Studiare il Partito Comunista Italiano del 1948

Fonte: emeroteca-verri.blogspot.com

Questa tesi di ricerca nasce da una serie di domande: nel dopoguerra, in Italia, i concetti di patria e nazione sparirono completamente dal discorso pubblico? E se non scomparvero, come vennero declinati dai protagonisti della vita pubblica? <1
Per provare a rispondere a queste domande si è deciso con il mio relatore, prof. Alberto Mario Banti, di scegliere come oggetto della ricerca il PCI e di utilizzare come fonte primaria il suo organo di stampa, «l’Unità». Inizialmente l’obiettivo era studiare tutto il periodo compreso tra il 1948 e il 1956, poi si è deciso di operare un raffronto tra due anni, infine si è circoscritto ulteriormente il lavoro nel tempo, scegliendo di analizzare un solo anno di pubblicazioni: il 1948.
Il 1948 è un anno decisivo per l’Italia e per il PCI. Lo vedremo nel dettaglio nel corso dei primi due capitoli. Per ora anticipiamo che quell’anno fu uno spartiacque sia per il paese che per il partito: le prime elezioni legislative dell’Italia repubblicana sancirono i rapporti di forza fra i tre grandi partiti di massa, la DC, il PCI e il PSI, in un modo che rimarrà pressoché costante almeno fino al crollo del blocco sovietico del 1989-1991. Inoltre, per il PCI le elezioni del 1948 sancirono anche il sorpasso nei confronti del partito fratello, il PSI, e fissarono in modo definitivo i rapporti di forza in favore del partito più giovane.
Il 1948 fu inoltre l’anno della scomunica di Tito da parte del Cominform, dell’attentato a Togliatti, della convinzione da parte dei protagonisti politici che il paese fosse nuovamente sull’orlo della guerra civile e che il mondo stesse per ricadere in una nuova guerra mondiale.
Il 1948 è anche l’anno del VI Congresso del PCI, quello in cui Togliatti fissò i caratteri della «via italiana al socialismo»; il 1948 è inoltre l’anno del centenario dei moti del 1848 e infine, è l’anno della vittoria di Gino Bartali al Tour de France, un evento che «l’Unità» seguì tappa per tappa. <2
La letteratura storiografica sul PCI è amplissima. Sin dagli anni Sessanta lo stesso PCI avviò un’opera di redazione di opere storiografiche sulle origini del partito, affidate a storici di professione. [3]
Togliatti era stato il promotore di un’opera di «invenzione della tradizione» del partito, che si svolse in due direzioni: da un lato con la celebrazione del nucleo gravitante intorno al gruppo «Ordine Nuovo» (composto da Antonio Gramsci, Angelo Tasca, Umberto Terracini, Palmiro Togliatti) che, dopo la scissione del 1921 dal Partito Socialista Italiano, nel 1926 conquisterà la segreteria del partito, procedendo nel 1930 all’epurazione dei «devianti» di destra (Angelo Tasca) e di sinistra (Amadeo Bordiga). Dall’altro lato con l’inserimento della cultura del partito nella tradizione nazionale, di cui un passaggio fondamentale fu l’edizione delle opere di Gramsci. <4
Dalla fine degli anni Ottanta, con l’apertura degli archivi del PCI, del Comintern e di quelli russi, sono stati illuminati molti aspetti relativi ai rapporti tra il PCI e l’URSS. Inoltre dall’inizio del primo decennio del nostro secolo vari studiosi hanno analizzato il rapporto tra il PCI e la società italiana e hanno studiato le ragioni, i sentimenti, le emozioni di coloro che hanno vissuto in un partito che nel frattempo era stato travolto dalla fine della guerra fredda, conferendo a tutti questi aspetti centralità ai fini della comprensione delle vicende del PCI. In una parola hanno studiato la cultura dei comunisti, non solo dei dirigenti, ma anche dei militanti di base, laddove i documenti lo consentivano. <5
Per cultura non ci si riferisce alle «politiche culturali» del Partito, ai suoi rapporti con gli intellettuali e con la cosiddetta cultura alta, <6 ma a tutti quegli aspetti che hanno a che fare con la rappresentazione che i protagonisti della storia comunista davano di se stessi: quindi le visioni del mondo dei dirigenti e dei militanti, i loro valori di riferimento, l’apparato rituale e simbolico con cui il partito costruì il proprio radicamento nella società italiana, il rapporto con i cambiamenti apportati dalla cultura di massa, le differenze di ruolo tra i generi, la concezione della famiglia e della sessualità. <7
L’origine di questo tema di ricerca risale a due corsi di “Storia culturale” a cui ho partecipato. Dal momento che fino ad allora avevo assistito solo a corsi di storia politica o economica, la conoscenza di un altro tipo di approccio alla ricerca storica costituì per me, allo stesso tempo, una grande scoperta e una grande frustrazione. In prima battuta si aprivano davanti a me tante nuove possibilità di conoscenza. In seconda, però, il desiderio di conoscere nuove cose era frustrato dal fatto di non esserne venuto a conoscenza prima. Uno di quei due corsi di Storia culturale verteva sulla storia del Risorgimento: del processo di unificazione nazionale venivano mostrate non le strategie politiche, gli eventi bellici e le relazioni diplomatiche, ma come fu tecnicamente costruita l’idea dell’esistenza stessa della nazione italiana e come gli intellettuali romantici e «patrioti» diffusero presso il pubblico colto un’immagine della nazione che oggi ci appare naturale e innata; inoltre in quel corso si spiegava quali erano i meccanismi comunicativi profondi che accendevano le passioni e le emozioni dei lettori di libri, degli spettatori di opere e tragedie. Insomma, si spiegava cosa spingeva giovani, in gran parte uomini, a prendere le armi e a rischiare la vita. Gli studi culturali sul Risorgimento hanno mostrato che in tutte queste produzioni letterarie c’erano delle articolazioni interne ricorrenti, che costituivano quello che è stato definito lo «spazio delle figure profonde». <8 Questa espressione è stata coniata da Banti e Ginsborg in “Per una storia del Risorgimento”, testo introduttivo della raccolta di saggi storici sul Risorgimento che costituisce l’Annale 22 della “Storia d’Italia” edita da Einaudi. <9 In questo saggio i due autori presentano l’opera come un nuovo tipo di approccio allo studio del Risorgimento, basato sull’utilizzo di nuove metodologie e sull’analisi di «mentalità, sentimenti, le emozioni, le traiettorie di vita, i progetti politici e personali degli uomini e delle donne che al Risorgimento hanno preso parte». <10
[…] Il martirio di redenzione; tutto ciò che riguarda il rapporto tra genitori e figli in senso stretto e in senso generazionale; la difesa da parte di uomini in armi dell’onore sessuale delle donne della comunità e la divisione dei ruoli tra generi che ne deriva: sono tutte immagini assai profonde, che vengono prese dagli intellettuali italiani romantici e dai patrioti, e dotate di nuovi significati in quanto associate al lessico politico legato alla nazione e alla patria. In questo modo quelle immagini contribuiscono a dare forza alla costruzione della nazione italiana di cui quegli scrittori e intellettuali erano promotori. La forza di questa articolazione fondamentale del discorso
nazional-patriottico è tale che i suoi elementi sono presenti anche negli altri nazionalismi europei ottocenteschi e furono copiosamente sfruttati per la mobilitazione e il coinvolgimento delle opinioni pubbliche dei paesi europei prima e durante la Grande Guerra. <13
L’analisi del discorso nazional-patriottico italiano è stata poi estesa al ventennio fascista, <14 una fase della storia d’Italia che meriterebbe di essere analizzata sotto questa chiave ancora più approfonditamente.
L’interesse per questo argomento mi è venuto proprio dalla curiosità di capire se quella struttura di base del discorso nazional-patriottico, così importante fino alla seconda guerra mondiale, sia scomparsa dal discorso pubblico a partire dal 1945.
[…] Tornando all’Italia, Roberto Gualtieri e Emilio Gentile hanno sottolineato che il discorso sulla nazione fu molto presente nello spazio pubblico dei primi anni dell’Italia repubblicana. I due studiosi divergono però su un punto fondamentale: mentre per Gentile la cosiddetta «doppia fedeltà» alla «patria ideale» e alla «patria statale» fu il limite decisivo che contribuì al declino del mito della nazione nell’Italia repubblicana, <18 per Gualtieri «la cosiddetta doppia lealtà, ossia la coesistenza e l’intreccio tra patriottismo e internazionalismo, non rappresentò un limite bensì una condizione per lo svolgimento di una politica “nazionale”», <19 perché consentì ad entrambi i partiti, la DC e il PCI, di intraprendere azioni che difficilmente sarebbero riusciti a far accettare ai propri elettorati, in mancanza di un forte punto di riferimento internazionale che desse prestigio e forza ai loro proponimenti.
E come potrebbe essere diversamente? Uomini cresciuti in un milieu impregnato di quelle retoriche potevano liberarsene di colpo?
Come vedremo, i comunisti eliminarono gli aspetti più compromessi di quella formazione discorsiva, giungendo in alcuni casi ad utilizzare quei concetti privandoli del loro significato sostanziale.
Ci si potrebbe domandare perché studiare proprio il caso del PCI. In primo luogo perché fu uno dei principali protagonisti dell’antifascismo, della Resistenza e dei primi anni della vita repubblicana. Inoltre l’orizzonte ideologico del Partito Comunista potrebbe essere considerato quanto di più lontano dall’idea di nazione, in considerazione del suo classismo e del suo internazionalismo. Non per niente fino allo scioglimento dell’Internazionale Comunista avvenuta nel 1943, il PCI, come tutti gli altri partiti comunisti in giro per l’Europa, era la sezione italiana dell’Internazionale Comunista, da cui il nome Partito Comunista d’Italia. In realtà, come scrive Maurizio Degl’Innocenti, la prospettiva nazionale fu legata sin dalle origini al comunismo cominternista: dall’appello di Lenin per l’autodeterminazione dei popoli al «socialismo in un solo paese», dalla guerra contro il nazismo alle democrazie popolari e alle lotte anti-coloniali, il principio nazionale è stato una costante nella storia del comunismo di stato. <20
Dopo che Stalin annunciò al segretario dell’Internazionale Comunista Dimitrov la necessità che i partiti comunisti non fossero più sezioni dell’IC, ma partiti comunisti nazionali, <21 radicati nel proprio popolo, in corrispondenza con quanto dagli anni Trenta era avvenuto in URSS, anche il partito italiano recepì il cambiamento e dette avvio alla costruzione del «partito nuovo», cambiando il nome in Partito Comunista Italiano.
[…] La presenza dei concetti di patria e nazione nel discorso pubblico del PCI va dunque inquadrata nel processo di creazione del «partito nuovo»? O fu un elemento inconsapevole, frutto della forma mentis di un gruppo dirigente costituito da persone formatesi in un conteso influenzato da una cultura nazional-patriottica? Oppure, infine, fu un automatismo, determinato dalle forme della politica di massa, quella nata con la Rivoluzione Francese, denominata da George Mosse «nuova politica», <24 che richiedeva, per spingere le masse all’azione, di fare appello a sentimenti emozioni, miti e fede, più che alla riflessione analitica? <25
[…] Tutto il lavoro di ricerca è impostato come un’analisi di articoli de «l’Unità» alla luce delle chiavi interpretative fornite dell’analisi figurale del discorso nazional-patriottico sopra ricordata. Quanto quelle articolazioni fondamentali sono rintracciabili negli articoli di fondo, negli interventi parlamentari, nei comizi dei maggiori dirigenti del PCI, o negli articoli dei giornalisti de «l’Unità» o degli intellettuali organici che, pur provenienti da culture diverse da quella comunista, si avvicinarono al PCI dopo la guerra?
Analizzeremo a tal fine gli articoli di fondo dei principali dirigenti del PCI, i loro comizi elettorali e gli interventi parlamentari così come sono riportati dal quotidiano comunista. Inoltre considereremo articoli non firmati, corsivi, fotografie, disegni satirici, manifesti elettorali pubblicati sul quotidiano del PCI.

Fonte: emeroteca-verri.blogspot.com

[NOTE]
1 Cfr. A. M. Banti, P. Ginsborg (a cura di), Il Risorgimento, in Storia d’Italia, Annali 22, Einaudi, Torino 2007.
2 «l’Unità», nel quadro della costruzione del partito di massa, doveva essere non un bollettino del partito ma un quotidiano che si poneva in concorrenza con la stampa di grande tiratura. Questo aspetto dell’organo di stampa del PCI fece parte delle contestazioni mosse dal Cominform al partito italiano, i cui esponenti avrebbero preferito che «l’Unità» fosse più simile alla «Pravda». A proposito del rapporto tra i comunisti e lo sport cfr. S. Gundle, I comunisti italiani tra Hollywood e Mosca. La sfida della cultura di massa, Giunti, Firenze 1995, pp. 140-141. Sulla reazione dei comunisti alla vittoria di Bartali cfr. G. De Luna, Partiti e società negli anni della ricostruzione, in F. Barbagallo (a cura di), Storia dell’Italia repubblicana, vol. I, La costruzione della democrazia. Dalla caduta del fascismo agli anni Cinquanta, Einaudi, Torino 1994, pp. 721-23.
3 A. Agosti, Prefazione a S. Bellassai, La morale comunista. Pubblico e privato nella rappresentazione del PCI (1947-1956), Carocci, Roma 2000, p. 13.
4 F. Andreucci, Falce e martello. Identità e linguaggi dei comunisti italiani fra stalinismo e guerra fredda, Bononia University Press, Bologna 2005, p. 59.
5 Cfr. M. Boarelli, La fabbrica del passato. Autobiografie di militanti comunisti (1945-1956), Feltrinelli, Milano 2007.
6 Un aspetto questo, comunque molto importante, data la centralità conferita dal PCI al lavoro culturale volto al radicamento del partito nella cultura e nelle tradizioni storiche italiane. Per questo tema cfr. N. Ajello, Intellettuali e PCI. 1944/1958, Laterza, Roma-Bari 1997; S. Gundle,I comunisti italiani tra Hollywood e Mosca. La sfida della cultura di massa, Giunti, Firenze 1995, pp. 117-129; G. Gozzini, R. Martinelli, Storia del partito comunista italiano, VII, Dall’attentato a Togliatti all’VIII congresso, Einaudi, Torino 1998, pp. 449-504; M. Flores, Il PCI, il PCF e gli intellettuali, in E. Aga-Rossi, G. Quagliarello, L’altra faccia della luna. I rapporti tra PCI, PCF e Unione Sovietica, cit., Il Mulino, Bologna 1997.
7 Cfr. F. Andreucci, Falce e martello, cit.; M. Degl’Innocenti, Il mito di Stalin e dell’Urss, M. Casalini, Famiglie comuniste. Ideologie e vita quotidiana nell’Italia degli anni Cinquanta, Il Mulino, Bologna 2010; G. Gozzini, R. Martinelli, Dall’attentato a Togliatti all’VIII congresso, cit., pp. 393-504; S. Bellassai, La morale comunista. Pubblico e privato nella rappresentazionedel PCI (1947-1956), Carocci, Roma 2000, p. 13; S. Gundle, I comunisti italiani tra Hollywood e Mosca, cit., pp. 140-141
8 Ibid., p. XXVIII.
9 A. M. Banti, P. Ginsborg, Per una nuova storia del Risorgimento, in Id., Storia d’Italia, Annali 22, Il Risorgimento, Einaudi, Torino 2007.
10 Ibid., p. XXVIII.
13 Cfr. A.M. Banti, L’onore della nazione. Identità sessuali e violenza nel nazionalismo europeo dal XVIII secolo alla Grande Guerra, Einaudi, Torino 2005.
14 A.M. Banti, Sublime madre nostra. La nazione italiana dal Risorgimento al fascismo, Laterza, Roma-Bari, 2011.
18 E. Gentile, La Grande Italia. Il mito della nazione nel XX secolo, Laterza, Roma-Bari 2006, pp. 304-385.
19 R. Gualtieri, Nazionale e internazionale nell’Italia del dopoguerra, in S. Pons, Novecento italiano, Carocci, Roma 2000, p. 232.
20 M. Degl’Innocenti, Il mito di Stalin, cit., pp. 82-84.
21 G. Vacca, Togliatti e la storia d’Italia, in R. Gualtieri, C. Spagnolo, E. Taviani (a c. di), Togliatti nel suo tempo, Carocci, Roma 2007, p. 3. Cfr. G. Dimitrov, Diario. Gli anni di Mosca (1934-1945), a cura di S. Pons, Einaudi, Torino 2001, pp. 302-303.
24 Cfr. G. L. Mosse, La nazionalizzazione delle masse, il Mulino, Bologna 1975.
25 A. M. Banti, P. Ginsborg (a cura di), Il Risorgimento, cit., p. XXIV.

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Luca Ciampi, Il Partito Comunista Italiano, la patria, la nazione. Studio de “l’Unità” del 1948, Tesi di Laurea Specialistica, Università di Pisa, Anno Accademico 2013-2014

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