La Camera del Lavoro invita i lavoratori ad essere vigilanti contro tentativi di provocazione che elementi estranei alla classe studentesca organizzano per fini politici

Roma: Palazzo Venezia

Le manifestazioni per gli eventi ungheresi videro in prima fila i neofascisti. Il 30 ottobre 1956, a Roma, circa cinquemila studenti delle scuole superiori decisero di disertare le lezioni e confluirono a piazza Venezia. Lì, «fomentati da attivisti missini e capeggiati all‘On/le Pino Romualdi e dal Consigliere Comunale Caradonna Giulio», diedero alla dimostrazione «una tipica impronta di manifestazione fascista, cantando inni del cessato regime» <434 nonostante le esortazioni della polizia a non farlo. La relazione del questore Musco è ricca di dettagli sullo svolgimento degli eventi: “Dopo aver tentato, invano, di superare gli sbarramenti di polizia disposti a protezione del palazzo DONGO in via delle Botteghe Oscure, si portavano in piazza Venezia, cercando di penetrare nell‘omonimo palazzo: anche questo tentativo veniva frustrato dall‘immediato intervento delle Forze di Polizia, che, nello stesso tempo, espellevano dal Palazzo quattro elementi, che, riusciti a penetrare come visitatori dell‘annesso Museo nell‘interno del Palazzo, avevano esposto, da una delle finestre, un drappo tricolore. Successivamente i dimostranti si allontanavano defluendo per Piazza Colonna e Via Nazionale, da dove facevano ritorno, in Piazza Venezia, sempre seguiti e controllati dalle Forze di Polizia, con le quali avevano uno scontro in via Quattro Novembre dinanzi all‘U.E.S.I.S.A., dove si rendeva necessario caricare per disperderli. Giunto il corteo a Piazza Venezia e visti inutili altri tentativi di penetrare nell‘interno di Palazzo Venezia, i dimostranti, ancora una volta, cercavano di superare gli sbarramenti di Polizia all‘altezza di Via delle Botteghe Oscure. Aizzati dagli attivisti e senza dubbio dai predetti ROMUALDI e CARADONNA, essi, al canto di inni fascisti e gridando invettive contro i comunisti e contro le stesse forze di Polizia impegnavano colluttazione con le forze dell‘ordine con lancio di sassi, bastoni e mazze di ferro. La Polizia, a questo punto, esaurite tutte le esortazioni, dopo i tre regolamentari squilli di tromba ed invito alla voce, si vedeva costretta, per evitare il peggio, a respingere con la forza la massa dei dimostranti, che, sempre lanciando sassi e tumultuando, si riversava sull‘Altare della Patria. Nell‘occasione venivano operati alcuni fermi fra i più accesi. […] Durante i tafferugli, nel corso dei quali le Forze dell‘Ordine hanno dato costante prova di senso di responsabilità, di equilibrio e della maggiore prudenza, subendo le esuberanze dei giovani per evitare più gravi incidenti, sono rimasti feriti o contusi N. 16 dipendenti ed alcuni fra funzionari ed Ufficiali di Polizia e dell‘Arma dei Carabinieri”. <435
Il 4 novembre 1956, mentre era in corso la crisi ungherese, il Msi svolse una manifestazione al teatro Adriano per le celebrazioni del 4 novembre, alla presenza di duemila persone. Secondo Musco, solo De Masarnich svolse un discorso pacato e misurato, mentre gli altri oratori si erano «trasportati su di un piano di smaccata apologia del fascismo, dando grossolane e fazione interpretazioni della situazione mondiale, riecheggiando i più vieti motivi della propaganda della repubblica di Salò» <436. Nel corso dell‘evento furono mandati saluti a Giulio Caradonna e agli altri fermati durante le manifestazioni dei giorni precedenti.
Queste giornate di cortei ebbero molto importanza per il Msi, che da un lato si impegnò per richiedere (senza successo) un dibattito parlamentare sugli eventi ungheresi, dall‘altro non fu estraneo ad azioni squadristiche contro sedi diplomatiche e centri culturali sovietici, scuole e università, «segnando una prima affermazione della piazza missina» <437.
Anche i democristiani, comunque, tentarono di mobilitarsi, ma con meno successo. Alcuni attivisti della Dc di Centocelle, ad esempio, hanno ricordato che “nel ‘56, quando scoppiarono i fatti di Ungheria, noi [giovani democristiani] andammo a finire tutti al commissariato, ci portarono via con le camionette, perché? Perché c‘era tutto quel fermento e noi eravamo tutti presi dal sacro terrore, no? Che il comunismo di un certo tipo, lo stalinismo oppressivo della realtà ungherese, portasse qualche danno anche da noi”. <438
Per quanto riguarda i partiti e le organizzazioni di sinistra, come accennato, gli eventi ungheresi ebbero una portata deflagrante. Il 3 novembre la Cgil, che non appoggiava l‘intervento sovietico, organizzò una sospensione del lavoro di cinque minuti «per i tragici avvenimenti di Ungheria, contro gli eccidi dei dirigenti sindacali e democratici e contro l‘aggressione colonialistica all‘Egitto» <439. Tuttavia, nei giorni successivi, si trovò in una situazione delicata: il pericolo, infatti, era quello di veder accomunate le sue posizioni con quelle dei missini. In vista del «corteo nazionale studentesco» del 7 novembre, quindi, la Cdl [Camera del Lavoro] emanò un comunicato in cui chiedeva di fare attenzione alle provocazioni: “L‘esperienza dei giorni passati dimostra che i dirigenti missini tentano di utilizzare le masse studentesche per trascinarle in manifestazioni provocatorie indirizzate contro le organizzazioni dei lavoratori. La Camera del Lavoro invita i lavoratori ad essere vigilanti contro tentativi di provocazione che elementi estranei alla classe studentesca organizzano per fini politici, e fa appello agli studenti di non prestarsi a essere cieco strumento di persone e di organizzazioni, che speculando su drammatici avvenimenti ungheresi, mirano a stornare l‘attenzione dell‘opinione pubblica dal reale pericolo di guerra, che si addensa sul Mediterraneo a seguito dell‘aggressione all‘Egitto”. <440
Mentre in Francia venivano assaltate le sedi del Parti communiste français (Pcf) e del quotidiano «L‘Humanité», suo organo ufficiale <441, la Cdl scrisse in un comunicato che anche in Italia «la campagna di stampa di odio, di rissa e di preparazione alla guerra, organizzata dai giornali fascisti e da quelli notoriamente finanziati dai gruppi monopolistici» aveva avuto lo scopo «di intralciare e possibilmente impedire l‘attività delle organizzazioni dei lavoratori, facendo ricorso all‘azione di aperta provocazione fascista»: «La reazione, una volta fallito l‘obiettivo che si era prefisso, attraverso le manifestazioni degli studenti, di creare una pubblica opinione contraria alle organizzazioni dei lavoratori, tenta di utilizzare i vecchi arnesi fascisti in manifestazioni di piazza, nell‘identico modo di come sono stati utilizzati in Francia» <442.
L‘11 novembre, si tenne di fronte alla Basilica di Massenzio una manifestazione a favore degli insorti ungheresi, in cui, davanti a circa quattromila partecipanti, intervenne il generale Giovanni Messe, che nel dopoguerra aveva iniziato una carriera parlamentare nelle fila dei monarchici. Al termine dell‘evento, un gruppo di circa cinquanta persone, con labari e rappresentanze delle varie organizzazioni combattentistiche, si spostò verso l‘Altare della Patria. All‘altezza di via Cavour, però, “buona parte dei convenuti che regolarmente defluivano dalla Basilica, eccitati da elementi estremisti, inseritisi nella manifestazione, tentavano di superare lo sbarramento delle forze di polizia premendo fortemente sui cordoni. Il deciso atteggiamento delle forze dell‘ordine è valso a far desistere i manifestanti dal loro proposito. In tal modo il piccolo corteo con le bandiere ha proseguito regolarmente per raggiungere l‘Altare della Patria, compostamente e senza incidenti”. <443
A piazza Venezia, si erano, intanto, radunati alcuni gruppi di militanti comunisti, «con l‘evidente scopo di disturbare la manifestazione» <444: la polizia, intervenuta, fermò 169 persone, in gran parte attivisti di partiti di sinistra.
Gli eventi ungheresi, tuttavia, ebbero un riflesso anche sui divieti contro l‘attività comunista. Come ebbe a spiegare, all‘inizio del 1957, il capo della polizia in risposta a un‘interrogazione dell‘onorevole Umberto Calosso, infatti, nei mesi precedenti le questure avevano deciso di vietare i comizi all‘aperto del Pci, «per evitare turbativa dell‘ordine pubblico in quanto l‘atteggiamento assunto dai dirigenti comunisti di giustificare l‘intervento sovietico – contrastante con le manifestazioni di protesta della maggioranza della popolazione – avrebbe potuto dar luogo a gravi incidenti» <445. In effetti, Tambroni, con una circolare del 14 novembre, espresse ai prefetti e ai questori «opportunità virgola al fine evitare occasioni turbamento ordine pubblico che non (dico non) siano autorizzati comizi del P.C.I. all‘aperto» <446. Ancora una volta, era il contenuto – tra l‘altro immaginato – dei comizi a determinare il loro divieto, per quanto fosse pienamente legittimo e garantito dalla libertà di espressione sancita dalla Costituzione.
[NOTE]
433 Acs, Mi, Ps, 1954, b. 33, f. Roma, Movimento sociale italiano. Rapporto di Musco dell‘11 ottobre 1954.
434 Acs, Mi, Gab, 1953-56, b. 18, f. 1269/1 Roma, Incidenti vari. Relazione di Musco del 30 ottobre 1956.
435 Ibidem.
436 Acs, Mi, Ps, 1956, b. 29, f. Roma, Movimento sociale italiano. Comunicazione di Musco del 4 novembre 1956.
437 D. Conti, L’anima nera della Repubblica. Storia del Msi, Laterza, Roma-Bari 2013, p. 20.
438 Portelli, Bonomo, Sotgia, Viccaro, Città di parole, cit., p. 116.
439 Archivio storico Cgil Lazio, Cdl Roma, Comunicati, 1956. Comunicato del 3 novembre 1956.
440 Ivi. Comunicato del 7 novembre 1956.
441 Cfr. D. Tartakowsky, Les manifestations de rue en France, 1918-1968, Publications de la Sorbonne, Paris 1997, pp. 645-47.
442 Archivio storico Cgil Lazio, Cdl Roma, Comunicati, 1956. Comunicato dell‘11 novembre 1956.
443 Acs, Mi, Ps, 1957, b. 3, f. Roma, Manifestazioni pro popolo ungherese. Fonogramma della questura dell‘11 novembre 1956.
444 Ibidem.
Ilenia Rossini, Conflittualità sociale, violenza politica e collettiva e gestione dell’ordine pubblico a Roma (luglio 1948-luglio 1960), Tesi di dottorato, Sapienza Università di Roma, Anno accademico 2014-2015

Anche Giancarlo Pajetta, su «l’Unità» del 28 ottobre, spiega le ragioni per le quali bisogna appoggiare la repressione sovietica. Nell’editoriale dal titolo «La tragedia dell’Ungheria», Pajetta sostiene come «coloro i quali hanno impugnato le armi hanno infranto ogni legge, hanno messo in pericolo ogni conquista, minacciato di portare il paese sull’orlo della catastrofe». Per questo motivo, «le armi dovevano rispondere alle armi per impedire che si precipitasse ne baratro». Gli argomenti sono gli stessi a cui ha fatto ricorso Ingrao: i rivoltosi hanno fatto ricorso alle armi, il che ha reso legittimo l’intervento militare, e inoltre una mancata repressione avrebbe riportato il capitalismo e il fascismo. «Bisognava agire, bisognava difendere […] quelle basi senza le quali non c’è altra alternativa che il ritorno alla oppressione e alle miserie del capitalismo, al fascismo che ha insanguinato e sfruttato per decenni l’Ungheria» <67.
Il 30 ottobre scende in campo Togliatti. Il quotidiano di partito riporta un editoriale scritto dal segretario per «Rinascita», intitolato «Sui fatti di Ungheria». In apertura, il Migliore ammette che vi è stato, sia in Polonia che in Ungheria, un «incomprensibile ritardo dei dirigenti del partito e del paese nel comprendere la necessità di attuare quei mutamenti e prendere quelle misure che la situazione esigeva, di correggere errori di sostanza che investivano la linea seguita nella marcia verso il socialismo». Questo ritardo però non giustifica una rivolta di questa entità, una «sommossa […] a quanto sembra, organizzata, che ha una sua ben elaborata tattica, obiettivi precisi, e non finisce quando, nell’ambito del regime esistente, sono attuate misure tali che garantiscono nel modo più ampio un indirizzo politico del tutto nuovo». Non sono quindi operai e studenti a ribellarsi. È chiaro che dietro la rivolta ci sono i governi imperialistici, per i quali «la promessa della liberazione dal socialismo è stata […] uno dei cardini della […] politica». La conclusione è sempre la stessa: è giusto intervenire.
[…] Dopo l’intervento delle truppe sovietiche il 4 novembre, i dirigenti comunisti che avevano appoggiato la repressione possono festeggiare. «L’Unità» esulta titolando «Sbarrata la strada alla controrivoluzione e alle minacce di provocazioni internazionali – Le truppe sovietiche intervengono in Ungheria per porre fine all’anarchia e al terrore bianco». Giancarlo Pajetta, in un dibattito alla Camera il 6 novembre, discutendo con il ministro Martino grida «Viva l’Armata Rossa» <76. Un giovane delegato di Caserta, Giorgio Napolitano, afferma come l’azione sovietica abbia evitato «che nel cuore dell’Europa si creasse un focolaio di provocazioni» e che «l’Ungheria cadesse nel caos e nella controrivoluzione», contribuendo «in maniera decisiva, non già a difendere solo gli interessi militari e strategici dell’Urss ma a salvare la pace nel mondo» <77. Mario Alicata, uno dei più stretti collaboratori di Togliatti, arriva addirittura a sostenere che «in questo momento l’esercito sovietico sta difendendo l’indipendenza dell’Ungheria» <78. Pietro Secchia, fervente stalinista, e Giuseppe Alberganti, la sera del 4 novembre entrano nell’ufficio di Lajolo (direttore de l’Unità di Milano) gridando «Viva i carri armati sovietici» <79. Vedono con favore l’intervento anche Emilio Sereni e Umberto Elia Terracini, per il quale «i fatti ungheresi dimostrano il fallimento di un metodo, non di un principio», quindi l’intervento sovietico «a scudo dei combattimenti per la costruzione del socialismo […] non può che trovare unanime appoggio e solidarietà in tutti i veri democratici e socialisti italiani» <80.
[NOTE]
67 G. Pajetta, «La tragedia dell’Ungheria», «l’Unità», 28 ottobre 1956
76 F. Froio, op. cit. p. 119
77 A. Frigerio, op. cit. pp. 166-167
78 N. Ajello, Intellettuali e PCI. 1944-1958, Laterza Editori, Roma-Bari 1979, p. 414
79 Ibid. p. 402
80 Ibid. p. 408
Edoardo Annecker, Il Partito comunista italiano e la rivoluzione d’Ungheria del 1956, Tesi di laurea, Università LUISS “Guido Carli”, Anno accademico 2014-2015

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