità locali ma anche paura e insicurezza. Una presenza che in alcuni settori della popolazione venne vissuta come una sorta di occupazione, creando i presupposti per una futura memoria antipartigiana che si sarebbe sedimentata nel tempo in una parte delle comunità a partire dall’indomani del 1945.
Per tutta la lotta di liberazione Bardi rappresentò comunque, per i garibaldini, una delle loro «piccole capitali». Fu nel villaggio di Osacca – Val Noveglia – a pochi chilometri dal centro dell’alta Val Ceno che si consumò il primo scontro a fuoco tra partigiani e fascisti, il giorno di Natale 1943, segnando l’avvio dello scontro armato e della guerra civile nel Parmense. È proprio a Bardi che reparti e combattenti colpiti da rastrellamenti e attacchi nemici si sarebbero riparati, anche dal Piacentino e dalle valli sul versante ligure; e da lì il comando della 12a Brigata Garibaldi (dalla quale sarebbero sorte tutte le altre che operarono nel Parmense) avrebbe condotto e organizzato le molteplici fasi della lotta fino alla liberazione definitiva.
Diversa la situazione in alta Val Taro dove protagonisti dell’attività di guerriglia furono i gruppi autonomi che si erano formati sul finire del 1943 e consolidati nella primavera del 1944, dando vita in estate alla 1a Brigata Julia, al Gruppo Centocroci, alla Brigata Beretta e ad alcuni altri distaccamenti e gruppi autonomi. Proprio per la forte presenza di combattenti nativi di quelle valli e per i loro legami con le comunità contadine l’insediamento della Resistenza si sarebbe rivelato assai più armonioso, favorito anche dal sostegno decisivo, sia nella fase di mobilitazione delle prime bande che nel sostegno per il prosieguo della lotta, da alcune figure autorevoli tra cui numerosi parroci. Inoltre va ricordato come le diverse formazioni partigiane autonome manifestarono la loro contrarietà ad una eccessiva politicizzazione della Resistenza e il loro fastidio verso le brigate Garibaldi, soprattutto quando penetravano nel loro territorio. Più inclini a interpretare la lotta di liberazione nei suoi aspetti militari e patriottici, i primi gruppi si erano infatti costituiti attorno ad alcune figure del posto, ex ufficiali e sotto-ufficiali, manifestando tiepidezza verso l’autorità espressa dal Cln provinciale.
Già da diversi mesi i distaccamenti garibaldini e i gruppi autonomi controllavano larga parte delle alte valli, mentre contingenti fascisti e tedeschi presidiavano i principali centri abitati, primi fra tutti Borgotaro, Bedonia e Bardi. La consapevolezza di avere mezzi e capacità per dare l’assalto ai presidi nemici non aveva fatto altro che alimentare il desiderio crescente tra i combattenti antifascisti di passare all’azione. Frenati fino a quel momento dai comandi superiori e dalle indicazioni dei centri politici clandestini di riferimento, consapevoli che una volta eliminati i presidi repubblicani e cacciati i reparti tedeschi le «terre liberate» andavano necessariamente difese, i partigiani non smisero di immaginare una azione corale per liberare le «loro» terre. Le perplessità di una parte dei comandi e dei dirigenti politici nascevano dalla consapevolezza che la liberazione avrebbe costretto le formazioni partigiane a forme di difesa statiche, snaturando di fatto una delle prerogative essenziali dell’azione di guerriglia che li aveva portati al successo in numerose azioni in quelle ultime settimane. Le formazioni partigiane si sarebbero trovate costrette a difendere un ampio settore del territorio appenninico senza averne la reale possibilità, esponendo le comunità contadine all’inevitabile reazione violenta dei fascisti e dei tedeschi.
Ciò risultava particolarmente vero per l’alta Val Taro, vista la presenza di vie di comunicazione considerate vitali dall’esercito d’occupazione e con infrastrutture strategiche per i collegamenti tra la pianura e il fronte di guerra, prime fra tutte la stazione ferroviaria e la galleria del Borgallo a Borgotaro.
Dopo mesi trascorsi spostandosi tra boschi e pendii, lungo i monti che sovrastavano quelli che per una parte dei partigiani erano i paesi natii, per molti era giunto il momento di ritornare a casa da «liberatori». Sotto il profilo strettamente militare, i comandi si illudevano nell’ipotesi – sempre più convincente – che l’avanzata alleata avrebbe consentito alle armate anglo-americane di raggiungere il crinale appenninico prima dell’inverno. A quel punto gli eserciti alleati avrebbero trovato larga parte del versante emiliano dell’Appennino già controllato dai partigiani e la liberazione delle valli sarebbe diventata definitiva. Come sappiamo le cose andarono diversamente e invece dei liberatori a metà luglio sarebbero giunti i reparti tedeschi in rastrellamento.
Nelle settimane che precedettero la nascita dei «territori liberi», avvenuta nella seconda metà di giugno 1944, il numero degli effettivi e gli assetti militari della Resistenza subirono una robusta accelerazione, sospinta innanzitutto dal grande flusso di uomini che continuavano a raggiungere le alte valli in seguito alla chiusura del bando Graziani il 25 maggio e della liberazione di Roma il 4 giugno, ma anche dallo slancio impresso all’avanzata alleata verso nord. Alla fine di giugno in Val Ceno la 12a Brigata Garibaldi contava circa 500 partigiani, mentre le formazioni distribuite in Val Taro raggiungevano le 480 unità circa. Un migliaio di uomini animati dal desiderio di passare all’offensiva e avviare la liberazione a partire dalle loro valli.
Ad aumentare le differenze tra le esperienze che si stavano consumando nelle due vallate, l’arrivo in Val Taro all’inizio di giugno di Pietro Lavani “colonnello Lucidi”, inviato dal comando militare di Milano con il compito di ispezionare le formazioni partigiane in alta valle e di valutarne l’efficienza. Accolto con interesse dai comandi partigiani delle diverse formazioni «autonome», il colonnello Lavani, probabile agente del Servizio informazioni militari del governo Badoglio e vicino a Raffaele Cadorna, mostrò fin da subito di essere lì con altri scopi. Andando oltre l’incarico ricevuto, nei numerosi incontri avuti con i gruppi partigiani sparsi nelle diverse località propose ai comandanti l’unificazione delle diverse formazioni della Val Taro in quella che doveva diventare, nei suoi programmi, la Divisione Nuova Italia, collegata politicamente con la Democrazia cristiana.
L’iniziativa, in un primo tempo, sembrò avere successo: a Compiano – comune dell’alta valle – venne creato il Comando di Compiano, che avrebbe dovuto garantire una più equa distribuzione degli armamenti e una migliore organizzazione degli approvvigionamenti e finanziamenti alle diverse formazioni, fino ad arrivare a costituire una cassa unica gestita dal Comando. Un progetto che certamente faceva progredire l’organizzazione militare delle formazioni in valle e li dotava di un riferimento politico in grado di garantire assistenza, rifornimenti e peso politico negli organismi collegiali della Resistenza.
Non mancarono però le difficoltà. L’armonia all’interno del coordinamento non era sempre rispettata e i contrasti tra i diversi comandanti rese incerta la costituzione della Divisione, le cui sorti si sarebbero legate, a partire dalla metà di giugno, alle sorti del «territorio libero del Taro». Anche in questo il colonnello Lucidi ebbe un ruolo chiave nel determinare forma e conduzione della zona libera, riconducendola all’interno del suo progetto politico di unificare le formazioni partigiane operanti in alta valle sotto la tutela del Partito della democrazia cristiana.
Il progetto dovette anche fare i conti con il Comando di Milano. Ovviamente la sua attività non sarebbe passata inosservata ai comandi garibaldini e l’intervento del Comando del Corpo volontari della libertà (Cvl) non avrebbe tardato ad arrivare, censurando l’operato del colonnello Lucidi per aver ampiamente travalicato i compiti ispettivi assegnatigli. Ciò che sarebbe accaduto poi è difficile da stabilire.
Marco Minardi, «Terranostra». I territori liberi delle alte valli del Taro e del Ceno. Estate 1944 in (a cura di) Roberta Mira e Toni Rovatti, «Il paradosso dello Stato nello Stato». Realtà e rappresentazione delle zone libere partigiane in Emilia Romagna, E-Review Dossier 3, 2015XXX

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