Più volte, a partire dal 1952, Moravia ha provato a tornare negli Stati Uniti, senza però ottenere il visto

Ad ogni modo, nel 1935, con “Le ambizioni sbagliate”, esce per l’editore Carabba la raccolta di racconti “La bella vita”: ma [n.d.r.: per Alberto Moravia] è un periodo di scoramento, dovuto come abbiamo visto alle difficoltà incontrate con la censura e, certo, all’insuccesso del romanzo. Accetta così l’invito di Giuseppe Prezzolini alla Casa Italiana della Columbia University di New York per tenervi alcune conferenze. In tralice, va osservato almeno un giudizio, oramai lontano dai fatti, di Prezzolini secondo cui ne “Gli indifferenti” l’assenza di ogni nota politica non poteva che tradursi tout-court come antifascismo: «L’assenza nel romanzo di ogni nota politica al tempo del Fascismo mi aveva colpito; chi nulla diceva del Fascismo a quel tempo non poteva essere che un avversario del Fascismo». <419 Terminati gli impegni alla Columbia University (ed esasperato dall’inverno newyorkese), Moravia si reca alfine un mese in Messico, da cui rimane profondamente colpito: se ne ricorderà, insieme all’incendio del Reichstag del febbraio ’33, quando di lì a qualche anno comporrà il suo terzo romanzo, “La mascherata”.
In aprile fa rientro verso l’Italia. «L’inverno 1935-36 costituisce “una specie di cesura nella mia vita”, dopo la depressione dei mesi precedenti: “non importa se in America non ho fatto molto lavoro” scrive durante il viaggio di ritorno, “certe riflessioni e la serenità e la fiducia recuperate valgono bene qualche novella e una decina di articoli d’attualità”». <420
[NOTE]
419 A. MORAVIA – G. PREZZOLINI, Lettere, Milano, Rusconi, 1982, p. 5.
420 S. CASINI, Cronologia, p. XXXVI.
Annibale Rainone, Interni moraviani. Immagini dell’abitare in romanzi e racconti di Alberto Moravia, Tesi di dottorato, Università ‎degli ‎Studi di ‎Salerno, Anno accademico 2012/2013

Al contempo, la significativa distanza cronologica tra il viaggio e la pubblicazione de “L’amatore di automi” permette di respingere ogni ipotesi che ha interpretato la critica moraviana agli Stati Uniti come tentativo da parte dell’autore di avvicinarsi al fascismo. <396
Nel suo percorso di scoperta dell’America, Moravia si è rivolto soprattutto all’uomo e alle nuove condizioni non solo sociali ma antropologiche che si andavano sviluppando nella nuova società di massa, nella nuova società dei consumi: la constatazione della diffusione degli oggetti meccanici nella quotidianità dell’americano medio viene vista come il sintomo dell’influenza della macchina sul comportamento intellettuale e morale; New York, percepita come una città mostruosa, diventa l’emblema della civiltà industriale e la critica all’America, ponendosi in dialogo con le osservazioni su Parigi e Londra, si configura come il nucleo di una più articolata riflessione sugli effetti negativi delle città immense e razionali, sulla vanità del movimento che le macchine producono, sulla folla futile e disarmata, vorace e mediocre.
Moravia si dimostra una precoce consapevolezza del ruolo egemone degli Stati Uniti: in una lettera a Prezzolini, scritta nei giorni immediatamente successivi alla partenza, egli infatti scrive: “Gli Stati Uniti mi sono parsi un fatto grandissimo, in cui gli elementi positivi superano di molto quelli negativi, di tutti i paesi che ho visitato fin’ora, è quello che mi pare il più moderno, cioè quello che senza volontà apparente ha creato un certo genere di civiltà che tutti gli altri, compresa la Russia, cercano di imitare”. <397
Riflettere sugli Stati Uniti significa per Moravia riflettere sui destini dell’umanità intera.
In assenza di una vera e propria cultura, l’automatismo diventa per l’autore l’emblema della nuova antropologia, nata oltreoceano e destinata a diffondersi in Europa con la fine del conflitto mondiale: in questa prospettiva, il singolare incontro con l’amatore di automi, raccontato nell’omonimo articolo, diventa un’allegoria dell’alienazione, ovvero dell’impossibilità dell’uomo di adattarsi al mondo moderno, tratto comune a tutti gli eroi moraviani che, nel saggio “L’uomo come fine”, viene individuata come conditio sine qua per il passaggio dell’uomo da mezzo a fine.
C’è alienazione ogni volta che l’uomo è adoperato come mezzo per raggiungere un fine che non è l’uomo stesso, bensì qualche feticcio che può essere via via il danaro, il successo, il potere, l’efficienza, la produttività e via dicendo. <398
Per sua stessa dichiarazione, più volte, a partire dal 1952, Moravia ha provato a tornare negli Stati Uniti, senza però ottenere il visto; in questo senso i soggiorni in Inghilterra e in Francia del 1948 e i successivi negli Stati Uniti (1955; 1968; 1969) possono essere interpretati come una verifica delle osservazioni elaborate a partire dal primo viaggio degli anni Trenta attraverso l’adozione degli strumenti propri delle scienze umane. Una spia di questa continuità può essere individuata nell’articolo “Perché gli Stati Uniti sono il futuro del mondo”, pubblicato sul «Corriere della Sera» nel maggio del 1955: partendo dall’osservazione che l’uomo nel mondo moderno, è solo un mezzo, Moravia limita la sua analisi al rapporto tra individuo e la società industriale, caratterizzata dal macchinismo per mostrare come l’individuo nei suoi rapporti con la realtà e con se stesso non ha nessuna identità.
La cesura che questo secondo soggiorno segna nella vita e nell’opera di Moravia trova una conferma se si guardano le mete dei viaggi della seconda metà del secolo: India, Cina, Africa, Russia, tutti paesi non industrializzati in cui l’artista, solo dopo aver risolto il personale rapporto con la società industrializzata, può ricercare l’originalità e l’integrità propri di una società estranea alla produzione in serie. Durante una visita al Metropolitan Museum, negli anni Ottanta, Moravia confidò ad Enzo Siciliano: “Tutto sommato a questa America preferisco l’Europa, per non dire l’Africa. I segni della cultura sono più certi in Europa, anche nell’Europa di oggi, che non in America. L’America mi piace al cinema”. <399
A conferma di questo distacco nei confronti dell’America, rievocando il proprio incontro con l’America, nell’ultima intervista rilasciata a Alain Elkann, Alberto Moravia pone l’accento sulla sua impermeabilità nei confronti del mito americano: “In Italia, nonostante la magniloquenza fascista tutto mi pareva piccolo; in America tutto mi pareva grande. Questo è il motivo per cui, prima del mio viaggio, mi sognavo l’America di notte! Era diventata per me una vera ossessione fare quell’esperienza. Quell’ossessione allora ce l’avevano un po’ tutti, per esempio Pavese e Vittorini, ma io sono il solo che andai negli Stati Uniti: debbo ad essi la scoperta del Terzo mondo, che poi doveva diventare così
importante nella mia vita”. <400
Ritornando alla collaborazione con Vittorini per l’antologia “Americana” è interessante notare la scelta degli autori da tradurre, come Dresier e Lardner, scrittori che, attraverso il ricorso ad un lirismo lirico, hanno rappresentato la realtà americana con uno sguardo oggettivo e spietato, «senza concessioni al vitalismo, né al mito del maschio americano» <401 così che in questa collaborazione può essere intravisto il rifiuto di una visione idealizzante dell’America e desiderio di confrontarsi con la realtà al di là del mito.
“In realtà ero e sono un letterato, la mia patria era ed è letteratura. Viaggiavo con la testa avvolta in una nube di letteratura. Vivevo le avventure del mondo moderno e intanto leggevo dei classici […].
E i tuoi contemporanei, Vittorini, Pavese, non viaggiavano?
No, quelli non hanno viaggiato mai. Hanno vissuto non i viaggi ma i miti del viaggiare, per esempio il mito dell’America. Io non volevo avere nessun mito. Per questo sono andato in America”. <402
[NOTE]
396 Cfr. S. CASINI Introduzione in A. MORAVIA, Lettere ad Amelia Rosselli con altre lettere famigliari e prime poesie, Milano, Bompiani, 2010, p. 78-79: «Da quel momento lo scrittore assunse in qualche modo un impegno che potremmo definire di autocensura e di autocontrollo. Non tornò più in Francia (prima del 1948) e non rivide più il cugino maggiore […] Senza rinunciare alla fama “frondista”, ai temi e all’indipendenza della sua attività letteraria, negli anni successivi Moravia cercò di garantirsi margini di sicurezza, rinunciando a impegni di opposizione e collaborando con istituzioni e periodici vicini al regime. Segnali di questa sua collocazione sono il soggiorno alla Casa di Cultura italiana di New York diretta da Prezzolini nell’inverso 1935-1936 […] Persecuzioni, censure e angherie che colpivano la sua opera di scrittore o le sue origini ebraiche continuarono a gravare su Moravia e a controllare il suo
potenziale antifascismo».
397 A. MORAVIA, G. PREZZOLINI, Lettere, Milano, Rusconi, 1982, p. 17
398 A. MORAVIA, I miei problemi in A. MORAVIA, L’uomo come fine e altri saggi. A quale tribù appartieni? Milano, Bompiani, 1976, p. 300
399 E. SICILIANO, A toast for Alberto Moravia in [a cura di] R. PARIS, Alberto Moravia, Firenze, La Nuova Italia, 1991, p. 15
400 A. ELKANN, Vita di Alberto Moravia, Milano, Bompiani, 1990, p. 79
401 T. GIARTOSIO, L’America nell’anima in «Quaderni» 1/97, Roma, Fondo Alberto Moravia, 1997, p. 91
402 A. ELKANN, Vita di Alberto Moravia, Milano, Bompiani, 1990, p. 82
Federica Ditadi, Hollywood di carta. L’americanismo nei reportages italiani degli anni Trenta, Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Padova, 2016

Informazioni su adrianomaini

Pensionato di Bordighera (IM)
Questa voce è stata pubblicata in Senza categoria e contrassegnata con , , , , , , , , . Contrassegna il permalink.

Una risposta a Più volte, a partire dal 1952, Moravia ha provato a tornare negli Stati Uniti, senza però ottenere il visto

  1. Pingback: Quando rientra a Roma, Moravia riprende a frequentare i salotti della capitale | Collasgarba

Lascia un commento