Il primo viaggio di Moravia negli Stati Uniti

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Alberto Moravia salì alla ribalta tra il 1929 e il 1930 con la pubblicazione de “Gli indifferenti”, suo romanzo d’esordio. La vicenda editoriale di questo testo è arcinota: il giovane Moravia, a soli ventidue anni, pagò tutte le spese tipografiche della piccola casa editrice Alpes per vedere il suo romanzo pubblicato; il testo, che si rivelò subito un romanzo innovativo nella nostra letteratura in prosa, rese celebre Moravia e lo avviò alla carriera di scrittore e giornalista.
Lo scrittore si «avvicinò» improvvisamente all’America nel 1935, quando il direttore della Casa Italiana, Giuseppe Prezzolini, lo invitò a tenere una serie di conferenze sul romanzo italiano. Come accadde a Pirandello, dodici anni prima, la «colonia» italo-americana non mancò all’appuntamento e offrì a Moravia sorprendenti celebrazioni distribuite nei due mesi di permanenza a New York. Lo straordinario effetto suscitato da Moravia colpì anche l’opinione pubblica americana, tant’è che, nelle corrispondenze interne del Ministero degli Esteri di Washington, si potevano leggere missive di questo tipo: “al rientro dagli Usa, Moravia, il più celebre romanziere contemporaneo, ha immediatamente annunciato che vi tornerà in autunno, due mesi non bastano. […] I suoi reportages americani sul Corriere della Sera, frequentemente critici, di vivace analisi sociologica, sono l’evento letterario dell’anno” <34.
Moravia è giustamente definito «il più celebre romanziere italiano» e i suoi futuri spostamenti in America vengono seguiti con grande attenzione dal governo degli Stati Uniti. Nonostante l’entusiasmo straordinario degli immigrati italiani, Moravia rimase molto stretto sui suoi giudizi e, dal 1935 al 1937, elaborò una severa critica agli Stati Uniti che culminò in tre lunghi articoli, <35 dove “mette in mostra una virulenza antiamericana in sinistra sintonia con l’inasprimento delle relazioni internazionali e con l’isolamento dell’Italia in seguito alla guerra d’Etiopia”. <36
Moravia infatti, nonostante i noti problemi con il regime fascista e la lotta travagliata con la censura (che gli vietò la pubblicazione del racconto Agostino, scritto proprio nel 1935), condivideva, verrebbe da dire per eterogenesi dei fini, le posizioni del regime nei confronti di una democrazia gigantesca che aveva perso qualsiasi traccia d’umanesimo, trasformandosi in un gigantesco polipo meccanizzato e spersonalizzante.
Negli articoli lo scrittore si scaglia contro il paradosso più grande, potremmo dire fondante, degli Stati Uniti: una nazione moderna, capace di plasmare la storia, ma sostanzialmente barbara e primitiva, preistorica, quindi aliena dalla sensibilità civile europea. Continua Marazzi: “gli uomini americani vengono liquidati da Moravia come apoplettici dal collo corto e dalla mascella brutale. La donna non si lascia ingannare da stupidi sentimentalismi: è pratica, interessata, avida, vanitosa, ma al tempo stesso ingenua, vivace, curiosa, un’eterna ragazza. Lavora e guadagna: poi spende furiosamente, menade dedita allo shopping. <37 Il fondo, comunque, non era ancora stato toccato. In tre fitte colonne del 1941, Moravia scarica le ultime cartucce […]. Il massimo peccato dell’uomo americano consiste nell’essersi allontanato dall’aurea armonia dell’uomo del Rinascimento (indifferentemente localizzato ad Atene o Firenze). Non più sorretto «da una intima e cosciente disciplina interiore» l’americano è stato «soverchiato dai mezzi stessi che si è creato» ha dedicato tutto se stesso al conseguimento di obiettivi economici, abbandonando e violando la terra, e sviluppando solo la vita cittadina. Ma anche quest’ultimo fenomeno non fa che confermare, secondo Moravia, quanto, in America, modernità e primitivismo procedano di pari passo”. <38
Se il metro di paragone nel vecchio continente è dato l’uomo vitruviano, per gli Stati Uniti è l’homo oeconomicus; non più la purezza di spirito, ma il pragmatismo economico, che guida la vita di milioni di esseri viventi ricchi materialmente e poveri moralmente.
Insomma, Moravia si fa portavoce di una retorica volta alla disillusione che cercava di abbattere il mito americano. La «violazione della terra», i «mezzi economici», la mancanza di «disciplina interiore» fanno virare lo scrittore verso l’antimodernismo, in «sinistra sintonia», come scrive Marazzi, con la fase più acuta dell’anti-americanismo fascista, cresciuto a dismisura dopo la guerra di Etiopia del 1935-36.
[NOTE]
34 CARETTO Ennio, L’offensiva sugli intellettuali caldeggiata dall’ambasciatrice Luce. Una diplomatica anticomunista, “Corriere della Sera”, 17 aprile 2005.
35 Cfr. ALFONSI Ferdinando, Alberto Moravia in America: un quarantennio di critica, Catanzaro, Carello, 1984.
36 MARAZZI Martino. Little America: gli Stati Uniti e gli scrittori italiani del Novecento, cit., p. 58.
37 Ivi, p. 60.
38 Ivi, p. 61.
Federico Sessolo, America opaca. Il mito americano in Italia dalle origini al fascismo, Tesi di Laurea magistrale, Università Ca’ Foscari Venezia, Anno Accademico 2017/2018

Il viaggio di Alberto Moravia e quello di Emilio Cecchi sono successivi al 1936, ovvero alla proclamazione dell’Asse Roma-Berlino e all’invasione da parte del Giappone della Cina: questi due avvenimenti hanno portato ad un sensibile cambiamento della percezione che in Italia si aveva dell’America in relazione alle apprensioni del regime riguardo agli schieramenti sullo scacchiere internazionale.
Alberto Moravia (1907-1990) si recò in America su invito di Giuseppe Prezzolini, allora direttore della Casa Italiana della Columbia University di New York nel 1936: il suo interesse per la cultura d’oltreoceano era nato precocemente con la lettura giovanile dei classici della letteratura americana editi dalla Biblioteca Vieusseux e continuerà per tutta la vita, intensificato dai numerosi viaggi, documentati dai reportage pubblicati sul «Corriere della Sera», nei quali, con acume critico e una vena talvolta polemica, egli indaga la vita, gli usi e i comportamenti del popolo americano. Nello specifico, dopo il primo viaggio, Moravia tornerà negli Stati Uniti nel 1955 e nel biennio 1968-1969.
Gli Stati Uniti appaiono a Moravia come una grande nazione provinciale e borghese: contrariamente a Pavese e a Vittorini, fanatici della letteratura americana che tradussero e fecero conoscere in Italia senza essere mai stati in America, egli, invece, negli Stati Uniti, c’era andato e fu proprio quel viaggio a fargli venire voglia di conoscere il Terzo Mondo, una voglia scaturita dalla scoperta della cultura afroamericana, in cui Moravia intravede l’evoluzione da una forma di abiezione sociale prodotta dall’oppressore bianco a uno stato di esaltazione nobile e combattiva. Tuttavia è la libertà e la naturalezza, attraverso le quali si è formata ed è cresciuta la civiltà degli Stati Uniti, ad
essere interpretate da Moravia come una premessa della vita meccanica, collettiva, retta da leggi economiche: egli condanna in primo luogo la volgarità della produzione di massa, in secondo luogo l’uomo americano (visto come una spugna che assorbe frammenti sparpagliati lungo la strada e che non compongono mai una personalità propria e definita); infine la modernità urbana, paragonata ad una giungla di ferro e di macchine, di grattacieli, di cemento, dove l’uomo appare soverchiato da elementi da lui stesso inventati.
[…] Un altro limite, di natura storica, è il controllo e il condizionamento esercitati dal regime fascista su tutti i mezzi di comunicazione. Un esempio può essere individuato nella pubblicazione degli articoli seguiti al primo viaggio di Alberto Moravia negli Stati Uniti: gli articoli pubblicati per la «Gazzetta del Popolo» sono stati impiegati per un uso propagandistico; nonostante la critica in essi contenuta non possa in alcun modo essere interpretata come una concessione al fascismo, le fotografie e le vignette che corredano il testo si configurano come il risultato di una scelta redazionale. Il primo articolo, intitolato “Collegio femminile americano”, è affiancato da una illustrazione nella quale compaiono delle ragazze in costume da bagno che fanno una gara di tacchini e la didascalia recita «Sulle ormai famigerate spiagge californiane, per far del nuovo, si è giunti a organizzare corse fra i tacchini, distogliendoli dal loro compito che è quello di ingrassare per le prossime feste natalizie». L’immagine, completamente scollegata dal contenuto dell’articolo di Moravia, ha il chiaro intento di mettere in ridicolo la società americana. <280
[…] Il primo viaggio di Moravia <392 negli Stati Uniti risale al 1936 quando viene invitato da Giuseppe Prezzolini a tenere un ciclo di conferenze sul romanzo italiano presso alcuni college: “Manzoni, Nievo, Fogazzaro, Verga e D’Annunzio, questi cinque nomi di romanzieri mi passavano e ripassavano per la mente […] Erano i cinque romanzieri sui quali doveva parlare alle fanciulle del Vassar College a Poughkeepsie […] Incominciando dai Promessi Sposi, presi a dimostrare l’esistenza innegabile e lampante del romanzo italiano”. <393
Arrivato in America, Moravia sperimenta la solitudine dei bar affollati nelle notti di New York, spettacolari e finzionali allo stesso tempo così che egli ha modo di conoscere la realtà al di là del mito americano, diffuso e radicato nell’immaginario italiano a partire dall’inizio del XX secolo: l’immagine di Pavese dell’America come un «gigantesco teatro dove con maggiore franchezza che altrove viene rappresentato il dramma di tutti» <394 viene rovesciata e l’America diventa «il teatro immenso e impreparato di un dramma o di una commedia che sembrerà improvvisata e i cui attori sono ancora nati […] Tutto è un prologo». <395 L’America è il paese del futuro, ma è un futuro ancora impreciso, ignoto, che non continua l’Europa ma vi si sostituisce.
Il reportage americano si compone di otto articoli (“Father Divine” (Padre Divino); Il paese del lusso per tutti; Le notti americane; Gli americani in che modo diventarono americani; Collegio femminile americano; L’uomo americano; Le americane; L’amatore di automi), pubblicati su diversi giornali in tempi diversi. L’autore, con acume critico e non senza una vena polemica, indaga la vita e gli usi del popolo americano: la cronologia degli articoli esprime la continuità della riflessione sulla civiltà industriale così che ciascun scritto si rivela una tappa successiva rispetto al precedente.
[NOTE]
280 Per approfondimenti, Cfr. M. MAIGRON, La visione dell’America negli articoli e racconti di viaggio di Alberto Moravia in [a cura di] F. CAPOFERRI e P. PREBYS, Atti. Alberto Moravia e l’America, Roma, S.N, 2012, pp. 14-27
392 Nell’intervista rilasciata a Alain Elkann, Moravia ricorda la partenza verso l’America. Cfr. A. ELKANN, Vita di Alberto Moravia, Milano, Bompiani, 1990, pp. 72-73: «Era una pittrice giovane e graziosa di nome Lelò […] Passai l’inverno con Lelò. Poi lei scoprì di essere incinta e di comune accordo decidemmo per l’aborto […] Lei non voleva avere un figlio e nemmeno io […] Però l’amore, se c’era mai stato, era finito. Così io sono partito per l’America».
393 A. MORAVIA, Stati Uniti. 1936, p. 133. Cfr. A. ELKANN, Vita di Alberto Moravia, Milano, Bompiani, 1990, pp. 78: «Mi fece [NdR Prezzolini] fare tre conferenze, una alla Columbia University, una allo Smith College, una al Vassr College. Tutte e tre le volte parlai del romanzo italiano: Manzoni, Nievo, Verga, Fogazzaro e D’Annunzio. Ricordo che fu difficilissimo procurarmi i libri […] Alla Columbia University c’erano soltanto studenti di ambedue i sessi e allo Smith College e al Vassar College soltanto le ragazze. Al Vassar ebbi persino un flirt con una ricca ereditiera».
394 C. PAVESE, Ieri e oggi in C. PAVESE, La letteratura americana e altri saggi, Einaudi, Torino, 1962, p. XIII
395 A. MORAVIA, Stati Uniti. 1936, p. 143
Federica Ditadi, Hollywood di carta. L’americanismo nei reportages italiani degli anni Trenta, Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Padova, 2016

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