Gli operai della Fiat Mirafiori entrarono in sciopero ma, per evitare lo scontro con i repubblichini che avevano bloccato i cancelli con carri armati, non si unirono al corteo e al successivo raduno in piazza Carducci

Lo sciopero del 18 aprile 1945 fu l’ultima manifestazione del conflitto sociale nel Piemonte occupato dai tedeschi. Con il passo successivo, l’occupazione delle fabbriche il 25 aprile, prese avvio un conflitto non più sociale ma politico-militare. Lo sciopero del 18 è definito preinsurrezionale poiché fu il test necessario per verificare se l’insurrezione, che presentava notevoli incognite, poteva trovare il consenso di parti rilevanti della società, in primo luogo del mondo del lavoro. Lo sciopero, voluto e promosso dalle componenti politiche di sinistra, ottenne l’appoggio di tutte le forze del Cln. Per ovvie ragioni ebbe il suo cuore nel capoluogo della regione, ma trovò un’estensione in tutti i centri piemontesi con una presenza significativa di fabbriche. Preparato con la mobilitazione di tutte le risorse organizzative che le forze antifasciste erano riuscite a costruire nel corso dei 20 mesi della lotta di Liberazione, lo sciopero riguardò tutte le componenti del lavoro dipendente connesse direttamente o indirettamente al mondo della produzione e dei servizi, e coinvolse alcuni settori dei ceti medi, soprattutto quelli intellettuali in prevalenza legati alla scuola, all’università, ai servizi sanitari, alla stampa e alla comunicazione.
È stato rilevato (G. Perona) che questa centralità dello sciopero e dell’occupazione delle fabbriche fece assumere un carattere particolare all’insieme del progetto insurrezionale, poiché delineò, almeno per la parte relativa al capoluogo regionale, un modello “operaista” di insurrezione. La novità assoluta dello sciopero è data dal fatto che, impostato sulla base di alcune rivendicazioni sindacali, riuscì a esprimere una tensione politica notevole, che in alcune situazioni diede origine a manifestazioni di massa: gli operai uscirono dalle fabbriche in corteo, a essi per strada si unirono, in parte in modo organizzato in parte spontaneamente, numerosi cittadini. Il corteo, la manifestazione pubblica presentavano un rischio grave poiché esponeva i partecipanti alla repressione diretta. Per questa ragione solo in qualche rara occasione nella fase successiva all’8 settembre il pur notevolissimo numero di scioperi aveva dato origine a cortei e dimostrazioni pubbliche; in questi rari casi si era trattato di manifestazioni spontanee e di breve durata. Altra cosa era la manifestazione organizzata capace di portare nelle strade e nelle piazze la protesta che si sviluppava di solito entro il perimetro della fabbrica e del luogo di lavoro. Il 18 aprile 1945 questo tabù venne infranto. Così avvenne, ad esempio, a Torino in borgo S. Paolo, quartiere operaio. E così Giorgio Amendola, allora dirigente del Partito comunista in città, descrisse la manifestazione: “Quando sono arrivato all’angolo di corso Racconigi col corso Peschiera ho visto avanzare su quest’ultimo corso il grande corteo. In testa venivano le donne, con bandiere tricolori e cartelloni molto ben fatti (uno era rivolto ai fascisti, diceva di non sparare e di arrendersi). Tutto il corso, nella sua lunghezza, era occupato dal corteo, e questo era assai lungo. Il corteo procedeva lentamente, dalle finestre applaudivano. Il corteo era inquadrato da un servizio di ordine, giovani in bicicletta, ed era preceduto da staffette. Le donne invitavano quelli che erano sui marciapiedi a unirsi al corteo”. [G. Amendola, Lettere a Milano, Roma, Editori Riuniti 1973, p. 557]
Da rilevare la presenza decisiva delle donne e le iniziative per prevenire e contenere un eventuale intervento repressivo. Lo sciopero riuscì in altre parti della città secondo le modalità usuali, ossia con massicce interruzioni del lavoro, ma senza manifestazioni esterne alla fabbrica. Tuttavia i fascisti, preoccupati che lo sciopero fosse il segnale di avvio del movimento insurrezionale, evitarono interventi in periferia limitandosi a presidiare e a controllare il centro. Così descriveva dal centro della città le prime ore dello sciopero l’imprenditore Carlo Chevallard: “Verso le 9,30 cominciano a circolare le prime notizie di scioperi in Borgo S. Paolo: nel giro di neppure mezz’ora tutte le industrie sono ferme. Camion di repubblicani cominciano a percorrere le strade: nella zona dove abbiamo l’ufficio si sente qualche sparo (sapremo poi che sono degli alpini che sparano in aria). Panico generale: chiusura dei portoni, negozii, fuggi fuggi generale. Però dopo un po’, visto che tutto è tranquillo, la vita riprende il suo ritmo”. [C. Chevallard, Diario 1942-1945, cit., p. 502]
Il prosieguo della giornata mostrò la condizione eccezionale creatasi: ferme le fabbriche, chiuse diverse scuole, fermi i servizi di trasporto, sospensione dei giornali cittadini. Torino visse un tempo sospeso che preannunciava il passaggio a una situazione di mutamenti radicali. Lo sciopero del 18 aprile aveva dato le sue risposte e lo scenario prefigurato dell’insurrezione aveva trovato conferma. Inoltre erano apparse evidenti le difficoltà dell’apparato fascista, che si preoccupato soprattutto di tenere il centro città evitando repressioni, e per converso la partecipazione di componenti nuove della società torinese a favore di un’iniziativa così pericolosa. Particolare rilievo avevano avuto il blocco della circolazione dei tram e dei servizi pubblici e la mancata uscita dei quotidiani cittadini. Una situazione più drammatica si delineò nel Biellese dove l’inizio dello sciopero il 18 aprile e l’estendersi di esso a quasi tutte le fabbriche il 19 destarono un grande allarme tra le forze fasciste, che temettero sviluppi insurrezionali. Vennero perciò avviate iniziative di rastrellamento sia verso la Serra sia nelle valli biellesi, per tenere lontane le formazioni partigiane dalla città, ma era ormai chiaro che la situazione stava facendosi insostenibile per i presidi fascisti nelle valli. Indice significativo delle crescenti preoccupazioni e paure dei fascisti fu l’accusa rivolta agli industriali locali di connivenza con gli scioperanti e addirittura di sostegno allo sciopero. In realtà gli industriali cercavano di salvaguardare uomini e impianti. Anche a Vercelli, nel Novarese e ad Asti, si ebbero iniziative di sciopero che allarmarono tedeschi e fascisti, i quali temettero che le agitazioni si saldassero con gli attacchi delle formazioni partigiane.
Claudio Dellavalle, Lo sciopero del 18 aprile in (a cura di) Aa.Vv., Il Piemonte nella guerra e nella Resistenza: la società civile (1942-1945), Consiglio Regionale del Piemonte, 2015

7.1 Lo Sciopero preinsurrezionale
Il 18 aprile il CLN piemontese e i Comitati d’Agitazione delle fabbriche proclamavano lo sciopero generale “contro la fame ed il terrore”. Il CA aveva organizzato la propria sede operativa, per seguire l’andamento della lotta, in una casa di corso Brescia <44.
Torino era stata divisa in cinque zone operative: 1. Borgo San Paolo, la zona operaia: compresa tra corso Francia a nord e corso Castelfidardo a sud-est, era una delle zone più piccole, ma racchiudeva un’ampia concentrazione di fabbriche importanti. Vi erano la Lancia di via Monginevro, la Fiat Spa di corso Ferrucci, le Officine Viberti di corso Peschiera, le Carrozzerie Pininfarina di corso Trapani, la Fiat Materferro di via Rivalta, la Venchi Unica di via De Sanctis, la Fiat Aeronautica di Corso Italia e la Tulli e Pizzi di via Bardonecchia. In tutto Borgo San Paolo la tensione era alta, ma non accaddero incidenti gravi: tedeschi e fascisti intervenirono, senza successo, solo all’Aereonautica. Dopo la manifestazione di Piazza Sabotino le donne della Tulli e Pizzi guidarono il corteo su corso Peschiera. 2. Barriera di Milano: compresa tra la linea di unione tra corso Inghilterra, corso Principe Oddone e corso Venezia, a est, e corso Francia, a sud, riuniva molte fabbriche con nuclei combattivi. Oltre alla Fiat Ferriere e alle Officine Savigliano di corso Mortara, vi erano la meccanica Rasetti di corso Francia, la Elli Zerboni e la Cimat di corso Venezia, la Borgognan di via Lanzo, la Superga di via Orvieto, la Michelin di via Livorno e la conceria Fiorio di via Durandi. Nel secondo settore lo sciopero funzionò alla perfezione. 3. Barriera di Nizza: a sud di corso Vittorio e corso Castelfidardo fino al Po, rappresentava il nucleo operativo più forte. Vi erano la Fiat Mirafiori di corso Agnelli, la Fiat Lingotto e la RIV di via Nizza, la Fiat Ricambi di via Marocchetti, la Fispa di corso Raffaello e la Microtecnica di via Madama Cristina. In questo settore non tutto funzionò come previsto. Gli operai della Fiat Mirafiori entrarono in sciopero ma, per evitare lo scontro con i repubblichini che avevano bloccato i cancelli con carri armati, non si unirono al corteo e al successivo raduno in piazza Carducci. Alla Fiat Lingotto si sfiorò la tragedia: gli operai vennero bloccati dalle brigate nere, ci fu un ferito e vennero chiesti rinforzi; ma alla fine anche la Fiat Lingotto si svuotò. 4. Borgo Dora: comprendeva la zona nord, da corso Vittorio fin oltre la Dora, tutto il centro, e borgo Vittoria, tra il Po e corso Venezia; concentrava tutti i servizi vitali della città come banche, la società telefonica Stipel e l’Aem. Vi erano la Grandi Motori e le Fonderie Ghisa di via Cuneo, la Ceat di corso Palermo, la Fram, la conceria Gilardini e l’Alluminium di corso Giulio Cesare e il Volugrafo di corso Belgio. Anche nel quarto settore la situazione era preoccupante. Alla Grandi Motori e alle Fonderie Ghisa gli operai furono costretti a rimanere chiusi nelle fabbriche. I fascisti, che occupavano il cortile della Grandi Motori e vi bloccavano ogni accesso, vennero presto affrontati da una massa di operai guidata da Antonio Banfo. Lo sciopero alla Grandi Motori proseguì anche il giorno successivo in segno di protesta all’uccisione di Banfo, avvenuta la sera stessa dello sciopero per mano dei fascisti. Il centro di Torino era tranquillo. Anche se non vi furono manifestazioni di massa ogni attività era stata sospesa. 5. Oltre Po. Non comprendeva industrie importanti.
Lo sciopero riuscì completamente: la città era paralizzata e tutta la popolazione vi partecipava. Torino era bloccata dallo sciopero generale che coinvolgeva le fabbriche, le scuole, i servizi ed il commercio. Gli operai uscirono in massa dagli stabilimenti; soltanto alla Grandi Motori, alla Mirafiori e alle Fonderie Ghisa le milizie fasciste impedirono l’uscita, ma non la sospensione, del lavoro. Le scuole, compresa l’Università, vennero chiuse e l’ordine del provveditore agli studi di riprendere le lezioni fu ignorato. I tram si fermarono e i tentativi fascisti di ripristinarne il funzionamento causarono unicamente danni alle vetture e ai passeggeri. Nonostante le disposizioni impartite dal federale di Torino, Solaro, lo sciopero fu un successo e la repressione non riuscì ad imporsi.
Il 19 Aprile, fatta eccezione per la Grandi Motori, il lavoro nelle fabbriche riprese, secondo le disposizioni del CLN e dei Comitati d’Agitazione che non ritenevano ancora imminente l’ora dell’insurrezione. Il CLNAI diramava l’estremo monito ai tedeschi: arrendersi o perire. Un anonimo redattore d’Italia libera, organo del partito d’azione scriveva: ‘Agli operai di Torino l’onore di aver dimostrato che la libertà non si riconquista con i mormorii e con i clamori, ma con l’esercizio inflessibile dei propri diritti di cittadini e di uomini. E agli operai di Torino il vanto di aver rotto per primi l’artificiosa costruzione del fascismo e il suo regime d’intimidazione e di vergogna’. <45
I giorni seguenti furono carichi di tensione, sia per l’avvicinamento delle colonne tedesche verso il capoluogo, guidate dal generale Schlemmer, sia per l’atteggiamento del comandante della missione alleata in Piemonte, il colonnello Stevens, che aveva intenzione di ritardare, se non addirittura impedire, un’insurrezione che sarebbe potuta risultare difficile da controllare.
I torinesi si preparavano alla battaglia finale. I fascisti e i tedeschi erano asserragliati nelle caserme e nei comandi, senza ordini e senza collegamenti. La zona del centro, quella che resisterà più a lungo agli attacchi dei partigiani, era stata fortificata. Le diserzioni aumentavano, specie tra i soldati arruolati più per denaro che per fiducia in Mussolini.
Il CMRP, riunitosi in via Maccarelli, che il giorno successivo si sarebbe trasferito a Villa Pia di via Cibrario, emanava l’ordine di insurrezione generale. Erano le 19:00 del 24 aprile 1945.
[NOTE]
44 S. Musso, Industria e lavoro, in Torino in guerra, a cura di L. Boccalatte, G. De Luna, B. Maida, Gribaudo, Torino, 1995.
45 Articolo non firmato in «Italia libera» (citato da G. Padovani in op. cit.).
Claudio Tosatto, Il passato nell’epoca della sua (ri)producibilità digitale. Torino 1943-45. Metodologia della ricerca con tecnologie informatiche. Sistema storico-territoriale di informazione multimediale, Tesi di dottorato, Alma Mater Studiorum Università di Bologna, 2008

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Pensionato di Bordighera (IM)
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