Mannori e il soldato Boemio Bertoletti ucciso da una fucilata in Corso Mazzini sono da considerarsi i primi caduti della Resistenza savonese

Savona: Fortezza del Priamar. Foto: Marco Freccero

Erano le 19,45 dell’8 settembre 1943 quando il Maresciallo d’Italia Pietro Badoglio lesse alla radio il proclama con cui annunciava la conclusione di un armistizio con gli Alleati. Fu il caos: la festa più sfrenata, il dolore, la lucida cognizione di un grave rischio incombente si mischiarono in modo inestricabile nelle ore successive. Alla gioia dei più corrispondeva la mestizia di chi aveva perso i cari e gli amici, quando non la casa, nel corso del conflitto; i più raziocinanti, giunti pronti a questo appuntamento della storia, sapevano con dolente certezza che il peggio doveva ancora venire. Mentre il proclama di Badoglio veniva ripetuto ogni quarto d’ora, a scandire la rovina d’Italia, le campane di città e paesi della costa come dell’entroterra suonavano a festa <1. I soldati, in particolare, si scatenarono: ad Albenga ”sembra[va]no impazziti” e “vola[va]no le brande alle [sic] finestre” <2. Molti civili approfittarono della confusione e del cedimento della disciplina militare per saccheggiare i depositi dell’Esercito sparsi nella provincia: ingenti quantità di derrate alimentari vennero sottratte all’amministrazione delle Forze Armate. I più decisi e previdenti imboscarono armi da utilizzare eventualmente in seguito, come per esempio fecero i fratelli Botta impadronendosi del deposito della Milizia a Bricco Ridotta, presso Dego <3. Mentre pattuglie militari in servizio di ordine pubblico tentavano vanamente di far rispettare il coprifuoco alle folle esultanti, i nostri comandi chiedevano affannosamente lumi circa il comportamento da tenere verso gli ex alleati tedeschi. I pochi ordini giunsero in ritardo ed erano di una ambiguità imbarazzante. Bisognava lasciar passare i tedeschi, non considerarli nemici… <4 Indicazioni più precise (reagire vigorosamente a qualsiasi tentativo di disarmo da parte tedesca) giunsero dal Ministero della Guerra solo nella mattinata del 9 <5, quando le unità italiane nel Savonese erano quasi tutte in balia dei tedeschi. Questi, sole tre ore dopo la proclamazione dell’armistizio, avevano già ordini chiarissimi: “nelle posizioni disarmare con le parole: la guerra per i soldati italiani è finita; essi verranno trasferiti nella vita civile. Occupare le line telefoniche. Ogni comunicazione interurbana deve essere vietata. Mettere al sicuro le armi e il materiale bellico. Riferire sull’avvenuta preparazione” <6. In base a queste poche parole le unità germaniche bloccarono durante la notte tutti i punti strategici della provincia di Savona. La mattina successiva il capoluogo era saldamente in mano agli aggressori, che non ebbero quasi bisogno di sparare perché la massa dei nostri reparti si squagliò come neve al sole. Ad alleggerire la posizione dei militari italiani va detto che le unità tedesche, pur inferiori di numero, erano molto meglio armate e obbedivano a precise disposizioni. Quasi tutti i reparti del Regio Esercito di stanza a Savona riuscirono, prima di sbandarsi, a distruggere, occultare o consegnare a civili buona parte dei loro armamenti. In particolare il col. Vittorio Onori, comandante dell’11° Raggruppamento di Artiglieria G. A. F., non lasciò nulla in mano ai tedeschi, facendo distruggere tutte le munizioni. Nella città scossa da sporadici spari e scoppi isolati la popolazione reagì con paura. I più si chiudevano in casa, altri approfittavano del caos per impadronirsi di fucili, bombe a mano, munizioni, coperte, scarponi, teli da tenda da nascondere poi in case e cantine. Alla caserma degli avieri, alla Villetta, furono recuperati un centinaio di moschetti; al grattacielo operai dell’Ilva ottennero la consegna delle armi individuali e di una mitragliatrice Skoda da un gruppo di sbandati <7. Al Porto la situazione era drammatica. Alle sette del mattino del 9 il comandante della Capitaneria di Porto, Enrico Roni <8, aveva ricevuto da Genova l’ordine di non lasciare una sola nave ai tedeschi: doveva farle salpare o affondarle <9. I savonesi e i tedeschi che raggiunsero il porto non poterono che assistere al mesto spettacolo di dieci navi autoaffondate nell’acqua annerita dalla loro nafta, mentre altre sei navi riuscivano a salpare appena in tempo (ma due cacciatorpediniere saranno comunque catturati) <10. Il comandante Roni temeva reazioni spropositate da parte dei militari germanici, cosa che fortunatamente non avvenne. Egli riuscì in qualche modo a tenere a bada i tedeschi e nello stesso tempo a smobilitare il personale, salvando capra e cavoli con il suo sangue freddo.Nelle sue memorie Roni ricorda il contributo dei lavoratori portuali al salvataggio delle navi dalla cattura per mano nemica; ciononostante, la sua solitudine nel prendere certe decisioni era evidente, così come l’isolamento del porto dalla città. Mentre per le vie cittadine semideserte i tedeschi transitavano sparacchiando e gruppi di giovani passavano furtivamente di strada in strada alla ricerca di armi, quella del porto era una vicenda militare che sembrava appartenere ad un altro mondo. Al futuro comandante sapista Nanni Rebagliati, operaio portuale, le dieci navi autoaffondate parevano simboleggiare la paralisi stessa in cui Savona si era progressivamente venuta a trovare. Su tutto gravava una sensazione diffusa di impotenza e timore. A Finale Marina un reparto comandato da un maggiore e schierato nella piazza principale in assetto di guerra si diede alla fuga alla notizia del prossimo arrivo dei tedeschi. “Si vede – commentarono i finalmarinesi – che erano armati tutti contro di noi, e non contro i tedeschi” <11.
Gli episodi di resistenza da parte italiana si contarono sulla punta delle dita, ma vanno ugualmente ricordati. A Vado Ligure un reparto di alpini e una colonna tedesca si fronteggiarono armi in pugno dalle 11 alle 16 del 9 settembre presso il ponte sul torrente Segno. I nostri erano decisi a sparare se necessario, pur di impedire il transito al nemico; giovani operai armati con fucili e una mitragliatrice erano pronti a dare loro man forte per quanto possibile. Ma le notizie disastrose comunicate da alcuni ufficiali indussero gli alpini a desistere, mentre gli operai si accorgevano di aver recuperato armi preventivamente rese inservibili <12. A Ferrania, in Val Bormida, con i tedeschi già appostati sulla strada statale Savona – Torino, un reparto italiano di fanteria si trincerò con armi pesanti nelle Distillerie Sice e vi rimase per giorni, appoggiato dalla gente del posto che riforniva i soldati di viveri. Alla fine la mancanza di ordini e di una qualunque prospettiva spinse anche questi coraggiosi a sbandarsi, chi verso casa, chi in montagna <13. Esito tragico ebbe l’unico serio scontro tra tedeschi e italiani nel capoluogo. Gli Autieri del 15° Reggimento, spalleggiati da una batteria contraerea, combatterono per giorni fino all’esaurimento delle munizioni, poi dovettero arrendersi. I tedeschi, inferociti, ne uccisero alcuni e deportarono gli altri <14. Meno drammatica ma assai amara fu la vicenda che si consumò al Colle di San Bernardo, tra Albenga e Garessio. Il colonnello Gerolamo Pittaluga decise di trasferire verso i monti del Cuneese le forze schierate tra Ventimiglia ed Albenga <15. Partita il pomeriggio del 9, la lunga colonna si sfilacciò tra sbandamenti e diserzioni per poi attestarsi sul Colle di San Bernardo; ma la mattina dopo Garessio era già occupata da ingenti forze germaniche. Vista la mala parata, non restava che trattare la resa. I tedeschi promisero la libertà in cambio del disarmo; poi, con tipico senso dell’onore militare, deportarono tutti ad Acqui Terme <16, e da lì in Polonia nei tristemente noti stalag. Pochi furbi riuscirono a dileguarsi fra le montagne: a Garessio si contarono 3000 prigionieri e un ingente bottino di armi leggere e pesanti <17.
Non vi furono altri episodi di resistenza militare degni di nota. Nel volgere di due – tre giorni l’Esercito italiano di stanza nel Savonese venne frantumato e disperso come polvere nel vento. I tedeschi erano i nuovi padroni e lo fecero capire subito. Quando a Savona, la mattina del 9, il portuale Mannorino Mannori lanciò contro un’autovettura tedesca una bomba a mano che non esplose, i militari gli corsero dietro e lo catturarono. Il suo cadavere crivellato di proiettili fu ritrovato giorni dopo a Montemoro, sulla strada per Cadibona <18. Mannori e il soldato Boemio Bertoletti ucciso da una fucilata in Corso Mazzini <19 sono da considerarsi i primi caduti della Resistenza savonese.
Frattanto già nella mattinata del 9 si riuniva febbrilmente nella sede dell’Associazione Combattenti di Savona (da poco presieduta dall’avv. Cristoforo Astengo) il Comitato d’Azione Antifascista. Vi presero parte una ventina di rappresentanti di tutti i partiti e quattro ufficiali (tre colonnelli e un capitano dei Carabinieri). Questi erano latori di una singolare proposta del comando germanico, che sarebbe stato disposto ad affidare la tutela dell’ordine pubblico in Savona a 100 cittadini scelti dal Comitato stesso e armati dai tedeschi. Si trattava evidentemente di un’abile manovra volta a compromettere le forze politiche democratiche con gli occupanti e al tempo stesso a tenere sotto controllo cento antifascisti della città che certo sarebbero stati scelti fra i più noti ed influenti. Inizialmente, per quanto possa sembrare incredibile, il Comitato parve ben disposto verso la proposta tedesca, tanto da affidare al PCI, in quanto forza meglio organizzata (o più sacrificabile?), il compito di scegliere i 100 nominativi. Grosse perplessità vennero comunque espresse da più di un membro del Comitato. I comunisti si consultarono allora riunendo il proprio Comitato Federale; in tale sede Giancarlo Pajetta, in quei giorni a Savona, dichiarò tutta la sua contrarietà all’accordo con i nazisti e lanciò la parola d’ordine della lotta armata e della ribellione. Confortati dalle parole dell’esponente comunista, i membri del Comitato d’Azione Antifascista respinsero l’ambigua offerta tedesca <20.
Il clima si era fatto pesante. Con il passare dei giorni la Wehrmacht consolidò il suo potere sulla regione con la consueta serie di manifesti bilingui e di volantini aerodiffusi che minacciavano la pena di morte per qualunque minima violazione. In città la vita era blindata: il coprifuoco era rigoroso, i cinema chiusi, le banche non potevano versare più di mille lire ai clienti <21. Il mese di settembre 1943 vide i tedeschi impegnati nelle seguenti attività: 1) caccia agli sbandati del disciolto Regio Esercito e agli ex prigionieri di guerra fuggiti; 2) battaglia propagandistica con gli Alleati; 3) rigenerazione delle autorità fasciste e coordinamento con le medesime. Procediamo con ordine. L’aiuto dato dalle popolazioni dell’entroterra e della Riviera ai soldati fuggiti dai loro reparti per non farsi catturare dai tedeschi fu qualcosa di commovente. Migliaia di uomini riuscirono a sfuggire alle strette maglie della sorveglianza nazista con gli espedienti più vari. Il più semplice consisteva nel procurarsi abiti civili presso qualche famiglia generosa e saltare sul primo treno per casa, sperando di non incappare nei minuziosi controlli dei tedeschi, che fermavano chiunque mostrasse giovane età, sana costituzione e si trovasse lontano dal proprio domicilio. In più, i fuggitivi erano spesso traditi dagli scarponi militari <22. Accadeva anche, durante queste ispezioni, che giovani donne prendessero a braccetto i militari in abiti civili per distogliere da essi l’attenzione dei soldati tedeschi. Alcuni, più furbi o più fortunati, si organizzavano con criterio. Rocambolesco fu, per esempio, il ritorno a casa di Enrico De Vincenzi (poi l’ufficiale alle operazioni “Kid” nel distaccamento “Torcello”) dalla Slovenia a Mestre e da lì a Milano con un falso tesserino da ferroviere <23. C’erano poi coloro che, lontani da casa, preferivano cercarsi un rifugio sicuro per far passare la buriana e tornare poi dai propri cari alla chetichella. Riuniti in piccoli gruppi, quasi sempre poco o punto armati, potevano contare sulla solidarietà di contadini e montanari che, in zone isolate, si prestavano ad ospitarli temporaneamente a proprio rischio e pericolo. Lo stesso discorso vale a proposito dei prigionieri di guerra fuggiti l’8 settembre dai campi di concentramento (a Cairo ne esisteva uno da cui riuscirono ad evadere alcuni jugoslavi). Si ritiravano in zone impervie dove sopravvivevano con l’aiuto dei contadini locali. Alcuni fortunati – ufficiali britannici, di solito – riuscivano a farsi condurre fino in Svizzera o in Corsica per il tramite di organizzazioni legate ai servizi segreti alleati, come la OTTO <24. La maggior parte si aggregò invece con gli sbandati italiani e i “ribelli” politicizzati per formare le prime bande partigiane, anche se tale dinamica nel Savonese propriamente detto fu scarsa e tardiva. In ogni caso, dato il numero complessivo degli sbandati, la loro cattura fu un fenomeno che si protrasse per mesi, e se il grosso degli arresti avvenne nelle prime settimane dopo l’8 settembre la condizione dei superstiti alla macchia si aggravò con il bando Graziani, che ne fece dei disertori e quindi dei “banditi”. Si può dire che nei primi mesi dell’occupazione tedesca in Liguria, dopo gli ebrei, i militari sbandati, italiani e non, siano stati oggetto della caccia più metodica e affannosa.
Quanto alla battaglia propagandistica con gli Alleati, essa fu combattuta per lo più a base di manifesti e volantini aerodiffusi che invitavano gli sbandati a presentarsi, i fascisti a rialzare la testa e i sovversivi a non osare nulla contro il potere nazista se volevano salva la vita. “Il Duce è con noi!” titolavano i volantini lanciati il 15 settembre sulla costa ligure e sull’entroterra <25. Ancora il 17 e 18 settembre la Luftwaffe inondò Varazze, Finale, Alassio e Savona di volantini con minacce agli sbandati, a chi aiutava i soldati alleati evasi, a chi osasse sabotare la macchina bellica tedesca <26. Dopo il bastone, la carota: i volantini lanciati il 21 settembre invitavano ufficiali e soldati italiani ad entrare nella Wehrmacht <27. Il giorno seguente i volantini nazisti deprecavano il “biasimevole comportamento della Flotta italiana” <28. In sostanza i testi avevano il duplice scopo di blandire e intimidire una popolazione ancora oscillante e “recuperabile”. Gli obiettivi fondamentali restavano quelli di tener buoni con le minacce i civili e di rintracciare e neutralizzare gli sbandati, possibili nuclei di germinazione di unità “ribelli” <29. Quanto alla propaganda alleata, fino alla fine del mese essa fu molto intensa. Migliaia di volantini furono lanciati dagli aerei britannici e statunitensi. I più interessanti invitavano civili e militari ad unirsi per cacciare i tedeschi “eterno nemico” degli italiani, riportavano incoraggiamenti del Presidente F. D. Roosevelt ai democratici italiani, chiedevano alla popolazione di aiutare i militari alleati fuggiti dai campi di prigionia arrivando addirittura a promettere ricompense in denaro <30. Se nella propaganda tedesca prevale la componente… “pedagogica” (richiami, bacchettate, ammonizioni, blandizie) in quella alleata si nota un superficiale ottimismo che lo scrivente ritiene legato alla gran fretta di sfruttare l’emozione del momento e le “leggende” diffuse tra la popolazione (imminente crollo della Germania, e altre che citerò in seguito).
Infine, il reinsediamento delle autorità fasciste, voluto da Hitler per opportunità politica ma anche per amicizia personale verso Mussolini, fu messo in pratica dai tedeschi con molta calma, perché ormai essi diffidavano di qualsiasi italiano che non fosse alle loro dirette dipendenze. Il 15 settembre Mussolini aveva annunciato la nascita del Partito Fascista Repubblicano, con Alessandro Pavolini per segretario. I compiti del nuovo partito consistevano essenzialmente nell’appoggiare i tedeschi e nel dare la caccia “ai vili e ai traditori” del 25 luglio. E’ sottinteso che per gli antifascisti i giorni “felici” del carcere e del confino erano finiti; ora, con le SS e la Gestapo in casa, c’erano il lager e la fucilazione. Mentre i fascisti si riorganizzavano in squadre punitive per far rimangiare a qualcuno l’esultanza del 25 luglio, approfittando delle identificazioni operate in tale circostanza dalla Questura <31, i tedeschi concessero alle Forze Armate italiane di tornare ad esistere, se non altro almeno per neutralizzare tutti quei militari che non erano riusciti a catturare. Gli ufficiali e i soldati che l’8 settembre si erano trovati in servizio nel Savonese dovevano presentarsi entro il 27 dello stesso mese alla caserma dell’11° G. A. F. a Savona o alla caserma – deposito del 29° Artiglieria ad Albenga <32.
Prima che la macchina dell’oppressione nazifascista si chiudesse come una morsa sulla società savonese si ebbe un ultimo episodio di democrazia “badogliana”. Con la città già in mani tedesche il Prefetto di Savona, Defendente Meda, che aveva sostituito Enrico Avalle il 6 settembre, invitò i rappresentanti degli operai dell’ILVA e di altre fabbriche ad un colloquio con il nuovo Commissario ai sindacati, Berio. Parteciparono alla riunione anche il direttore dell’ILVA, Grosso, il suo vice, Gigli, e il Presidente dell’Unione degli Industriali <33. A nome delle maestranze Giuseppe Ghiso e Agostino Siccardi dichiararono che i lavoratori non intendevano accettare supinamente l’occupazione nazista ed erano contrari a qualunque intromissione tedesca nella vita delle aziende; essi inoltre avrebbero lottato per la pace e la libertà con ogni mezzo. Il Prefetto espresse il suo apprezzamento, ma di lì a poco perse a sua volta il posto. A metà settembre il lavoro, rimasto a lungo sospeso, riprese regolarmente in tutte le fabbriche. Gli operai sciolsero le Commissioni interne e serrarono i ranghi. La lunga notte era appena all’inizio.
[NOTE]

  1. N. De Marco – R. Aiolfi, Bombe su Savona. La demolizione dei cassari, Savona, Comune di
    Savona, 1995, p. 79.
  2. R. Lucifredi, Rottami, Oneglia, Dominici, 1982, p. 22.
  3. R. Badarello – E. De Vincenzi, Savona insorge, Savona, Ars Graphica, 1973, p. 312.
  4. G. Gimelli, Cronache militari della Resistenza in Liguria, Farigliano (CN), Milanostampa, 1965 – 69, vol. I, p. 24.
  5. R. Lucifredi, op. cit., p. 35.
  6. G. Gimelli, op. cit., vol. I, p. 25.
  7. Badarello – De Vincenzi, op. cit., p. 55.
  8. Il Ten. Col. Roni lasciò l’incarico dopo gli eventi qui narrati. Fu reintegrato nella sua carica alla Liberazione.
  9. Accenni agli avvenimenti del Porto di Savona del 9 settembre 1943 si trovano in 8 settembre 1943: atti della giornata di studio, La Spezia, 19 novembre 1993, Genova, Isr Liguria, 1994, pp. 146 – 9.
  10. G. Gimelli, op. cit., vol. I, p. 227.
  11. E. Caviglia, Diario (aprile 1925 – marzo 1945), Roma, Casini, 1952, p.451.
  12. Cfr. G. Gimelli, op. cit., vol. I, p. 32 e R. Badarello – E. De Vincenzi, op. cit., pp. 55 – 56.
  13. G. Gimelli, op. cit., vol. I, pp. 32 – 33.
  14. Ibidem, vol. I, p. 33.
  15. Ibidem, vol. I, pp. 31 – 32. Le peripezie della colonna che da Albenga risalì verso Garessio sono narrate in R. Lucifredi, op. cit.
  16. Vedi R. Lucifredi, op. cit., capp. III – IV.
  17. G. Gimelli, op. cit., vol. I, p. 32.
  18. Badarello – De Vincenzi, op. cit., pp. 56 – 57.
  19. De Marco – Aiolfi, op. cit.
  20. G. Gimelli, op. cit., vol. I, pp. 71 – 72; Badarello – De Vincenzi, op. cit., p. 57.
  21. De Marco – Aiolfi, op. cit., p. 79.
  22. E. De Vincenzi, O bella ciao. Distaccamento Torcello, Milano, La Pietra, 1975, p. 11.
  23. Ibidem, p. 11.
  24. G. Gimelli, op. cit., vol. I, pp. 101 e segg.
  25. Ibidem, vol. I, pp. 47 – 48.
  26. Ibidem, vol. I, p. 48.
  27. Ibidem, vol. I, p. 49.
  28. Ibidem, vol. I, p. 49.
  29. Ibidem, vol. I, pp. 50 – 51.
  30. Ibidem, vol.I, pp. 49 – 50.
  31. 8 settembre 1943: … cit., p. 145.
  32. G. Gimelli, op. cit., vol. I, pp. 56 – 57.
  33. Badarello – De Vincenzi, op. cit., pp. 58-59.
    Stefano d’Adamo
    , Savona Bandengebiet – La rivolta di una provincia ligure (’43-’45), Tesi di Laurea, Università degli Studi di Milano, Anno accademico 1999/2000

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