L’amnistia di Togliatti, le restituzioni e i provvedimenti di natura economica

Completata l’opera di liberazione della Penisola, e liquidata, infine, l’esperienza della Repubblica collaborazionista di Salò, l’attività di allontanamento dei membri compromessi con il fascismo conobbe un progressivo accantonamento, divenendo necessità dei nuovi Esecutivi di coalizione guidati da De Gasperi, realizzare una politica di pacificazione nazionale, antecedente senza il quale nessun avvio democratico avrebbe potuto realizzarsi.
L’essenza di tale nuova politica conciliativa trovò attuazione, subito all’indomani della vittoria repubblicana al referendum istituzionale, nell’adozione, da parte del guardasigilli Togliatti, del provvedimento di clemenza contenuto nel decreto presidenziale 22 giugno 1946, n. 4. Con tale disposizione fu riconosciuta l’amnistia per tutti i delitti politici posti in essere dopo la liberazione sia ad opera delle formazioni fasciste repubblicane sia delle bande partigiane operanti nelle zone di occupazione germanica. <14 Rimasero esclusi dal beneficio i soli reati perpetrati da «persone rivestite di elevate funzioni di direzione civile o politica o di comando militare, ovvero (consistenti) in fatti di strage, sevizie particolarmente efferate <15, omicidio o saccheggio, (…) compiuti a scopo di lucro». L’approvazione di tale provvedimento, “stendendo un velo sul passato”, compromise definitivamente qualsivoglia possibilità di confronto e corretto superamento del medesimo, dando origine a quella che è solitamente definita «memoria divisa» <16.
La Seconda sezione penale della Cassazione, chiamata a riesaminare una quantità ingente di ricorsi proposti dai condannati in primo grado, interpretò le disposizioni della norma nel senso più garantista possibile, assicurando alla totalità o quasi dei fascisti e dei collaborazionisti (e ad un numero più esiguo di combattenti della Resistenza), la piena impunità relativamente agli eventi antigiuridici contestati <17. La particolare efferatezza nelle sevizie non venne quasi mai ravvisata, dando luogo a scarcerazioni che, non di rado, suscitarono lo sdegno e la riprovazione dell’opinione pubblica.
In presenza di condotte poste al limite tra l’attuazione e l’inapplicabilità del provvedimento, i giudici ritennero, infine, opportuno premiare i colpevoli, definendoli, non di rado, soggetti “traviati dalle circostanze e sorretti da aspirazioni comprensibili” <18.
Ciò detto, pare condivisibile, quindi, l’osservazione di Franzinelli, secondo il quale, per l’Italia repubblicana, desiderosa di edificare un presente pacificato dalle contrapposizioni del passato, le vittime vennero a costituire “una presenza scomoda, respinta sullo sfondo”, quando non addirittura: “fantasmi evanescenti, il cui destino dipese da circostanze imponderabili e di impossibile accertamento”.
La resa dei conti con il fascismo, congelata dalla mancata epurazione (circostanza essa sola, idonea ad attribuire alla medesima effettiva sostanza) finì, quindi, per conoscere quale unica disposizione di rilievo il divieto di riorganizzazione del disciolto partito fascista incorporato nella XII disposizione transitoria e finale della Costituzione, alla quale fu data, come noto, attuazione con la legge Scelba del 1952 <19.
La colpevole inerzia nella gestione del passato ebbe ad oggetto, infatti, anche le ulteriori misure che in epoca recente sono solite accompagnarsi alle fasi di transizione alla democrazia: le politiche di indennizzo e restituzione a favore delle vittime delle precedenti persecuzioni, la “file discolusure” e la predisposizione di processi giudiziari nei confronti dei carnefici del passato regime.
Particolarmente complessa e dai tratti persino disonorevoli si rivelò, infatti, la questione attinente alla restituzione delle proprietà espropriate o confiscate ai cittadini di fede ebraica sotto la vigenza delle leggi razziali del 1938. In forza delle medesime – ed in particolare del R.d.l. n. 1728/1938 – lo Stato italiano, aveva provveduto, attraverso l’istituzione di un ente appositamente costituito – l’EGELI (Ente di Gestione e Liquidazione Immobiliare) <20 – ad incamerare la totalità delle proprietà mobiliari e immobiliari ebraiche eccedenti rispetto le quote individuali consentite dalla legge <21.
Simile attività di spoliazione, in palese contrasto con l’unico diritto qualificato ed effettivamente considerato «sacro ed inviolabile» dallo Statuto albertino <22: il diritto di proprietà, aveva assunto, poi, accenti drammatici nel corso del governo illegittimo della Repubblica Sociale, allorché, con decreto legislativo n. 2/1944, le autorità del nuovo Stato repubblicano di Mussolini provvidero, a statuire la totale requisizione dei beni appartenenti ai cittadini di «razza ebraica», per i quali, in conformità delle disposizioni dell’ordine di polizia Guidi – era disposto l’arresto ed il trasferimento coatto nelle strutture di concentrazionarie organizzate dell’alleato nazista <23.
Venuto meno il fascismo, il governo Bonomi dichiarò immediatamente nulli i provvedimenti requisitori fino ad allora operanti, ma a tale riconoscimento non fece seguito, l’effettiva ricostruzione dei diritti patrimoniali dal regime conculcati <24, cosicché per giungere ad una qualche forma di restituzione si dovette attendere fino al 1957, anno in cui – a regime democratico ormai consolidatosi – il Governo repubblicano provvide alla dismissione dell’EGELI ed alla liquidazione del suo patrimonio. Fu in tale occasione, però, che episodi poco commendevoli vennero a gettare elevato oltraggio su un’operazione giuridicamente e moralmente dovuta: l’EGELI, nel momento in cui provvide al ritrasferimento dei beni ai proprietari, richiese agli espropriati, infatti, il pagamento delle spese di gestione dei beni loro sottratti, mentre l’Avvocatura Generale dello Stato non mancò di precisare, che in caso di mancata rivendicazione delle proprietà da parte degli originari titolari (come è evidente nel caso di cittadini deceduti nei campi di sterminio), lo Stato ne avrebbe acquisito la titolarità per intervenuta usucapione <25.
A fronte delle prevedibili indignazioni, la questione fu congelata, ma per trovare compiuta soluzione si dovettero attendere gli anni Novanta, allorché – con un ritardo di quasi sessant’anni – il Governo si risolse alla convocazione di un’apposita commissione ispettiva in materia <26, con legge 233/1997 e provvide a far approvare la restituzione dei beni giacenti e non rivendicati all’Unione delle comunità ebraiche, quale ente rappresentativo dei cittadini di fede israelita.
La prolungata resistenza dello Stato repubblicano provvedere alle dovute restituzioni fu solo in parte ricompensata dall’attivazione di una politica risarcitoria in favore delle vittime della deportazione. Il primo provvedimento in tal senso fu la legge Terracini del 1955 <27, a norma della quale vennero elargite «Provvidenze in favore dei perseguitati politici antifascisti, razziali e dei loro familiari superstiti». Ad essa fecero seguito la ripartizione della somma versata a titolo di indennizzo dal Governo della Repubblica Federale Tedesca a favore dei cittadini colpiti da misure di persecuzione nazionalsocialiste <28, e l’istituzione, con legge 18 novembre 1980, n. 791, di un assegno vitalizio a favore degli ex deportati nei campi di sterminio nazista, in seguito, più volte modificato allo scopo di adeguarne gli importi al mutato potere d’acquisto della moneta <29.
Non mancarono, però, anche in simili circostanze ritardi e polemiche. Fu solo nel 2003, infatti, che le Sezioni riunite della Corte dei Conti, risolsero il dubbio interpretativo circa l’identità dei beneficiari delle singole provvidenze. Il Supremo magistrato contabile, attraverso un significativo richiamo ai principi del diritto naturale e alle posizioni più volte assunte dal Giudice delle leggi, precisò, infatti, che il trattamento pensionistico avrebbe dovuto considerarsi esteso non solo alle vittime degli atti di violenza o sevizie poste in essere dalle milizie nazifasciste, bensì a tutti i cittadini di fede israelita che si trovarono assoggettati alla legislazione razziale del ’38, poiché
obiettivo precipuo della medesima era stato proprio «l’annientamento dell’identità socio-culturale della minoranza nel suo complesso considerata» <30.
Si trattò, come è evidente di un ritardo colpevole, al quale lo Stato italiano – data la venuta meno di gran parte dei possibili beneficiari – solo in parte riuscì a porre rimedio.
Se tali furono le linee essenziali della politica risarcitoria, approvata nei confronti degli ebrei perseguitati, completamente assente fu l’elargizione di provvidenze in favore delle vittime delle violenze e dei soprusi riconducibili non all’azione dall’occupante tedesco, bensì agli eserciti alleati durante l’opera di liberazione compiuta nella Penisola a far tempo dallo sbarco del luglio 1943. Emblematico al riguardo fu, senza dubbio, il caso delle c.d. «marocchinate», le violenze sessuali consumate ai danni di anziani, donne e bambine ad opera delle truppe franco-marocchine impegnate negli scontri presso la «linea Gustav». Come ha ricordato, il grande esperto di storia della
magistratura Speciale, tali violenze non vennero a costituire oggetto di alcun trattamento risarcitorio da parte dello Stato italiano, poiché il Governo francese – pur riconosciuta la natura criminale degli atti dai propri reparti compiuti – rifiutò di provvedere al versamento di somme a titolo di indennizzatrici, invitando lo Stato italiano ad operare una compensazione con le riparazioni di guerra da esso stesso dovute al Governo di Parigi a risarcimento dei danni di guerra provocati nel periodo di occupazione compreso tra il giugno 1940 ed il luglio 1943 <31.
Il Governo della Repubblica, difettando di risorse finanziarie sufficienti, mancò, ancorché numerose furono le iniziative parlamentari in tal senso, di provvedere a tali elargizioni, riconoscendo esclusivamente alle vittime – qualora fosse stato possibile ravvisarne i requisiti – il regime pensionistico ordinario previsto per le vittime dei danni di guerra <32. Fu solo nel 1987 che la Consulta si risolse a porre termine a tale discriminazione, dichiarando
incostituzionale la normativa pensionistica vigente nella parte in cui non prevedeva specificamente emolumenti risarcitori per i danni non patrimoniali provocati alle vittime delle violenze carnali nel corso dell’ultima guerra <33.
[NOTE]
14 La giustizia partigiana, come ricorda Franzinelli, ebbe origine nei momenti in cui imperversava ancora la guerra contro la Germania. Essa si trovò inizialmente ad operare in condizioni di emergenza, con tutti i limiti della vita “alla macchia”. Fu solo nella primavera del 1945 che, alle corti appositamente organizzate per punire i fascisti arrestati, si sostituirono i più stabili e noti Tribunali del popolo, operanti nell’orbita del CLNAI. Tali organi, come ha sottolineato Vassalli, costituivano veri e propri tribunali militari straordinari di guerra istituti secondo le norme degli artt. 283 ss. c.p.m.g. e 84 e ss ord. giud. mil. e chiamati ad applicare le norme dei codici penali comuni e militari. Le sentenze da essi emanate (e solo in parte eseguite), nella maggior parte dei casi redatte in poche righe e prive di esauriente motivazioni, condannarono senza appello alla pena capitale chiunque fosse stato ritenuto membro o collaboratore delle forze armate fasciste repubblicane. Al di fuori di queste forme di amministrazione della giustizia organizzate, la resa dei conti con il nemico, nelle grandi città dell’Italia settentrionale sfuggì di mano agli stessi partigiani, aprendo un vortice di odio e violenza personale di molti cittadini nei confronti non solo dei carnefici del regime, ma anche di uomini e donne per i quali si avvertivano forme di rancore privato. La popolazione si accanì nelle vendette, denunciando indiscriminatamente i vicini come “fascisti” e perseguendo il loro linciaggio. Da più parti si reclamarono giudizi sommari, la cui ingiustizia anche se evidente, si riteneva necessaria per “lavare il sangue con il sangue” e pareggiare il macabro conto con le rappresaglie compiute dai nazifascisti e gli eccidi che avevano insanguinato la ritirata tedesca. Cfr. M. FRANZINELLI, L’amnistia Togliatti. 22 giugno 1946, colpo di spugna sui crimini fascisti, cit., pp. 18-21 e G. VASSALLI, G. SABATINI, Il collaborazionismo e l’amnistia politica nella giurisprudenza della Corte di Cassazione, Roma, 1947, p. 26.
15 Dal punto di vista giuridico (oltre che linguistico) si trattava di una formulazione infelice. Il termine «sevizie» indica, come è evidente, atrocità già di per sé disumane. L’aggiunta della precisazione «con particolare efferatezza» servì quindi solamente ad ampliare l’arbitrio del giudicante, il quale, si vide autorizzato ad operare valutazioni discrezionali (e come tali discutibili) in riferimento al livello di bestialità dei torturatori e degli aguzzini. E’ stato reso noto che il dott. Notoli, magistrato dell’Ufficio di gabinetto del Ministero della Giustizia, avvertì Togliatti dell’equivocità della formula, ma egli, preferì soprassedere, mirando esclusivamente all’obiettivo della pacificazione nazionale. Il tema è ricordato da G. NEPPI MODONA, Togliatti guardasigilli, in A. AGOSTI (a cura di), Togliatti e la formazione dello Stato democratico, Milano, 1986, p. 291.
16 L’utilizzo dell’espressione «memoria divisa» risale all’inizio degli anni Novanta, quando gli storici iniziarono ad apprendere l’esistenza di forme di memoria alternative a quelle collettiva, propagandato dai poteri pubblici e dalla cultura dominante. Facendo ricorso alla definizione che ne dà John Foot, possiamo dire che essa «è la tendenza degli eventi a dar vita a narrazioni divergenti o contraddittorie, che vengono poi elaborate e interpretate in storie private così come in forme di commemorazione e rituali pubblici. Pur essendo spesso incompatibili tra loro, queste memorie coesistono. La politica, la ricerca storica e il cambiamento culturale influenzano gli alti e bassi di questo conflitto». Sul tema si rinvia a J. FOOT, Fratture d’Italia, Milano, 2009 (la definizione può leggersi a pag. 24); G. CONTINI, La memoria divisa, Milano, 1997 e R. BODEI, Il noi diviso. Ethos e idee dell’Italia repubblicana, Torino, 1998.
17 Sul punto si ricordi che in Italia, a differenza che in Germania, il diritto applicato nella fase della transizione non fu quello naturale, bensì le disposizioni retroattive contenenti forme di responsabilità oggettiva emanate dopo il 25 luglio (su tutte le citate norme di epurazione), le leggi dell’ordinamento precedente, violate all’inizio del regime e il Codice penale militare di guerra per la collaborazione con il tedesco invasore.
18 Applicando il provvedimento di amnistia, la magistratura rimise in libertà 4127 fascisti, 153 partigiani e 802 colpevoli imprecisati. I rei di omicidio e sevizie efferate che sebbene la propria condotta videro applicarsi il provvedimento di amnistia furono 2979, tutti compromessi con il passato regime. Di fronte all’ampia riprovazione della piazza, lo stesso Togliatti manifestò perplessità nei confronti della solerzia dimostrata dalla magistratura. Nella circolare telegrafica 2 luglio 1946, n. 9796/110 alle procure generali presso le Corti d’appello precisò che «quesiti posti et incidenti provocati in località periferiche da scarcerazione per amnistia di criminali fascisti mi inducono a ad attirare l’attenzione delle Signorie Loro su necessità che amnistia venga applicata secondo spirito legislatore che volle continuasse azione punitiva contro responsabili fascisti così come dicesi chiaramente in relazione introduttiva. Qualora sorgano in Loro dubbi circa estensione applicazione termini decreto, si orientino secondo categorie per cui in d.lg.lgt. 142/1945 venne stabilita presunzione collaborazionismo (…)». La magistratura si mostrò, tuttavia, recalcitrante alle indicazioni fornite dal ministero, ed anzi, quando la gravità del reato rendeva inapplicabile il provvedimento di amnistia, la Cassazione era solita annullare la condanna in primo grado e rinviare il processo a nuovo ruolo, designando quale foro competente una sede remota, estranea ai fatti e poco sensibile alla punizione dei colpevoli. Nel complesso, il processo di applicazione dell’amnistia conobbe ampia critica tra gli uomini della cultura antifascista, tra i quali figura senza dubbio il torinese Galante Garrone, storico e giurista che, in un articolo pubblicato su Il Ponte, senza perifrasi, accusò la magistratura di aver «sfruttato le manchevolezze, le contraddizioni, le dubbiezze del decreto di amnistia, e (…) impugnato il piccone della sua interpretazione per demolire tutte, o quasi tutte, le responsabilità del fascismo nuovo ed antico: quando, invece, sarebbe stato possibile e corretto distinguere fra le varie forme di collaborazione, graduare le responsabilità e negare il perdono a chi del perdono non era degno». A difesa dell’operato della magistratura si schierarono, invece giuristi come Antonio Visco e Franco Guernieri, i quali, in un libello apparso nel 1947, precisarono che: «è poco onesto riversare le incongruenze del decreto sulla Magistratura, (la quale) non ha fatto che applicarlo, come era suo dovere (…). La verità è che il Ministro da una parte voleva e dall’altra disvoleva, lasciando al magistrato il compito di conciliare l’inconciliabile. Il legislatore avrebbe dovuto essere (quindi) più preciso e deciso, nell’esprimere i propri intendimenti, assumendo di fronte al Paese la piena responsabilità politica delle norme emanate e non già abdicare la propria sovrana funzione, delegandone al giudice la precisazione del contenuto». L’ingerenza e le critiche del potere politico sull’operato della magistratura furono denunciate, invece dalla stessa Associazione dei magistrati, la quale approfittò dell’occasione per ribadire che «l’esercizio della funzione giurisdizionale, per la stessa sua natura non può formare oggetto di sindacato se non da parte degli organi della giurisdizione nelle forme e nei limiti delle ordinarie impugnazioni, e al di fuori di tale sindacato non può essere censurato il contenuto delle sentenze senza vulnerare la tutela del libero convincimento del giudice». Per approfondimenti sulle posizioni richiamate si rinvia ancora a Cfr. M. FRANZINELLI, L’amnistia Togliatti. 22 giugno 1946, colpo di spugna sui crimini fascisti, cit., pp. 37-66.
19 Come è stato sottolineato da Barile e De Siervo, la XII disposizione transitoria e finale della Costituzione costituisce un’eccezione al sistema costituzionale di libertà associativa e partitica posto «a salvaguardia dell’essenza stessa del sistema democratico». Per mezzo di tale disposizione ricevettero una collocazione di rango costituzionale norme già in precedenza emanate a livello primario (d.lg.lgt. 195/1945 e l. 1546/1947). L’attuazione di tale disposizione giunse solamente nel 1952, allorché fu approvata la l. 645/1952, più comunemente conosciuta come “Scelba”, dal nome dell’allora Ministro dell’Interno che propose il progetto di legge. In essa vennero esplicitamente individuate le caratteristiche che, se possedute da un movimento politico lo avrebbero qualificato come Partito fascista, autorizzando il suo scioglimento (deve trattarsi in particolare di associazione o movimento che persegue «finalità antidemocratiche proprie del Partito fascista, esaltando, minacciando o usando la violenza quale metodo di lotta politica o propugnando la soppressione delle libertà garantite dalla Costituzione o denigrando la democrazia, le sue istituzioni o i valori della Resistenza o svolgendo propaganda razzista, ovvero rivolge la sua attività all’esaltazione di esponenti principii, fatti e metodi propri del predetto partito, o compie manifestazioni esteriori di carattere fascista»). Tale ultimo potere non fu riconosciuto in capo ai giudici, ma attribuito al Ministero dell’Interno, il cui potere di intervento fu subordinato, tuttavia, alla pronuncia di una sentenza giudiziale nella quale risulti accertato il compimento di una delle predette condotte. La legge Scelba stabilì infine sanzioni penali in capo ai singoli individui colpevoli di aver dato luogo alla riorganizzazione o di aver realizzato condotte configurabili come «apologia di fascismo». Per un’analisi più dettagliata della XII disposizione transitoria e finale della Costituzione e della sua legge attuativa si rinvia ancora a P. BARILE., U. DE SIERVO, Sanzioni contro il fascismo e il neofascismo, cit., pp. 561-564.
20 Creato con legge 16 giugno 1939, n. 942.
21 L’art. 10 del Regio Decreto-legge 17 novembre del 1938, n. 1728 disponeva che i cittadini di razza ebraica non potevano. “d) essere proprietari di terreni che in complesso abbiano un estimo superiore a lire cinquemila; e) essere proprietari di fabbricati urbani, che in complesso abbiano un imponibile superiore a ventimila”. Come sottolinea Martone, ai cittadini ebrei veniva concessa la proprietà di un ettaro coltivabile o poco più ed un patrimonio immobiliare più consistente: tre o quattro appartamenti o un piccolo stabile o un villino. La parte “eccedente” doveva essere incamerata dallo Stato, il quale si impegnava a trasferire ai decaduti proprietari un diritto di credito garantito da titoli nominativi trentennali trasferibili tra soli cittadini ebrei. Al di là dei dati diffusi dalla propaganda, il reale valore delle proprietà possedute dai cittadini di religione ebraica (e quindi incamerate dallo Stato) fu inferiore alle aspettative, dando prova che l’immagine «dell’ebreo avido accaparratore» non costituiva più che uno stereotipo. Per approfondimenti sull’intera vicenda si cfr. L. MARTONE, L’infamia dimenticata: l’esproprio dei beni patrimoniali dei cittadini ebrei imposto dalle leggi del 1938-1939 ed il problema delle restituzioni, in L. GARLATI, T. VETTOR (a cura di), Il diritto di fronte all’infamia del diritto, cit., pp. 147-162.
22 Tale norma riconosceva, come è noto, il diritto di proprietà, uno dei pochi fino ad allora non svuotato di significato dal regime fascista. Il diritto di proprietà trovava precisa statuizione, altresì, nell’art. 436 dell’allora vigente Codice civile del 1865, nel quale veniva specificamente precisato che «la proprietà è il diritto di godere e disporre delle cose nella maniera più assoluta, purché non se ne faccia un uso vietato dalla legge e dai regolamenti».
23 Per maggiori approfondimenti sulla spoliazione nel periodo compreso tra il 1943 e il 1945, si rinvia a M. SARFATTI, La normativa antiebraica del 1943-1945 sulla spoliazione dei beni, pubblicato senza firma in Rapporto generale della Commissione per la ricostruzione delle vicende che hanno caratterizzato in Italia le attività di acquisizione dei beni dei cittadini ebrei da parte di organismi pubblici e privati, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento per l’informazione e l’editoria, Roma, 2001, pp. 89-114.
24 Il problema è al giurista evidente: occorreva tutelare l’affidamento dei nuovi acquirenti. Al riguardo il d.lg.lgt. n. 393/1946, dimostrando poca sensibilità sul tema, abbreviò i termini dell’usucapione ordinaria da dieci a tre anni: se entro tre anni, infatti, il cittadino spogliato non provvedeva ad esercitare formale azione di rivendicazione, il nuovo proprietario ne avrebbe acquistato il diritto a tutti i sensi di legge.
25 Cfr. http://www.governo.it/Presidenza/DICA/beni_ebraici/PAG253_260.pdf
26 Si tratta della Commissione per la ricostruzione delle vicende che hanno caratterizzato in Italia le attività di acquisizione dei beni dei cittadini ebrei da parte di organismi pubblici e privati, istituita con D.P.C.M. 1° dicembre 1998 e presieduta dall’On. Tina Anselmi. I lavori della Commissione sono stati pubblicati nell’aprile 2001.
27 Legge 10 marzo 1955 n. 96. Invero, la legge Terracini fu ideata per risarcire i perseguitati politi e, solamente, con un emendamento di poco precedente alla sua approvazione fu estesa ai cittadini italiani perseguitati in ragione della loro appartenenza alla razza ebraica. In base a tale provvedimento, possono beneficiare del trattamento pensionistico solo coloro che, ridotti nella loro capacità lavorativa, abbiano subito «atti di violenza o sevizie in Italia o all’estero ad opera di persone alle dipendenze dello Stato o appartenenti a formazioni militari o paramilitari fasciste o di emissari del Partito fascista». Rimangono, pertanto, esclusi dalla concessione del beneficio tutti coloro che non hanno subito una limitazione della loro capacità lavorativa e che non siano stati, al contempo, soggetti a violenza fisica. Nessun indennizzo è previsto, quindi, per i cittadini che hanno subito forme di discriminazione e perdita di chance, per effetto dell’approvazione delle leggi razziali: i dipendenti pubblici e privati licenziati ex lege, gli espulsi dalle scuole, i radiati dagli ordini professionali. Per vedere riconosciute forme di indennizzo anche nei confronti di questi soggetti, si dovette attendere l’approvazione della legge 17/1978, per mezzo della quale fu apertamente riconosciuto in capo ad essi l’esistenza di un «pregiudizio morale» derivante dalla legislazione del 1938. Per maggiori approfondimenti si rinvia a G. SPECIALE, Il risarcimento dei perseguitati politici e razziali: l’esperienza italiana, in G. RESTA, V. ZENCOVICH, Riparare Risarcire Ricordare. Un dialogo tra storici e giuristi, cit., pp. 115-137.
28 D.P.R. 6 ottobre 1963, n. 2043, «Norme per la ripartizione della somma versata dal Governo della Repubblica Federale di Germania, in base all’Accordo di Bonn del 2 giugno 1961, per indennizzi a cittadini italiani colpiti da misure di persecuzione nazionalsocialiste».
29 La legge 18 novembre 1980, n. 791, costituì una vera e propria svolta nella tradizione risarcitoria italiana. Il trattamento economico attribuito – a seguito di una lunga riflessione giuridico-politica sviluppatasi tra gli anni Sessanta e Settanta sulla base dei nuovi valori costituzionali – non conobbe più la propria origine nella limitazione della capacità lavorativa del beneficiario, ma venne a costituire un risarcimento solidale e collettivo nei confronti delle vittime di determinati avvenimenti storici.
30 La sentenza richiamata è la pronuncia sulla questione di massima n. 8 del 25 marzo 2003 (Padoa c. Ministero dell’Economia), nella quale la Corte dei Conti risolve il lungo contrasto giurisprudenziale in merito alla necessità o meno di un quid pluris alla mera soggezione alle leggi razziali, al fine di poter ottenere il trattamento pensionistico stabilito dalla legge Terracini e s.m.i. La complessa argomentazione è chiaramente analizzata da Speciale in I.D., Il risarcimento dei perseguitati politici e razziali: l’esperienza italiana, in G. RESTA, V. ZENO-ZENCOVICH, Riparare Risarcire Ricordare. Un dialogo tra storici e giuristi, cit., pp. 115-137 a cui ancora una volta si rinvia. Preme qui esclusivamente sottolineare il richiamo che il giudice estensore opera ai principi del diritto naturale: obiettivo delle leggi razziali era quello di annientare un’identità socio-culturale e pertanto sulla base di esse, secondo un principio generale di giustizia, vittime ne sarebbero stati tutti gli appartenenti al gruppo, indipendentemente dal patimento del singolo atto discriminatorio e persecutorio. Simili argomentazioni sembrano richiamare quelle esposte da Bassano, in uno dei pochi scritti dottrinali pubblicati in Italia sul caso Eichmann. L’avvocato livornese non ravvisò, infatti, una violazione delle regole generali sul locus commissi delicti nell’attribuzione del giudizio al Tribunale di Gerusalemme, proprio perché gli atti avrebbero dovuto considerare offensivi dell’umanità intera ed in particolare perseguibili dalla Corte dello Stato, fattosi rappresentante della comunità che il padre della soluzione finale aveva cercato di cancellare. Su quest’ultimo punto cfr. U. BASSANO, Riflessioni sul caso Eichmann, in Raccolta di scritti in onore di Arturo Carlo Jemolo, Milano, 1963, p. 49 e E. DE CRISTOFARO, Gradi di memoria. I giuristi italiani e i processi ai criminali nazisti, in http://laboratoireitalien.revues.org/582 (consultato il 26 ottobre 2014). Non si può omettere di ricordare, però, che, nonostante la chiarificazione del Magistrato in merito alla titolarità dei benefici, non si è avuto pieno adeguamento in materia da parte della successiva giurisprudenza ordinaria.
31 Cfr. ancora G. SPECIALE, Il risarcimento dei perseguitati politici e razziali: l’esperienza italiana, in G. RESTA, V. ZENO-ZENCOVICH, Riparare Risarcire Ricordare. Un dialogo tra storici e giuristi, cit., p. 115.
32 La concessione dei benefici per danni di guerra era limitata alla presenza di una malattia in capo alla vittima che ne limitasse la capacità lavorativa (e quindi il reddito) e permaneva fino a quando tale menomazione continuasse a sussistere.
33 Si tratta della sent. n. 561 del 18 dicembre 1987, in cui il giudice a quo chiede alla Corte di valutare la legittimità costituzionale, alla luce degli artt. 2 e 3 della Costituzione, delle norme che limitano il trattamento pensionistico di guerra ai soli casi di menomazioni fisiche comportanti una riduzione della capacità lavorativa, escludendo il risarcimento dei danni non patrimoniali patiti dalle vittime di violenze carnali consumate in occasione dei fatti bellici. In sostanza, la Corte viene chiamata per la prima volta a valutare se la violenza carnale in quanto tale – a prescindere dalle lesioni o infermità che ne siano eventualmente derivate – possa costituire o meno titolo al risarcimento dei danni non patrimoniali patiti. Il Giudice delle leggi, richiamando due sue precedenti pronunce (n. 88/79 e 184/1986) ribadisce che la violenza carnale “costituisce nell’ordinamento giuridico penale (…) grave violazione di uno degli essenziali modi di espressione della persona umana” e che “il diritto di disporne liberamente (…) deve essere inquadrato tra i diritti inviolabili della persona umana che l’art. 2 impone di garantire”. Per tali motivi gli indennizzi riconosciuti dallo Stato non possono riferirsi “alle sole conseguenze della violazione incidenti sull’attitudine a produrre reddito, ma devono comprendere anche gli effetti della lesione al diritto, considerato come posizione soggettiva autonoma, indipendentemente da ogni altra circostanza e conseguenza”.

Mirko Della Malva, Diritto e memoria storica nell’esperienza giuridica comparata: il difficile bilanciamento tra tutela della dignità delle vittime, libertà di manifestazione del pensiero, protezione della democrazia, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Milano, Anno Accademico 2013-2014

Informazioni su adrianomaini

Pensionato di Bordighera (IM)
Questa voce è stata pubblicata in Senza categoria e contrassegnata con , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , . Contrassegna il permalink.

Lascia un commento