Il bilancio dell’azione comune organizzata dalle formazioni partigiane della bassa Valle di Susa il 26 giugno fu dunque negativo

Le bande della Val di Susa e della Val Sangone concordarono una tattica comune per colpire i punti nevralgici delle rispettive zone d’influenza: la 17a brigata Garibaldi “Felice Cima” avrebbe dovuto puntare su Rivoli, per occupare il presidio del castello, controllare le due carrozzabili e la linea ferroviaria; la 41a brigata Garibaldi “Carlo Carli” avrebbe attaccato il dinamitificio Nobel-Allemandi di Avigliana mentre una parte degli Autonomi al comando di Sergio De Vitis avrebbe occupato la polveriera di Sangano, gli altri sarebbero rimasti in postazione pronti ad intervenire tra Sangano e Avigliana; la 42a brigata Garibaldi “Walter Fontan” avrebbe attaccato il presidio di Bussoleno bloccandone la ferrovia; le bande della Val Chisone e delle Valli di Lanzo si sarebbero impegnate a compiere azioni nei centri principali (Pinerolo, Viù, Castellamonte) per tenere occupate i presidi nemici in quelle valli.
Il comando della 17a brigata Garibaldi iniziò la sua marcia di trasferimento verso il castello di Rivoli il 25 giugno 1944. Per raggiungere il castello bisognava percorre 24 Km allo scoperto. Il tragitto presentava una considerevole somma di pericoli: l’attraversamento della Dora, della ferrovia e soprattutto delle due statali 24 e 25 fortemente presidiate dai nazifascisti. Un gruppo di partigiani, comandato da Oreste Ferrero, ebbe il compito di bloccare a tutti i costi il transito di truppe nemiche. Per ciò la sua squadra si appostò nelle vicinanze del castello di Camerletto, vicino a Caselette, piazzando potenti mine ai lati della strada per interromperla in caso di necessità. Un’altra squadra fece lo stesso sull’altra statale percorribile in valle, interrompendola con numerosi alberi e minandola. Una grossa corriera, prelevata dalla ditta Giradi, venne infine utilizzata per il trasporto dell’artiglieria pesante e del materiale plastico. Quando il carico di armi giunse alla Rocca della Maddalena (al confine tra Rosta e Rivoli), i partigiani scaricarono il materiale e lo divisero fra i vari distaccamenti. Partendo a raggiera dal vecchio mattatoio fino a Fontana Costero, i garibaldini si avvicinarono al castello di Rivoli. Durante la manovra di avvicinamento però partirono accidentalmente dei colpi d’arma da fuoco che misero in allerta il presidio fascista, facendo così sfumare il fattore sorpresa: “all’improvviso il trombettiere del castello suona a più riprese l’allarme e una gragnola di colpi si abbatte sui partigiani. Numerosi nazifascisti scendono nei boschi adiacenti al castello e iniziano furiosi combattimenti corpo a corpo. Palmo a palmo i partigiani giungono a poche centinaia di metri dal castello: lì una miriade di fortilizi, camminamenti, cavalli di frisia, filo spinato ne interrompono l’avanzata. Il fuoco dei nazifascisti costringe i partigiani ad una battaglia di posizione. Maffiodo, Blandino e Kovacich guidano più volte l’attacco. Alle prime luci dell’alba i partigiani non sono riusciti a migliorare le loro posizioni e si trovano nella sfavorevole situazione di dover attaccare allo scoperto. Dopo che un estremo tentativo d’assalto viene respinto da un violento fuoco di sbarramento e compaiono sulla strada alcuni blindati seguiti dai fascisti della Monte Rosa, viene dato l’ordine di ritirarsi. Verso le 8,30 del mattino la 17a brigata Garibaldi “Felice Cima” si sgancia e lentamente raggiunge le sue postazioni sul Col del Lys. Non ha subito perdite, nonostante la durezza dello scontro, ma lascia libera la strada verso Avigliana, dove la 41a brigata Garibaldi “Carlo Carli” stava attaccando contemporaneamente il dinamitificio Nobel-Allemandi e la polveriera Valloia” <215.
Il duplice obiettivo della “Carlo Carli” prevedeva di procurasi armi e munizioni attaccando le fabbriche di esplosivo e allo stesso tempo di costringere i nazifascisti a far affluire in valle rinforzi da Torino che avrebbero dovuto trovare un ostacolo nelle carrozzabili e nella ferrovia presidiate dalla “Felice Cima”. L’operazione però fu condotta sottovalutando le forze nemiche che avevano rinforzato i presidi all’interno dei due importanti impianti per la produzione di materiale bellico. Le guarnigioni, poco dopo l’attacco dei partigiani, furono soccorse da nuove truppe che giunsero da Torino su un treno merci. Superiori in numero e armi, e supportate dalle autoblindo e dai carri armati, le truppe nemiche mutarono rapidamente la situazione a proprio favore. La “Carlo Carli”, per evitare ulteriori perdite, si ritirò in Val Sangone laddove la banda comandata da Sergio De Vitis veniva aggirata ed attaccata alle spalle da un reparto di tedeschi mandati sul posto dal comando di Torino avvertito da un soldato del locale presidio. Gli Autonomi persero dodici uomini, fra cui De Vitis, e la “Carlo Carli” perse il suo comandante Fassino catturato dai nazifascisti. Entrambe le formazioni private dei loro comandanti attraversarono giorni difficili di sbandamento.
Fu così che l’attacco concordato tra le formazioni partigiane delle diverse vallate, in modo particolare fra i comandi delle bande della Val di Susa e della Val Sangone, si risolse in un fallimento. L’esito della giornata non poteva non suscitare polemiche. La responsabilità delle forti perdite subite dalla bande della Val Sangone fu addossata alla 17a brigata Garibaldi “Felice Cima”. Ad essa veniva contestata la mancata effettuazione di alcune azioni determinanti per la riuscita della missione. I treni carichi di nazifascisti che avevano raggiunto Avigliana, costringendo alla ritirata la “Carlo Carli”, sarebbero dovuti essere bloccati a Rivoli dalla 17a brigata Garibaldi, così come i mezzi corazzati che giunsero in valle percorrendo indisturbati le due strade statali. Diversamente dalla “Felice Cima”, la “Walter Fontan” aveva raggiunto il suo obiettivo bloccando il traffico ferroviario da Bussoleno verso Torino. La Gobetti, testimone indiretta di quei fatti perché si trovava a Meana, annotava nel suo diario in data 26 giugno: “i partigiani (evidentemente i garibaldini della bassa e media valle) avevano attaccato in forze Bussoleno e fatto saltare il ponte della ferrovia sotto il naso dei tedeschi. Salimmo sul Truc, la montagna che c’è dietro casa, e dall’alto vedemmo il ponte interrotto: dalla valle giungevano clamori, scoppi, colpi di mitraglia” <216.
Le gravi accuse mosse contro i garibaldini della 17a brigata si mescolavano a diffidenze personali e a sospetti politici. Non andava trascurato che la maggioranza delle bande riunitesi nella brigata Autonoma Val Sangone erano apolitiche. Inoltre, alla diffidenza che molto spesso intercorreva fra bande di orientamenti diversi, va segnalato che la prima notizia giunta a Nicoletta fu che la 17a brigata Garibaldi non fosse nemmeno scesa verso Rivoli rimanendo attestata sulle proprie posizioni. Tant’è che lo stesso Nicoletta, sentendosi tradito da chi era stato il promotore di un’azione collettiva tra bande partigiane e nel momento dell’azione aveva mandato i suoi uomini allo sbaraglio, diede ordine di fucilare subito, se fosse caduto nelle mani degli Autonomi, “Maiorca” [Pierino Bosco], sul quale fece ricadere tutta la responsabilità dell’accaduto <217. Quella esasperazione della conflittualità tra bande di colori diversi non può essere spiegata solo con le vicende del 26 giugno, ma faceva leva su un’educazione anticomunista che risaliva al ventennio fascista e che era fortemente radicata negli esponenti del regio esercito. Il sospetto nato intorno alla falsa notizia dell’inazione della 17a brigata, che spinse i comandi delle formazioni autonome ad accusare i garibaldini di aver volutamente mandato i propri partigiani allo sbaraglio cercando così di eliminare una formazione di diverso orientamento, cadde nel momento stesso in cui si scoprì che a pagare il prezzo più alto erano stati proprio i garibaldini di Fassino.
A quarant’anni di distanza dai fatti del giugno 1944, lontani dalle atmosfere arroventate di quei giorni, Nicoletta e Maiorca chiarendosi giunsero alla conclusione che le bande partigiane “non avevamo le forze per una manovra tanto ampia, né per tenere le posizioni: anche se gli uomini non mancavano, non c’era l’armamento adatto e i tedeschi, con qualche carro e qualche autoblindo, potevano batterci” <218. Gli uomini non mancavano ed il morale era ottimo in virtù dei successi alleati e della speranza che la fine della guerra fosse davvero alle porte; ma tutto questo non era sufficiente, mancava la capacità organizzative e logistiche per coordinare un’azione che coinvolgeva molte brigate su un territorio così vasto, mancava l’armamento adatto ed era impossibile per un corpo così eterogeneo tenere le posizioni conquistate senza perdite. Abituati ad agire in piccoli gruppi perlopiù indipendenti, i partigiani non percepirono la logica della manovra con centinaia di uomini, dove le funzioni delle singole unità dovevano essere interdipendenti ed il successo nasceva dal sincronismo dei movimenti sul territorio. Il ritiro anticipato della 17a brigata Garibaldi lasciò scoperte le altre formazioni coinvolte nella manovra. La probabile mancanza di un piano di ripiegamento concordato determinò la confusione e lo sbandamento dei gruppi coinvolti nell’azione. Ci furono poi dei fraintendimenti sugli obiettivi militari. La 17a brigata Garibaldi focalizzò la sua azione sul presidio nemico a Rivoli, mentre avrebbe dovuto controllare anche le vie di comunicazione verso la valle. Il fallito attacco al forte di Rivoli cessò con le prime luci dell’alba del 26 giugno. E’ verosimile pensare che durante la ritirata verso il Col del Lys, la 17a brigata Garibaldi tolse i presidi alle vie d’accesso alla Valle di Susa; e che i servizi di staffetta non funzionarono, cosicché i contatti tra le varie formazioni, determinanti per la buona riuscita dell’azione, risultassero insufficienti. I distaccamenti impegnati non riuscirono più a coordinare un’efficiente ritirata. Lo sganciamento avvenne in modo autonomo e i nazifasciti giunti in valle attraverso le strade non più presidiate attaccarono le altre brigate impegnate nell’azione. La giustificazione addotta dai comandanti della 17a brigata Garibaldi scaricava la responsabilità dell’accaduto sui comandi delle squadre della Val Sangone, rei di aver voluto andare oltre l’obiettivo assegnato, e per questo si erano attardati ad occupare le posizioni conquistate quando l’obiettivo era solo di attaccare per distrarre truppe tedesche e farle accorrere da Torino. Una volta raggiunto lo scopo dovevano sganciarsi e ritirarsi in montagna. Questo non fu fatto. Si cercò di resistere e conservare le posizioni conquistate perdendo così molti uomini e due comandanti.
Le polemiche sulle responsabilità del fallito attacco congiunto durarono per molti anni; e nella storia della Resistenza valsusina il 26 giugno divenne una data spartiacque. Da quel momento i partigiani abbandonando le azioni collettive, tornando ai piccoli colpi ed ai sabotaggi: “non abbiamo voluto più saperne né di passare coi Garibaldini, né di combinare azioni in comune, almeno per un po’. E’ stato solo l’intervento di Osvaldo Negarville, più avanti, nell’agosto-settembre, che ha smussato gli spigoli” <219. Si ritornerà, infatti, ad organizzare una manovra comune solo con l’unificazione delle formazioni per l’insurrezione del 25 aprile.
Il bilancio dell’azione comune organizzata dalle formazioni partigiane della bassa Valle di Susa il 26 giugno fu dunque negativo. Il dissolversi delle ottimistiche previsioni suscitate dall’ambiziosa manovra di occupare la bassa Val di Susa finì invece per accentuare gli aspetti più negativi, mettendo in luce fin troppo chiaramente l’impossibilità di reggere il confronto con forze militari “regolari” da parte delle formazioni partigiane. In genere i partigiani erano privi di artiglieria, di riserve di munizioni, di quadri di comando sperimentati, di indispensabili strutture logistiche di collegamento, insomma dei mezzi materiali e della preparazione tecnica indispensabile per la guerra. Senza armi adeguate, senza munizioni, senza reparti organicamente omogenei e tatticamente preparati, senza mezzi logistici non era possibile tenere un fronte così vasto e così importante per i tedeschi come la bassa Valle di Susa. Federico del Boca, partigiano nella 17a brigata che partecipò all’attacco al presidio di Rivoli, nel suo diario ha annotato: “eravamo tutti uomini abbastanza coraggiosi ma non si può affrontare il nemico senza munizioni e noi ne avevamo sempre poche, dovevamo sparare con cautela per non sprecarle; sono convinto che se avessimo avuto più munizioni ben poche volte avremmo dovuto ritirarci; in quel momento io avevo persino la pistola scarica. Purtroppo da noi i lanci americani non furono mai fatti; forse perché voci che circolavano dicevano che eravamo garibaldini? Oppure semplicemente ci ignoravano? Non riuscimmo mai a saperlo” <220.
Da un punto di vista tecnico andava segnalata la difficoltà di compiere aviolanci da parte delle forze alleate su aree ristrette e fortemente presidiate da insediamenti nemici come la Valle di Susa. Questo spiegherebbe la scarsezza dei lanci (lamentata da Del Boca) e l’alta percentuale di dispersione del materiale aviolanciato o di cattura dello stesso da parte dei nemici quando i lanci venivano effettuati. Che poi le ragioni dei mancati aiuti alla 17a brigata Garibaldi non fossero solamente riconducibili a difficoltà di tipo logistico, ma si rifacessero anche a diffidenze ideologiche legate a una scelta continuista e filo-badogliana da parte degli Alleati, non sembrava plausibile solo al partigiano Del Boca, visto che i primi aviolanci alle brigate Garibaldi della bassa Val di Susa avvennero solo in prossimità dell’insurrezione finale. A fronte di ciò la base della dotazione di armi delle formazioni partigiane rimaneva largamente costituita da armamento italiano. Come armi individuali i partigiani disponevano di fucili ’91 e moschetto ’38, in quantità limitata moschetto automatico Beretta Mab e la sua versione ridotta, il cosiddetto “mitra balilla”, bombe a mano tascabili di scarsa potenza, solitamente dell’Oto-Melara, pistole Beretta e pistole tamburo. Come armi di reparto i partigiani disponevano in quantità limitata di mitragliatrici Breda ’37 calibro 8, di grande efficacia ma non di agevole trasporto, fucile mitragliatore Breda ’30 di difficile manutenzione e di facile inceppamento, qualche mortaio e qualche mitragliera calibro 12,7 o calibro 20. L’obsolescenza dell’armamento di fabbricazione italiana a
disposizione dei partigiani faceva si che essi attendessero gli aiuti da parte degli Alleati che costituivano il fondamentale supporto bellico dato alle formazioni partigiane <221.
[NOTE]
214 Raimondo Luraghi, Il movimento operaio torinese durante la Resistenza, Einaudi, Torino 1958, pp. 202-232
215 Alpe, Le grandi battaglie partigiane in pianura, cit., p. 12; cfr. la relazione stilata dal comando della 17a brigata Garibaldi “Felice Cima” su “l’attacco al forte di Rivoli” riportata integralmente nell’allegato B a margine di questo capitolo.
216 Gobetti, Diario partigiano, cit., p. 139
217 Oliva, La Resistenza alla porte di Torino, cit., p. 229
218 Ivi, cit., p. 230
219 Testimonianza di Nicoletta in Ivi, cit., p. 232
220 Federico Del Boca, Il freddo, la paura e la fame, Feltrinelli, Milano 1966, cit., p. 97
221 Renato Sandri, Armamento dei partigiani, in Enzo Collotti, Renato Sandri e Frediano Sessi (a cura di), Dizionario della Resistenza, vol. II, Luoghi, formazioni, protagonisti, Einaudi, Torino 2001, pp. 176,177; infatti con gli aviolanci le formazioni partigiane ricevevano il moschetto automatico statunitense Thompson e la carabina semiautomatica statunitense Winchester, entrambi di rilevante efficacia, pistola mitragliatrice inglese Sten, in quantità considerevole e, comunque, principale oggetto di aviolanci (arma di rozza fabbricazione, non rifinita, ma estremamente maneggevole per leggerezza e facilità di manutenzione, a canna corta e di portata effettiva non superiore ai 60-70 metri, utilizzata su tutti i fronti di guerra dal 1941 dall’esercito inglese), bombe a mano a frammentazione del tipo “ananas” (o Sipe). Nelle brigate spiccavano poi i partigiani in possesso di armi strappate ai tedeschi: tra quelle le Maschine-pistole e pochi fucili mitragliatori Maschine Gevaert-M.G ’42 (arma senza uguali, per la rapidità e precisione del tiro).
Marco Pollano, La 17a Brigata Garibaldi “Felice Cima”. Storia di una formazione partigiana, Tesi di laurea, Università degli Studi di Torino, Anno Accademico 2006-2007

Il 26 giugno veniva attuata l’occupazione della polveriera di Sangano che era stata concordata con Nicoletta dal comandante della “Felice Cima”, che si diceva rappresentare anche il Cln regionale. In realtà come lo stesso Nicoletta ebbe modo di appurare tale decisione era frutto solo di una corrente politica, quella garibaldina, e non di tutto il Cln. A questa azione si univa anche quella alla polveriera Nobel-Allemandi e dinamitificio Valloia in Valle di Susa. Quest’ultima operazione, però, inaspettatamente mise in difficoltà i partigiani per l’arrivo di forze fasciste che catturavano Fassino il capo della “Calo Carli”. Nicoletta vista la situazione creatasi decideva di scendere su Avigliana e mandava una squadra al comando di Cordero di Pamparato verso Trana per bloccare il ponte sul Sangone ed evitare un eventuale aggiramento. Ad Avigliana, come lo stesso Nicoletta ricorderà, era impossibile intervenire per la forza di uomini e armi dei tedeschi. L’attacco tedesco causò la perdita di alcuni partigiani, tra cui Sergio De Vitis, portando Nicoletta alla decisione di ripiegare. L’amarezza di Nicoletta per l’avvenimento fu tanta, soprattutto in relazione alla mancata collaborazione del gruppo dei garibaldini che proprio con lui avevano concordato gli attacchi.
Il 27 giugno i tedeschi tornarono nella zona dei combattimenti e, a Trana, rastrellarono il paese e presero in ostaggio quaranta civili minacciati di fucilazione nel caso non fossero stati consegnati i prigionieri catturati il 26 a Sangano. Il medico condotto e il parroco rintracciarono Nicoletta per
invitarlo a trattare con i tedeschi. In questo caso Nicoletta, a differenza di quanto era successo a Cumiana, dove l’attendismo provocò la morte degli ostaggi, decise di assumersi tutta la responsabilità delle trattative. Alle porte di Trana Nicoletta si incontrava con il maggiore tedesco che aveva comandato il rastrellamento e proponeva lo scambio dei soldati catturati con un gruppo di partigiani, tra cui Eugenio Fassino. Il maggiore tedesco accettava la proposta di Nicoletta solo a patto che i partigiani liberati fossero stati due e che i soldati tedeschi venissero liberati subito. Le condizioni furono accettate e un camion portò i prigionieri tedeschi in serata a Forso, mentre i partigiani furono rilasciati il giorno successivo.
Giuseppe Ferraro ed Elisa Conversano, Giulio Nicoletta: resistenza-esistenza di un comandante partigiano calabrese, Rivista calabrese di storia del ’900, n. 1-2016

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Pensionato di Bordighera (IM)
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