Se non ci fossero stati i civili, forse non avremmo superato la crisi

Giaveno (TO). Foto: Elio Pallard su Wiki Commons

L’inverno è per antonomasia il grande nemico per le bande partigiane in val Sangone. Freddo e fame sono avversari temibili, a cui si somma la mancata attuazione del piano insurrezionale, che crea fra i combattenti grande insoddisfazione.
A peggiorare la situazione giunge il proclama di Alexander che, invitando i partigiani a rimandare e smobilitare le azioni in grande stile, diffonde in valle un forte sentimento di abbandono e delusione per le promesse infrante. Anche i lanci di aiuti alimentari e armi si sono diradati e i soli due effettuati a novembre [1944] non sono rivolti ai partigiani, quanto ai prigionieri alleati.
A far precipitare la situazione sono i tedeschi, che attuano un nuovo rastrellamento. La sera del 26 novembre un reparto tedesco, armato di mortai e di mitragliatrici pesanti, risale la collina della Verna di Cumiana, sullo spartiacque Chisola-Sangone. Sfruttando l’oscurità della notte, circonda su tre lati la Verna, senza essere visto dalla pattuglia di guardia.
Quando l’attacco si palesa è ormai troppo tardi per trarsi in salvo; 14 morti partigiani e 5 civili è il triste bilancio dell’azione, con una decina di uomini catturati. La mattina del 27 le truppe tedesche si spostano in val Sangone.
L’attacco è diverso rispetto a quello di maggio: anziché spingere l’azione verso l’alta valle, i tedeschi occupano le creste montane e di qui, giornata per giornata, rastrellano fino ad una certa quota dirigendosi su Giaveno, verso la quale puntano anche le forze che salgono dal fondovalle. <77
“Pensavamo ad un rastrellamento come a maggio, dall’alto e dal basso, e avevamo pensato di resistere spostandoci a piccoli gruppi da un punto all’altro della montagna, sfruttando i nascondigli che avevamo preparato. Non più i combattimenti del 10 maggio, insomma, ma una tattica difensiva per far credere ai tedeschi che non eravamo numerosi. D’altra parte un certo numero di noi, forse il trenta per cento era sceso in pianura, non c’era l’organico solito”. <78
La tattica non ha successo nella zona di Forno, poiché Giuseppe Falzone ha diviso la banda in piccoli gruppi, con rifugi sotterranei ben occultati dall’esterno. I tedeschi scendono dal Col del Bes attaccando la brigata “Lillo Moncada” e la “Campana”, trovandole impreparate.
Intuendo la tattica nemica, Federico Tallarico e Guido Usseglio ordinano ai propri uomini di ritirarsi verso la val Chisone, per poi disperdersi in pianura.
Le atrocità commesse superano di gran lunga quelle precedenti: fanciulle violentate, bambini uccisi, contadini freddati senza motivo, incendi, rapine. Nonostante ciò, il tentativo di chiudere in una morsa i partigiani è fallita. Grazie all’esperienza di lunghi mesi di guerriglia e ad un miglior coordinamento tra le bande, i ribelli riescono a superare con perdite limitate il rastrellamento.
Non tutti i partigiani sono tuttavia ugualmente fortunati. Mario Greco e i suoi compagni della brigata Ferruccio Gallo cercano di scappare dalla morsa dei rastrellatori dirigendosi verso la pianura. Ma Mario non riesce a tenere il passo dei suoi degli altri partigiani. “Purtroppo lui era malato di polmonite e quindi molto debilitato. Rimase indietro e venne catturato dai tedeschi vicino a borgata Rosa”. <79
Il 29 novembre i tedeschi giungono a Giaveno e con loro c’è anche Mario Greco, incapace di resistere ai nemici, pur portando con sé delle armi. Nonostante le precarie condizioni di salute, i nazifascisti non dimostrano alcuna pietà. Insieme a Mario, vengono fucilati altri 13 partigiani e 38 civili in piazza San Lorenzo a Giaveno <80.
L’intenzione dei tedeschi, con questo rastrellamento, è quello di colpire duramente il movimento partigiano in vallata, ma la tattica messa in pratica dai comandanti della De Vitis riesce a eludere il pericolo, con i “ribelli” che si nascondono in alcuni rifugi montani studiati appositamente o si ritirano al sicuro in pianura.
Se la memoria del rastrellamento di maggio è legata alla fossa comune di Forno e alla fucilazione dei combattenti catturati, quella di novembre è legata invece alle atrocità contro i civili, agli incendi delle borgate, ai saccheggi. Consci del fallimento del loro piano, i tedeschi scelgono di ritirarsi non prima di aver giustiziato 15 civili a Provonda, 6 a Mollar dei Franchi e 16 nella zona fra Ruata Sangone e Moterossino. <81
Ma il 1° dicembre, dopo quattro giorni di violenze, mentre le autoblindo lasciano Giaveno e, giunti quasi a Trana, accade l’imponderabile. Sei aerei alleati, in maniera del tutto inaspettata, attuano un lancio nella zona di Prafieul: 400 casse di armi, viveri e munizioni scendono dal cielo fra lo stupore dei valligiani. “Fu un vero disastro. Il peggio era passato, noi dall’alto vedevamo con i binocoli i tedeschi avviarsi ai camion sulla piazza di Giaveno; addirittura,
favorito dal vento, ci giungeva il rombo dei motori che si stavano avviando. In quel momento vennero gli aerei a lasciar cadere il loro carico”. <82
I partigiani recuperano pochissime casse e poi sono costretti a ripiegare. I tedeschi, assistendo alla scena, capiscono che i partigiani sono ancora in valle e decidono di tornare sui propri passi. In breve tempo i nazifascisti circondano la zona del lancio con i carri armati. “Sono corso verso Prafieul per dare l’ordine di sgomberare al più presto. Ho dovuto fare un giro largo, perché la zona era già occupata. Successero cose incredibili. In alcuni casi i tedeschi giunsero sul posto dopo che i partigiani avevano indossato i pastrani inglesi lanciati dagli aerei: alcuni riuscirono a fuggire lasciando letteralmente le giacche nelle mani dei rastrellatori che li avevano afferrati”. <83
I tedeschi decidono di riprendere le operazioni di rastrellamento in val Sangone, stabilendo anche dei presidi nei centri maggiori. Di fatto la valle è occupata dai nazisti, creando un periodo di vera emergenza, anche per la popolazione civile.
La prima settimana si rivela tragica. Da un lato i tedeschi fermano centinaia di persone, interrogandole fino allo stremo delle loro forze. Dall’altro riprendono sia i saccheggi che gli incendi. In particolare tutte le borgate della zona del lancio sono distrutte.
Per il movimento di Resistenza non rimane altro che cercare di difendersi. A tal proposito, i forti legami instaurati con la popolazione civile si rivelano di fondamentale importanza. Sono soprattutto gli abitanti delle pianure che garantiscono nascondigli, collegamenti e informazioni ai partigiani.
“Se non ci fossero stati i civili, forse non avremmo superato la crisi. Noi comandanti tenevamo i contatti, eravamo sempre in movimento da un nucleo all’altro, ma senza la popolazione non sarebbe bastato. Ne è la prova il fatto che a patire di più, in quel periodo, sono stati gli stranieri, i russi e i cecoslovacchi, che non erano radicati nella zona e venivano guardati con una certa diffidenza dai contadini della pianura. Anche per i meridionali è stato più difficile, per lo stesso motivo. Ma gli altri si sono salvati in gran parte grazie alla gente che gli ha aiutati”. <84
[NOTE]
77 M. Fornello, La Resistenza in val Sangone, tesi di laurea, anno accademico 1961-1962, relatore Guido Quazza, pag. 117.
78 Testimonianza di Nino Criscuolo, in G. Oliva, La Resistenza, cit., p. 321.
79 Testimonianza di Silvio Filia, raccolta dal sottoscritto.
80 http://www.straginazifasciste.it/?page_id=38&id_strage=5818
81 http://valsangoneluoghimemoria.altervista.org/?p=1752
82 Testimonianza di Guido Quazza, in G. Oliva, La Resistenza, cit., p. 325.
83 Testimonianza di Giulio Nicoletta, in G. Oliva, La Resistenza, cit., p. 326.
84 Testimonianza di Giulio Nicoletta, in G. Oliva, La Resistenza, cit., p. 328.
Francesco Rende, Mario Greco e la Resistenza in val Sangone, Tesi di laurea, Università degli Studi di Torino, Anno accademico 2016-2017

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Pensionato di Bordighera (IM)
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