Non c’era giorno che non si andava dal prefetto a Genova

Genova: Piazza Corvetto

C’è chi ricorda gli anni della ristrutturazione industriale non solo per il disagio politico e personale, ma anche per le battaglie condotte. E’ il caso di Giordano Bruschi, classe 1925, originario di Pistoia, operaio della San Giorgio, dirigente del Cln di fabbrica durante il periodo resistenziale, segretario provinciale del sindacato marittimo della Cgil a partire dagli anni Sessanta, e in seguito consigliere comunale per il Pci. Egli, nella propria testimonianza, ripercorre le tappe più significative della lotta per la difesa della San Giorgio, iniziata il 4 febbraio 1950, dopo l’annuncio, da parte della direzione, del licenziamento di 1.200 operai. All’epoca sindacalista e membro dei Comitati di Gestione, Bruschi, per aver sostenuto attivamente le rivendicazioni dei propri compagni di lavoro, subì il carcere e il licenziamento.
“Le linee nazionali erano quelle di smantellare, di smobilitare; noi riuscimmo a ricostruire un rapporto positivo con i tecnici di fabbrica, con tutta una serie di piani e di progetti che però si scontravano con le scelte politiche nazionali, e si andò a durissime battaglie. La più dura fu quella del 1950: dal febbraio all’aprile la fabbrica fu abbandonata dalla direzione, e venne occupata dai lavoratori per 83 giorni. In questi 83 giorni venne continuata la produzione sotto la direzione del Consiglio di gestione. Era un’occupazione particolarmente difficile, perché non era la grande fabbrica che aveva un solo prodotto, come poteva succedere all’Ansaldo meccanico per la caldaie, o al cantiere navale per la nave. La San Giorgio aveva una gamma di 300 produzioni. Per cui, garantire l’approvvigionamento delle materie prime e seguire l’andamento di tutte le produzioni era estremamente difficile. Fu un’occupazione esemplare che dimostrò il grado di maturità e anche di alta professionalità dei lavoratori. Alla fine dell’occupazione venne deciso che l’azienda avrebbe pagato il lavoro svolto. Così, fatti i conti, comprese le manifestazioni, venne riconosciuto per l’occupazione il salario nella misura dell’85%. Ci furono delle provocazioni che colpirono me in modo particolare; prima fui sottoposto a perquisizione e poi venni arrestato il 7 aprile 1950, e passai 53 giorni in carcere. Era una provocazione che si riferiva al periodo della Resistenza, con l’accusa di aver mandato delle armi a dei partigiani che si trovavano in carcere. Poi un compagno di Pistoia, il Trinci, ha dimostrato che altre persone avevano mandato armi a mio nome, da Montecatini a Pratolongone” <85.
Poche settimane dopo, inizia la mobilitazione dei lavoratori dell’Ansaldo, dove sono a rischio 7.000 posti di lavoro, che fa seguito a una prima e pesantissima ristrutturazione che aveva interessato oltre 23.000 operai. Una voce femminile, una delle poche, ripercorre i giorni drammatici della lotta: è quella di Rosa Barile, operaia di origini pugliesi, iscritta al Pci genovese dal 1945.
“Fate conto che come con una bacchetta magica erano mobilitate tutte le compagne, e non c’era giorno che non si andava dal prefetto a Genova. Ricordo un giorno che ci siamo portati dietro i bambini: erano stanchi di vederci sempre là a chiedere lavoro per i nostri mariti; così ci hanno chiuso dentro la Prefettura, e ci siamo stati fino a notte fonda con i bambini. Andavano come me anche le altre compagne per la lotta della San Giorgio, dell’Allestimento navi ecc. Andavamo ai cortei, ma andavamo anche a rivendicare noi per gli uomini: caricare noi era più difficile, anche se lo hanno fatto più volte. Era meno esposto l’uomo alle rappresaglie che allora erano la vita quotidiana della fabbrica” <86.
In un’epoca in cui la partecipazione femminile alla vita politica era ancora limitata e in cui la questione delle donne non era ancora esplosa, è interessante osservare il punto di vista delle lavoratrici. Il loro modo di approcciare la lotta, il loro contributo, i primi tentativi di fuoriuscita dalla sfera privata per concorrere alla causa dei fratelli e dei mariti. In questo senso, le parole di Tea Benedetti <87, per un breve periodo funzionaria dalla federazione comunista genovese, dicono molto delle ristrettezze economiche e sulla dura vita degli Anni Cinquanta. Ecco cosa significa essere comunisti durante il “centrismo”.
“Dal 1940 al ’56 ho fatto lavoretti in qualche negozio o qualche ufficio, ma senza continuità. Ho fatto la donna di servizio; con il partito facevo meno perché stavo male finanziariamente. Ho fatto la donna di servizio, attraverso mia zia, la vedova del Balilla, che lavorava alla Esso. Andarci mi moriva il cuore, con le idee che avevo a una certa età. Dall’altra parte volevo dimostrare che avevo voglia di lavorare. La padrona di casa era la moglie del segretario del sindaco Pedullà. Lì c’erano due bambini piccoli, Vietar e Silvano, che si sono affezionati. Facevo più ore della luna; e quando incontravo i compagni mi vergognavo tanto; ma poi ho capito che mi è servito a moderare le ambizioni e a conoscere il mondo, l’umiltà, la modestia. E poi mi volevano bene; ma lei tutti i giorni mi attaccava la solfa che ‘l’Unità’ era il giornale dei criminali etc. etc. Il marito era più intelligente, e diceva che gli operai andavano capiti nelle loro lotte, e così via. Ci sono stata un paio di mesi; poi una volta gli ho chiesto un anticipo su uno stipendio, perché non avevo i soldi del tram per andare a lavorare. Lei mi ha risposto che non era dignitoso, così non ci sono più andata. Il marito mi è venuto a cercare a casa, ho detto che avevo l’esaurimento nervoso e non ci sono più andata… Siccome non lavoravo, passavo tutto il tempo all’ospedale con mia nipote che era ricoverata. Una infermiera dell’Azione Cattolica mi dice di fare la domanda perché prendevano le infermiere. Ho fatto la domanda, sono andata alla visita dal professor Macaggi, avrei dovuto entrare il giorno dopo. Alla sera viene su questa ragazza, piangendo, che dice che la suora aveva messo un veto perché ero comunista, e quindi non potevo entrare. Avevo 26 anni, era il 1956; avevo le referenze dopo essere stata 6 mesi sempre in ospedale ad assistere mia nipote. Ma dalle informazioni risultavo una comunista di quelle che contano” <88.
Un terzo aspetto prorompente nell’identità, nella cultura, nell’universo ideologico delle nuove generazioni di quadri e militanti, è rappresentato dal 1956, anno in cui saltano schemi consolidati e riferimenti sicuri. Si apre un dibattito interno che divide, che lacera, che provoca conseguenze di lungo periodo. Giuseppe Vallerino, comunista ligure, prima segretario della Fgci savonese e poi amministratore, coglie la dimensione della crisi dai repentini mutamenti sul piano ideologico e dogmatico.
“L’impronta era seria, ma dogmatica; si studiava su libri che non erano sempre aggiornati. Infatti alla fine c’era un esame, che comprendeva varie materie. Ad un certo punto mi chiedono: “chi ha guidato l’assalto al palazzo d’inverno?” E io, sicuro, perché l’avevo letto sul libro che mi avevano dato da studiare: “Stalin”. “Ma questo era valido prima del XX Congresso, compagno, ora non è più vero”<89”.
Renato Dovrandi, dirigente e amministratore comunista di primo piano, rievoca così il clima del dibattito interno seguito al “terremoto” politico del 1956.
“Poi nel partito ha cominciato a camminare chi si faceva avanti a forza di gomiti; ha prevalso una linea opportunistica, per cui quelli che erano d’accordo sempre con tutti e su tutto, e poteva anche venire comodo, comunque… non avevano problemi, e viceversa. Sono stato uno dei compagni della federazione di Genova più impegnati nell’opera di rinnovamento. Al di là di quelli che si erano allineati sulle posizioni emerse dall’VIII congresso [del 1956], poi ha preso di nuovo a prevalere la linea conservatrice di sempre. Daria, Braggiato, Ceravolo si erano dati da fare, altri erano stati a guardare. Pessi era su una posizione estremista di sinistra, e poi è andato a finire nel Psi. Noberasco era sulla linea di Togliatti. C’è stato uno scontro molto vivace tra Bogliani, e gli altri, che era gente profondamente onesta. Con Bogliani non abbiamo mai concordato sulle posizioni politiche, ma ho sempre avuto un grande rispetto perché l’ho considerato un uomo disinteressato e corretto, lui che era vice-segretario della Federazione e segretario era Noberasco. Era sempre così, che passavano più facilmente quelli che non si facevano dei nemici. La palude, il centro, alla fine prevaleva sempre” <90.
Un partito che sta cambiando, che si sta aprendo, che sta per coinvolgere nuove generazioni di militanti.
[NOTE]
85 Testimonianza di G. Bruschi, riportata in N. Bonacasa, Vite da compagni: dall’antifascismo al compromesso storico, Ediesse, Roma 1998, p. 223
86 Testimonianza di Rosa Barile, riportata in N. Bonacasa, Vite da compagni: dall’antifascismo al compromesso storico, Ediesse, Roma 1998, p. 225
87 Classe 1930, militante nel Pci dal 1945, poi consigliere comunale di Genova e Assessore al lavoro nella giunta Cerofolini nella prima metà degli anni Ottanta.
88 Testimonianza di Tea Benedetti, riportata in N. Bonacasa, Vite da compagni: dall’antifascismo al compromesso storico, Ediesse, Roma 1998, p. 242
89 Ivi, p.245
90 Ivi, p.247
Cecilia Bergaglio, Identità e strategie politiche del Pci e del Pcf: una comparazione tra il triangolo industriale in Italia e la regione del Rhône-Alpes in Francia, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Torino in cotutela con Université Stendhal Grenoble 3, Anni Accademici: 2012-2014

Giuseppe Noberasco. Nato a Savona (madre casalinga e padre architetto), inizia i suoi studi ginnasiali agli Scolopi, poi si trasferisce nel nostro Liceo, dove ha conseguito la maturità nel 1939.
Fondamentale per Giuseppe Noberasco fu l’incontro con il suo professore di Storia e Filosofia Ennio Carando, che seppe imprimere un forte senso di democrazia e libertà a molti giovani che si trovarono in quegli anni nel vortice demenziale della dittatura e della guerra.
Si iscrive alla Facoltà di Giurisprudenza di Torino e successivamente a quella di Genova.
Sempre nel 1939 si iscrive al PCI clandestino.
Nel 1942 venne chiamato alle armi.
Inviato alla Scuola Allievi Ufficiali di Fano, fu dichiarato non idoneo alle fatiche di guerra ed inviato al Comando del 90º Reggimento Fanteria di stanza a Savona.
Trasferito a Genova Pontedecimo, l’8 settembre 1943 rifiutò di arrendersi ai tedeschi, venne catturato ma fuggì con tutti i suoi soldati.
Entra in clandestinità con il nome di “Gustavo”.
Fonda nel 1944 il giornale “La voce dei giovani” organo del locale nucleo del Fronte della gioventù, insieme a Francesco Vigliecca e Stefano Peluffo.
Come partigiano, operò sia a Savona sia a Genova, dove fu comandante delle SAP e fu tra gli organizzatori della insurrezione di Genova del 24 aprile 1945.
Decorato di Medaglia d’Argento al Valor militare per i meriti conseguiti nella lotta di Liberazione.
Il 1° Settembre 1945 sposa Anna Pirc, con la quale ebbe due figli, Vladimiro (maturato nell’anno 1966/67) e Carlo.
Dopo la Liberazione fu amministratore alla Redazione de l’Unità di Genova.
È stato segretario delle federazioni del PCI di Savona e di Genova.
Nel 1960 fa parte della redazione di “Rinascita” l’allora mensile del PCI diretto da Palmiro Togliatti. Fu poi vice sindaco di Savona dal 1970 al 1972 e deputato del PCI per due legislature: 1972 e 1976 sino al 1980.
Muore a Savona il 14 febbraio 2011.
Redazione, Giuseppe Noberasco, Associazione Amici del Liceo Chiabrera – Savona, 2014

Ho ricordato che con l’On. Minella avevo avuto posizioni molto dure; ristabilii buoni rapporti successivamente (incontrandoci colleghi in Parlamento), che mantenni sino alla sua morte. Io ritengo che la Minella avesse forti posizioni polemiche perchè, essendo di origine borghese e perciò estranea alla natura operaistica del P.C.I., fosse alla ricerca di maggiore credibilità fra i militanti. Ebbi rapporti di amicizia con molti esponenti del Partito comunista savonese, da Lagorio ad Aglietto, da Lunardelli a Giuseppe Noberasco con il quale abbiamo collaborato con fraterna amicizia sia a Savona sia in Parlamento. Con diversi parlamentari comunisti liguri intrattenni rapporti di cordiale amicizia, in particolare con Serbandini, con il quale ci eravamo incontrati durante la Resistenza e con D’Alema padre, deputato di Genova, presidente della Commissione Finanze nel tempo in cui ero presidente della Commissione Affari Esteri.
On. Carlo Russo (Dirigente della Democrazia Cristiana), I miei rapporti con il PCI in (a cura di) Giancarlo Berruti – Guido Malandra, Quelli del P.C.I. Savona 1945-1950, Federazione D.S. Savona, 2003

Evidentemente lavorammo bene, se al Congresso della Sezione del 1947 ottenemmo la maggioranza assoluta dei delegati ed io fui nominato Segretario al posto di Mazzucco Quirino, nel frattempo diventato Assessore ai Lavori Pubblici del Comune di Cairo. Il nuovo Direttivo eletto al Congresso era tutto composto da giovani.
[…] Si costituirono le commissioni di lavoro, si diede nuova lena al tesseramento e al recupero dei “bollini mensili”, si organizzò la diffusione domenicale dell’Unità e di Vie Nuove; si diede vita alle prime Feste dell’Unità; si cercò, inoltre, nel limite del possibile, di migliorare i rapporti col Consiglio di fabbrica della Montecatini e si tentò anche di coordinare l’attività della altre 4 Sezioni esistenti nel Comune, soprattutto al fine di seguire ed indirizzare l’attività dell’Amministrazione Comunale. In quel periodo la Federazione di Savona, in previsione anche delle vicine scadenze elettorali, inviò in Valle Bormida il compagno Renato Saccone, col compito di aiutare il Partito
di Cairo e della Valle. Questa consuetudine di inviare in Valle Bormida compagni continuò sino agli inizi degli anni Sessanta. Ricordo il compagno Ennio Elena di Alassio che, a causa dei disagi climatici della zona, rimediò una grave affezione polmonare, tale da richiedere un non breve ricovero ospedaliero. Ennio Elena fu sostituito, nella seconda metà degli anni ’50, da Giuseppe Vallerino, “il Russo” come tutti lo chiamavano perchè aveva frequentato per alcuni anni una scuola di Partito in Unione Sovietica.
Elvio Varaldo in (a cura di) Giancarlo Berruti – Guido Malandra, Quelli del P.C.I. Savona 1945-1950, Federazione D.S. Savona, 2003

Con la rottura dell’unità nazionale e lo scioglimento del Fronte della Gioventù, aderii alla F.G.C.I. dove divenni Segretario Provinciale nel 1950 per un breve periodo prima di essere chiamato alla leva militare. Sostituii Pietro Taramasso, divenuto Assessore del Comune e venni sostituito da Giuseppe Vallerino.
Renato Bramante in (a cura di) Giancarlo Berruti – Guido Malandra, Quelli del P.C.I. Savona 1945-1950, Federazione D.S. Savona, 2003

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