I giovani del “Bandiera” diventarono così, anche sul campo, veri partigiani

Uno scorcio di Rassa (VC). Fonte: Wikipedia

Il nucleo originario intorno a cui si sviluppò il distaccamento proveniva da Tollegno [n.d.r.: oggi in provincia di Biella]; era un gruppo molto solido composto da prestigiose e autorevoli figure di militanti antifascisti ritornati dal carcere politico dopo la caduta del fascismo, come Quinto Antonietti e Mario Mancini. Attorno a tale nucleo si raccolsero quei giovani che desideravano combattere, spinti dalla rabbia suscitata in loro dall’occupazione tedesca del Paese, avvenuta quasi senza colpo ferire.
Questi giovani non erano solo di Tollegno, provenivano da Pralungo, Andorno, Miagliano, Sagliano, Biella: i fondatori e i dirigenti del futuro distaccamento erano, infatti, molto noti in valle e nelle zone circostanti <1. L’impresa, inoltre, pur con il suo carico di pericolo, era il solo modo per uscire da una sorta di complesso di colpa, dovuto agli avvenimenti, anche se inevitabili, del mese di settembre, il solo modo per uscire da uno stato di passività avvilente. A questi giovani si aggiunsero, ben presto, oltre ad alcuni sbandati dell’ex esercito, provenienti dalle regioni meridionali ormai praticamente irraggiungibili, alcuni ex prigionieri neozelandesi e australiani, trovatisi, dopo l’8 settembre, in balia di se stessi.
Si aggregarono infine alcuni ebrei e un gruppetto di giovani giunti dalla Francia, non tutti di origine biellese. Le esperienze di cui furono portatori ed il ruolo che assolsero nel distaccamento legittimano alcune considerazioni che aiutano a capire la forte politicizzazione che caratterizzò il “Bandiera”. Essi erano da poco arrivati da Parigi, dove erano cresciuti e dove si erano formati politicamente. Nella capitale francese avevano vissuto il dramma dell’occupazione tedesca, sperimentato la mano pesante degli invasori, condiviso la rabbia dei parigini e, perlopiù, erano vissuti gomito a gomito con i francs-tireurs et partisans partecipando, più o meno direttamente, alle loro azioni: erano, cioè, figli dell’emigrazione politica italiana (la cui storia è ancora tutta da scrivere). Fra essi, vanno ricordati William Valsesia, Nino Banchieri (che aveva avuto il padre ed il fratello confinati a Ventotene e che non aveva rivisto prima di raggiungere l’Italia) e Danilo Bibolotti (appena ricongiuntosi con il padre, reduce da Ventotene, dopo aver già trascorso molti anni fra il carcere fascista e i campi di concentramento in Francia). Stupisce la loro forza d’animo nell’affrontare difficoltà così gravi, suscitano ammirazione il bagaglio di esperienze e le cognizioni culturali con cui giunsero in Italia e che seppero profondere nella lotta partigiana.
Il “Bandiera” si costituì verso la fine di novembre 1943 e, più ancora del “Pisacane” e del “Piave”, si può considerare una creazione del Comitato militare, formatosi alla metà di quello stesso mese.
Il primo atto compiuto dal responsabile di tale Comitato, Nedo [n.d.r: Piero Pajetta], fu quello di utilizzare i pochi rimasti del numeroso gruppo di sbandati attestatisi nelle baite del monte Cucco, al ritorno dalle varie unità del dissolto esercito italiano; inoltre, Nedo affidò a Quinto Antonietti (Quinto) e a Mario Mancini (Grillo) l’incarico di assumere la guida dell’unità partigiana che si era deciso di costituire, sfruttando il loro ascendente e la loro autorevolezza <2.
Nedo, quindi, contattò Silvio Ortona e due suoi amici ebrei che avevano assistito, rimanendone ai margini, alla disgregazione dei gruppi sbandati verificatasi verso la fine di ottobre. Non può stupire perciò, il fatto che fossero prevenuti, dato lo spettacolo niente affatto edificante di cui erano stati testimoni, verso eventuali nuovi tentativi di aggregazione. Nedo parlò loro in modo franco e deciso: erano uomini di una certa cultura (Ortona era laureato) e Nedo prospettò loro la serietà dell’impegno che i garibaldini, pur consapevoli delle difficoltà e dei pericoli ai quali andavano incontro, stavano per affrontare, invitandoli ad aderire e a dare il loro appoggio. Gli interpellati, in modo particolare Ortona, si mostrarono sensibili all’invito che veniva loro rivolto e abbandonarono ogni prevenzione, colpiti, forse addirittura affascinati, dal tono franco e privo di retorica di quell’uomo che mostrava senza iattanza e finzione tutta la sua risolutezza <3. Con stupore, Ortona, dopo aver dato il suo assenso, si sentì nominare vice comandante di distaccamento. Secondo l’uso partigiano, inoltre, gli venne dato un nome di battaglia che, non senza una venatura scherzosa, rendeva omaggio alla sua statura: Lungo.
Questo fu, grosso modo, l’inizio, ma va ancora ricordato l’importante supporto dato dall’organizzazione del Partito comunista della valle e, soprattutto, dall’opera di alcuni autorevoli militanti: Ergenite Gili e Alberto Livorno, nella cui casa, a Miagliano, si insediò il Comitato militare; Mario Vietti, Armanzio Sereno e Camillo Amisano ad Andorno; Leonardo Cerruti a Sagliano, Rodolfo Benna e Idelmo Mercandino a Pralungo, per limitarmi ai più noti. Essi furono, contemporaneamente, punto di riferimento, tramite di informazione e propaganda, forza organizzata e catalizzatrice del consenso. Il “Bandiera” fu, dunque, il distaccamento più immerso nell’ambiente politico e sociale della zona in cui si trovò ad operare e non deve quindi stupire se, all’inizio, si trovò ad essere favorito rispetto ad altri distaccamenti e poté presentarsi come una unità seria e degna di affidamento [4.
Ben presto, al nucleo originario, già organizzato, si aggiunsero i ragazzi della leva 1924-1925. Non si sprecano certo gli aggettivi nell’esaltare la scelta, che fu in gran parte istintiva e spontanea, compiuta da quei giovanissimi. A darne la giusta misura si dovrebbero ripetere cose già diffusamente dette altre volte, tuttavia, la si comprende appieno soltanto rifacendoci alla situazione di quei primi mesi di occupazione nazista in cui pareva che tutto si fosse dissolto: non solo l’esercito, l’apparato dello Stato, ma anche l’onore e la dignità di un popolo.
[…] Punto debole del distaccamento fu la scarsità dell’armamento, composto, all’inizio, da soli fucili, rivoltelle, bombe a mano poco efficaci. Esso fu sufficiente, tuttavia, per la realizzazione della prima azione che, se da un punto di vista strettamente militare, è da considerarsi più che altro dimostrativa, consentì di ottenere due risultati importanti, quasi insperati, in tempi ravvicinati. Innanzitutto, servì a caratterizzare la presenza della lotta partigiana della valle del Cervo, con ripercussioni che giunsero a Biella e anche oltre e, concretamente, salvò un folto gruppo di operai dalla deportazione in Germania.
Vale la pena di ricordare quel fatto. Il 10 dicembre 1943 alla Filatura di Tollegno era scoppiato uno sciopero spontaneo; le autorità fasciste, appena insediate, inviarono da Biella, a scopo intimidatorio e ricorrendo ad azioni di rappresaglia, una pattuglia di carabinieri con l’ordine di arrestare arbitrariamente un certo numero di operai e di condurli a Biella. L’azione doveva servire da lezione, riportare l’ordine nello stabilimento e accreditare le autorità fasciste agli occhi degli occupanti tedeschi. Le probabilità di venire deportati in Germania, per gli operai arrestati, erano molto elevate. I carabinieri eseguirono gli ordini caricando sul camion i primi operai in cui si imbatterono ma, sul pendio che sovrasta l’ingresso dello stabilimento, trovarono appostati gli uomini del “Bandiera” che, preavvisati, erano intervenuti tempestivamente, nonostante a quell’epoca il distaccamento fosse ancora in fase di organizzazione. Il camion con gli operai a bordo stava dunque per avviarsi verso Biella, quando una nutrita sparatoria costrinse alla fuga i carabinieri: gli operai fermati poterono fuggire, mentre esplodeva l’entusiasmo di quanti erano presenti e avevano seguito con apprensione lo svolgimento dell’operazione. Senza dubbio, l’azione venne facilitata dall’atteggiamento dei carabinieri che non risposero al fuoco, quasi non aspettassero altro che l’occasione propizia per non attuare un’operazione che ripugnava alle loro coscienze.
I giovani del “Bandiera” diventarono così, anche sul campo, veri partigiani e, ciò che più conta, guadagnarono l’appoggio degli operai della Filatura e degli ambienti antifascisti.
Certo non mancarono le opposizioni e, anche dopo le prime azioni vittoriose, si dovette combattere a lungo prima di imporsi anche all’attenzione dei più increduli, per contrastare gli oppositori più tenaci ed assicurarsi il sostegno di tutti.
Il distaccamento “Bandiera” fu anche il primo ad avvalersi dell’apporto prezioso di un gruppo di giovani donne che svolsero il ruolo di staffette. Non è mia intenzione ripetere ciò che è già stato detto a questo proposito, desidero solo sottolineare come il contributo di quelle coraggiose ragazze abbia costituito un notevole salto di qualità nell’organizzazione della guerra partigiana e, ritengo, all’interno dello stesso movimento di emancipazione femminile. Il “Bandiera”, più di ogni altro distaccamento, trasse vantaggio da una collaborazione femminile offerta in modo ampio e continuativo e ciò spiega anche la tempestività dell’intervento partigiano alla Filatura di Tollegno in occasione dello sciopero del 10 dicembre 1943.
Il “Bandiera” aveva posto la sua base al Bocchetto Sessera, località da cui era facilmente raggiungibile la valle di Andorno, e, dopo l’azione di Tollegno, gli sforzi nel consolidare tale base si moltiplicarono. Non fu facile, anche perché si trattava di creare le condizioni adatte per non trascorrere in modo ozioso le ore di sosta, numerose e lunghe durante la stagione invernale. Occorreva perciò programmare adeguatamente e impostare le occupazioni in modo da non ripetere la vita della caserma e nemmeno ricordarla. Il ricordo di quella che, ancor oggi, viene definita “naja” era troppo vivo in chi aveva vissuto gli anni di guerra ed era stato, per giunta, costretto ad ingoiare l’amaro calice della disfatta. Anche per i più giovani, anzi soprattutto per loro, era indispensabile far sì che la vita nel distaccamento non fosse la ripetizione dei metodi, ormai screditati, della disciplina formale che calava dall’alto i regolamenti.
Dire che non fu facile è, forse, dire poco: altri grossi problemi andavano affrontati e, nel limite del possibile, superati. La guerriglia che si stava organizzando nasceva sul fallimento del tentativo messo in atto, tra settembre e ottobre, dagli ex ufficiali dell’esercito; fin da quel primo tentativo non erano mancate le opposizioni che non si erano smussate col passare dei mesi. Anche all’interno del Comitato di liberazione nazionale i contrasti erano forti: un nuovo fallimento non doveva nemmeno essere ipotizzabile. Tutto questo condusse alla definizione di obiettivi molto chiari, precisi, che potessero essere condivisi in quanto compresi: fu una scelta di carattere culturale, prima ancora che militare. A questo proposito è doveroso dire che, in nessun altro distaccamento, come in quello di cui stiamo parlando, lo sforzo per accrescere, insieme alle conoscenze sulla situazione politico-militare, la formazione culturale dei giovani partigiani, si dispiegò così ampiamente. Nel “Bandiera”, l’ora politica, riunione periodica di aggiornamento, imperniata su avvenimenti nazionali ed esteri, era condotta in modo tale da invogliare alla partecipazione, da appassionare. Gli apporti che giungevano da persone preparate culturalmente ed esperte politicamente conferivano un ampio respiro culturale alle riunioni e l’informazione diventava, in tal modo, un contributo alla crescita delle cognizioni culturali, poche o tante che fossero, che quei giovani possedevano. Tutte le questioni che, negli anni precedenti alla seconda guerra mondiale avevano coinvolto la vita dell’Europa e del mondo intero, eventi fino a quel momento conosciuti in modo distorto, diventavano oggetto di discussione durante l’ora politica: è indispensabile non dimenticare che a quei giovani questo non era mai stato permesso.
Lo stesso vale per il giornale murale. Era un foglio di carta o di cartone su cui venivano riportati scritti o disegni, opera degli stessi partigiani, ma era una novità assoluta e avvicinò quei giovani, per lo più lavoratori e quindi in possesso della sola licenza elementare, ad un tipo di esperienza prima così lontana da sembrare impossibile. Non solo appagò la loro curiosità, ma suscitò interesse e partecipazione. Molti, credo tutti gli uomini del distaccamento, si misurarono per la prima volta con l’arte dello scrivere: dall’articoletto di commento sul momento politico, al giudizio su un’azione di guerra, dal racconto della vita interna della formazione alla critica dei comportamenti individuali e collettivi; più di uno riuscì ad esprimere la propria vena creativa ed il proprio senso umoristico nel disegno caricaturale, in cui non solo il nemico veniva preso di mira, ma anche il compagno di distaccamento che, il più delle volte, era l’amico fraterno. Non mancarono quelli che si cimentarono nel comporre poesie o canti ispirati alla Resistenza. Il giornale murale anticipò realizzazioni più impegnative, come un giornale vero e proprio o la radio, strumenti di informazione, ma anche di formazione, di cui i partigiani potranno disporre solo molto più tardi. In quella fase, tuttavia, quei primi passi ebbero effetti più che positivi: contribuirono a creare una coscienza nei combattenti, tale da sostituire la disciplina coatta. L’attività sul piano politico-culturale non solo non ostacolò, ma si rivelò funzionale alla preparazione militare.
I comandanti del distaccamento erano consapevoli di dover preparare i giovani partigiani alla guerra, così come erano consapevoli di doverla condurre in condizioni di netta inferiorità e con uomini in maggioranza impreparati. Non mancarono però, nel “Bandiera”, uomini in grado di assolvere tale mansione: Renato Sasso, ad esempio, aveva combattuto su più fronti e aveva le qualità per istruire anche i più giovani e i più inesperti.
Fino alla costituzione della brigata tuttavia, e fino ai rastrellamenti del 20 febbraio 1944, il “Bandiera” non si distinse particolarmente sul piano militare; senza dubbio altre formazioni, prima fra tutte il “Piave”, dimostrarono maggiore efficienza operativa. Ciò dipese anche dal fatto che il “Bandiera” fu l’unità partigiana che operò a ridosso di Biella; scopertane l’esistenza e valutato il pericolo derivante dalla sua presenza, i nazifascisti non lesinarono pressioni e attacchi. D’altro canto, che le preoccupazioni dei comandi nemici, soprattutto all’inizio della lotta partigiana, non fossero immotivate è ampiamente dimostrato dal ruolo che il “Bandiera” ebbe in occasione dello sciopero generale indetto nel dicembre ’43 dalle organizzazioni operaie clandestine e appoggiato dagli appena costituiti distaccamenti partigiani dell’intero Biellese.
Non mi dilungherò sullo sciopero in sé, né sulla grande rilevanza dell’avvenimento, per evitare ripetizioni di scritti anche recenti e mi soffermerò sul ruolo del “Bandiera”, non tanto ai fini della riuscita dello sciopero quanto, piuttosto, in riferimento agli avvenimenti, densi di implicazioni che si registrarono nel corso dello sciopero stesso. Il fatto d’armi che vide protagonista quel distaccamento, infatti, fu una conseguenza diretta dello sciopero e si può spiegare col fatto che l’azione operaia aveva colto di sorpresa le forze nazifasciste di stanza a Biella che, soltanto con l’arrivo dei rinforzi da Vercelli e Novara, poterono reprimere sanguinosamente lo sciopero.
Non può che suscitare perplessità l’atteggiamento, potremo dire di sufficienza, con cui i nazifascisti valutarono le fasi iniziali delle lotte operaie. Non erano mancate alcune avvisaglie che avrebbero dovuto incidere sul loro atteggiamento: dagli scioperi di Torino allo sciopero di Tollegno di cui si è detto, in cui, fra l’altro, l’appoggio dei partigiani aveva rappresentato un fatto tutt’altro che secondario, ma ciò non costituì, per i nazifascisti, un avvertimento. È probabile che i tedeschi fossero assolutamente convinti della validità della soluzione adottata due mesi prima, quando erano bastate alcune raffiche di mitra e l’incendio di qualche decina di baite sulle montagne per ricondurre all’obbedienza le migliaia di uomini rifugiati lungo tutto l’arco delle montagne biellesi, compresi quelli che non erano stati coinvolti nell’attacco. I tedeschi, inoltre, sapevano di poter contare sul consenso di alcuni ceti possidenti, specialmente nella città di Biella e non ignoravano, almeno in parte, l’isolamento in cui si erano venuti a trovare coloro che avevano avversato la politica della capitolazione e della rassegnazione e ciò non poteva che tranquillizzare gli occupanti. Non deve stupire dunque, la tracotante sicurezza dei pochi tedeschi che si avviarono in auto verso la Filatura di Tollegno per dimostrare agli operai testardi che certe libertà, in regime di occupazione nazista, non erano permesse. Si fecero accompagnare dal capitano che comandava la stazione dei carabinieri di Biella: doveva imparare come “convincere” gli operai riottosi ad accettare il nuovo ordine hitleriano e come contrastare, eventualmente, quegli “straccioni” di ex militari italiani che dopo essersi arresi alla Wehrmacht senza opporre resistenza, avessero avuto l’ardire di opporvisi in un secondo momento.
Non tennero conto, però, del grande cambiamento interiore di quegli uomini, della crescente organizzazione dei distaccamenti; tra gli uomini del piccolo gruppo con cui i tedeschi si sarebbero scontrati, alcuni erano ancora ragazzi, ma credevano in ciò che stavano facendo e questo li rendeva determinati. Furono proprio questi ragazzi ad attaccare, al bivio fra Tollegno e Pralungo, i tedeschi che si stavano dirigendo verso la Filatura. Fu uno scontro rapido, su cui non mi soffermerò perché ampiamente noto, dopo il quale, impadronitosi delle armi tedesche, il distaccamento si ritirò a Tollegno dove rimase fino all’indomani.
[…] Gli uomini del “Bandiera” dovettero vincere la loro stessa esultanza, contenere il diffuso senso di gioia, smorzare un’euforia che poteva essere pericolosa. Nell’impegno che essi profusero per preparare la popolazione a reggere gli inevitabili contraccolpi che il nemico avrebbe sicuramente sferrato, emerse tutto il senso di responsabilità e di misura di quei ragazzi. Essi erano perfettamente consapevoli del tipo di reazione che ogni gesto di rivolta, specialmente se accompagnato da azioni di guerra, provocava nei tedeschi: era necessario preparare la popolazione, in gran parte ignara di quello che poteva succedere, perciò l’impegno fu immediato e fu un bene perché la reazione tedesca arrivò con durezza l’indomani stesso, il 22 dicembre <7.
Nonostante l’ampiezza dello scontro e gli inevitabili costi, che ricaddero più sulla popolazione che non sui partigiani, gli avvenimenti di quel mese si conclusero con un successo considerevole per i distaccamenti garibaldini biellesi. Lo avrebbe riconosciuto lo stesso Comando generale delle brigate “Garibaldi”, decidendo di raggruppare quei distaccamenti in brigata: sarebbe stata la seconda brigata “Garibaldi”, a costituirsi in Italia.
Spettò al distaccamento “Bandiera” preparare la riunione e ospitare i responsabili delle altre unità che vi parteciparono: era il 15 gennaio 1944. Questo atto, solo in apparenza formale, costituì un momento di riflessione sul grado di sviluppo delle formazioni e sui loro compiti, ma, soprattutto, richiamò i presenti alla realtà. Era una realtà che non offriva spazio a previsioni ottimistiche ma, al contrario, preannunciava tempi duri e difficili.
L’attacco avvenne il 20 febbraio: i fatti sono noti, vorrei soltanto rilevare che il “Bandiera” non dovette sostenere l’urto maggiore e che fu il distaccamento che seppe mantenere la maggiore coesione. Lo dimostrò il giorno stesso dell’attacco: quando, all’imbrunire, i tedeschi abbandonarono il rifugio del bocchetto Sessera dopo averlo incendiato, gli uomini furono pronti ad accorrere per spegnere l’incendio, salvando gran parte delle strutture dalla distruzione completa. Quando ragioni di forza maggiore imposero di lasciare temporaneamente la Valsessera per Rassa, in Valsesia, il Comando di brigata fece affidamento principalmente sugli uomini del “Bandiera”.
È probabilmente una forzatura parlare di Comando della brigata a proposito di quei giorni: il rastrellamento aveva avuto tragiche conseguenze; precedentemente, il commissario Adriano Rossetti era stato arrestato a Novara e Nedo era scomparso il 24 febbraio senza lasciare tracce: le sue spoglie sarebbero state ritrovate sul monte Casto solo a fine marzo, allo sciogliersi della neve.
Toccò a me assumere la pesante e delicata responsabilità di commissario. Il Comando regionale aveva inviato, per condividere quella responsabilità, Silvio Bertona (Carlo), che fece tutto quanto era in suo potere ma, non essendo del luogo ed essendo quindi sconosciuto, non poté massimizzare, nel primo periodo, il proprio apporto.
Anche l’organizzazione politica viveva un momento di crisi profonda e parecchi elementi erano stati costretti ad allontanarsi dal Biellese. Tutto questo indusse a trasferire i reparti a Rassa allo scopo di riorganizzarli.
[…] Nelle settimane che erano seguite ai fatti di Rassa (1), non c’era stato tuttavia spazio per l’ottimismo e non tutti avevano saputo superare il trauma. Un gruppo di superstiti, buoni ed esperti combattenti, anziché raggiungere i compagni per ricostituire le proprie unità, volle tentare una forma di lotta, prematura per quel periodo, che si sarebbe rivelata disastrosa. Raccoltisi nella pianura a sud di Cossato con alcuni superstiti del “Piave”, pagarono la scarsa conoscenza della zona e, soprattutto, dell’ambiente, stabilendo contatti di dubbia sicurezza e utilità. Catturati dai fascisti nelle vicinanze di Mottalciata, furono fucilati in ventuno <11, il 17 maggio, a ridosso del cimitero.
Questa la cronaca dei fatti, il doloroso travaglio che li accompagnò. Può essere parsa impietosa, ma la storia impone, spesso, di far violenza anche al proprio sentimento. La perdita di quei compagni fu per noi causa di grande dolore e, soprattutto, ci pose un angoscioso dilemma: si era tentato veramente tutto per evitare quel tragico epilogo? Fummo a lungo tormentati dalla rabbia per la nostra impotenza di fronte a quel fatto.
[…] Durante i mesi di aprile e maggio, il “Bandiera” fu costretto a rifugiarsi in alta Valsessera, sopportando una vita di privazioni e di sacrifici <12, in un isolamento rotto solo dall’ascolto della radio. In tal modo eravamo al corrente degli avvenimenti e dell’andamento delle azioni militari sui vari fronti, inoltre, attendevamo ansiosi l’annuncio di un lancio d’armi promessoci molto tempo prima, da quando, cioè, Edgardo Sogno, recatosi presso il distaccamento, aveva preso accordi, poi disattesi, con Nedo. Dopo Sogno, altre persone, di cui non sempre si riusciva ad appurare la buona fede e l’effettivo rapporto con le missioni inglesi, approfittarono della nostra onestà, promettendo lanci mai eseguiti.
Il distaccamento “Bandiera”, quindi, sopportò anche questa amara delusione: quelle armi di cui si aveva bisogno come del pane e che il distaccamento aveva ampiamente meritato, non arrivarono mai, mentre tutte le altre formazioni videro premiata la loro lunga, snervante attesa.
Nonostante questo, il “Bandiera” si sviluppò fortemente nella tarda primavera e nell’estate del 1944, tanto da acquisire effettivi, armamento ed efficienza operativa tale da permettergli di rompere l’isolamento, scendere a valle, estendere il proprio raggio d’azione e di influenza, meritando la promozione a brigata. Al distaccamento, che per la verità era già diventato battaglione, venne unanimemente riconosciuto il diritto di mantenere la posizione occupata in ordine temporale di costituzione: fu, cioè, come ho detto, la 2a brigata “Ermanno Angiono Pensiero”, mostrando particolare sensibilità nel rendere omaggio a uno dei caduti più amati e stimati della Resistenza biellese. Rimase, a ricordo di quegli inizi segnati da tanta durezza e tanti sacrifici, un canto la cui strofa iniziale recita: “Il ‘Bandiera’ si coprirà di gloria / senza senza lanci si è saputo armar!”.
[NOTE]
1 Militanti comunisti di Andorno, Miagliano e Pralungo furono coinvolti con Quinto Antonietti, Mario Mancini e Franco Moranino, principale imputato, nello stesso processo e condannati nel 1941 dal Tribunale speciale. Il loro arresto e la loro condanna ebbero un’eco vastissima nella valle, suscitando emozione e solidarietà. Non stupisce quindi che i condannati fossero circondati da un alone di affetto e di considerazione.
2 Fra gli uomini che avevano capeggiato il forte contingente di ex militari al Monte Cucco, vi era Franco Moranino, che aveva già assunto il nome di battaglia di Gemisto e che ne fu, di fatto, il comandante. Egli dispiegò un’attività frenetica durante i mesi di settembre e ottobre e la sua forte personalità si impose all’attenzione e all’ammirazione di tutti e, in alcuni casi, degli stessi nemici. Non fu presente alla costituzione del “Bandiera” perché il Comitato militare gli aveva affidato la difficile e impegnativa missione di organizzare il distaccamento “Pisacane”.
3 Nedo (Piero Pajetta) era stato combattente in Spagna nella XII brigata internazionale. Durante l’offensiva franchista in Aragona, nel marzo del 1938, rimase seriamente ferito nei combattimenti di Caspe. Subì l’amputazione della mano destra e, costretto ad abbandonare la lotta in Spagna, dispiegò il proprio impegno antifascista nei francs-tireurs et partisans a Parigi, occupando un posto di grande responsabilità, fino a quando si recò nel Biellese. Non aveva piglio di un uomo uso ad esercitare il comando e tendeva piuttosto a convincere le persone, ebbe però un’autorità grandissima, esercitando un forte ascendente sugli uomini.
4 In valle Cervo, quasi contemporaneamente, si era costituito un altro distaccamento, intitolato a “Goffredo Mameli” e che aveva posto la propria base a Oriomosso. La sede del distaccamento fu incendiata dai tedeschi nel corso del rastrellamento del 20 febbraio. Il “Mameli” non resisté a lungo, soprattutto perché minato, fin dall’inizio, da scarsa coesione e persino dalla provocazione fascista. Dissoltosi durante il rastrellamento del febbraio ’44, non venne più ricostituito. Il suo comandante, di cui si conosce il solo nome di battaglia, Tonino, passò al servizio dei fascisti e non è da escludere che lo fosse anche nel periodo precedente; il commissario del distaccamento, invece, Remo Pella, cadde il 20 febbraio 1944. I superstiti confluirono nel “Bandiera”. Il distaccamento “Goffredo Mameli”, praticamente, non ha storia: fu un tentativo fallito e niente di più.
7 La più efferata delle rappresaglie compiute durante il mese di dicembre nel Biellese fu quella messa in atto dai tedeschi in piazza San Giovanni Bosco a Biella il giorno 22. La rabbia per quanto era accaduto il giorno precedente al bivio di Tollegno, in cui avevano amaramente scoperto che gli italiani non erano quegli esseri pavidi e passivi che essi pensavano, li portò a colpire alla cieca, sfogando la loro crudeltà sui cittadini inermi. Furono fucilate sette persone, fra le quali due soltanto erano effettivamente partigiani. La sorte volle che proprio un uomo del “Bandiera” riuscisse a sfuggire miracolosamente alla morte facendo ritorno alla propria formazione. Si veda a questo proposito CESARINA BRACCO, Evaso, in “l’impegno”, a. II, n. 4, pp. 42-44.
11 I fucilati furono diciassette, altri tre partigiani furono uccisi in combattimento: in totale i caduti furono quindi venti (ndc).
12 L’accanimento della pressione fascista e tedesca sul distaccamento “Bandiera” coinvolse anche l’organizzazione politica e sindacale della valle del Cervo. Ad Andorno furono arrestati William Furini e Felice e Raffaele Lojodice, a Miagliano la repressione si accanì contro la famiglia di Ergenite Gili. Non potendo infatti arrestare direttamente Ergenite, i fascisti arrestarono il fratello Arnaldo e il fratello di latte Marco Ferrarone. Per rappresaglia ad un’azione compiuta da una pattuglia del “Bandiera” alla frazione Torrazzo di Andorno, tutti i cinque detenuti furono fucilati presso il muro del cimitero di Tollegno.
Anello Poma “Italo”, I primi distaccamenti garibaldini biellesi: il “Fratelli Bandiera” in (a cura di) Piero Ambrosio, Ricordi di due guerre civili. Spagna 1936-1939 – Italia 1943-1945. Scritti di e su Anello Poma “Italo”, Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea nel Biellese, nel Vercellese e in Valsesia, 2016

(1) Elenco delle vittime decedute
Bolzon Luigi, “Alì”, di Enrico e Secondina Croce, anni 17, nato a Castelletto Cervo (Bi) il 27.08.1926, ivi residente, V divisione Garibaldi “Maffei”, 2^ brigata “Ermanno Angiono Pensiero”, partigiano
Borsato Giovanni, di Antonio e Maria Premon, anni 20, nato a Vallonara (Vi) l’11.06.1923, residente a Valle San Nicolao (Bi), V divisione Garibaldi “Maffei”, 2^ brigata “Ermanno Angiono Pensiero”, partigiano
Cardetta Nicola, “Tigre”, di Rocco e Angela Albanese, anni 18, nato a Gioia del Colle (Ba)il 16.10.1925, residente a Trivero, V divisione Garibaldi “Maffei”, 2^ brigata “Ermanno Angiono Pensiero”, partigiano
Castaldi Delfo, “Aquila”, di Felice e Anita Barazzotto, anni 18, nato il 07.07.1925 a Vigliano Biellese (Bi), ivi residente, V divisione Garibaldi “Maffei”, 2^ brigata “Ermanno Angiono Pensiero”, partigiano
Colongo Sandro, di Antonio e Pierina Stupenengo, anni 21, nato il 16.10.1922 a Valle San Nicolao (Bi), ivi residente; V divisione Garibaldi “Maffei”, 2^ brigata “Ermanno Angiono Pensiero”, partigiano
Gallotto Walter, di Ferdinando e Primitiva Becchia, anni 21, nato il 21.08.1922 a Valle San Nicolao (Bi), ivi residente V divisione Garibaldi “Maffei”, 2^ brigata “Ermanno Angiono Pensiero”, partigiano
Lori Gino, “Job”, di Pietro e Caterina Romanelli, anni 27, nato il 02.08.1916 a Quinto Vercellese (Vc), residente a Ponzone, frazione di Trivero (Bi), V divisione Garibaldi “Maffei”, 2^ brigata “Ermanno Angiono Pensiero”, partigiano
Malinverni Luciano, “Bris”, di Giovanni e Maria Viazzo, anni 20, nato a Vercelli il 22.10.1923, residente a Trivero (Bi), V divisione Garibaldi “Maffei”, 2^ brigata “Ermanno Angiono Pensiero”, partigiano
Moro Amelio,“Bestia”, di Antonio e Maria Luisa Tasca, anni 19, nato a Valrovina, frazione di Bassano del Grappa (Vi) il 21.01.1924, residente a Valle Mosso (Bi), frazione Rovella, V divisione Garibaldi “Maffei”, 2^ brigata “Ermanno Angiono Pensiero”, partigiano
Pastorello Nella, “Nella”, di Luigi e Margherita Martinello, anni 19, nata a Villa Estense (Pd) l’11.02.1923, residente a Biella-Chiavazza, V divisione Garibaldi “Maffei”, 2^ brigata “Ermanno Angiono Pensiero”, partigiana
Pivotto Benvenuto, “Lacit”, di Gelindo e Maria Costenaro, anni 17, nato a Trivero il 21.04.1926, ivi residente, V divisione Garibaldi “Maffei”, 2^ brigata “Ermanno Angiono Pensiero”, partigiano
Altre note sulle vittime:
Partigiani uccisi in combattimento contestualmente all’episodio:
Abbafati Vincenzo, “Leone”, di Isaia e Anna Fantoni, anni 20, nato a Velletri (Roma)il 05.12.1923, residente a Lariano (Roma), V divisione Garibaldi “Maffei”, 2^ brigata “Ermanno Angiono Pensiero”, partigiano, caduto il 13.03.1944
Gallotto Ezio, “Ciclone”, di Ettore e Nelda Peracino, anni 20, classe 1924, nato il 13.03.1924 a Valle San Nicolao (Bi), ivi residente, V divisione Garibaldi “Maffei”, 2^ brigata “Ermanno Angiono Pensiero”, partigiano, caduto il 12.03.1944
Lombardi Michele, “Buk”, anni 20, nato a Minervino Murge (Ba) il 01.05.1917, residente a San Marco Evangelista (Ce), V divisione Garibaldi “Maffei”, 2^ brigata “Ermanno Angiono Pensiero”, partigiano, caduto il 13.03.1944
Mongilardi Ferruccio, anni 21, di Ferruccio e Pierina Colombo, nato il 19.03.1922, residente a Valle San Nicolao (Bi), V divisione Garibaldi “Maffei”, 2^ brigata “Ermanno Angiono Pensiero”, partigiano, caduto il 12.03.1944
Mulatero Sergio, “Tarzan”, di Secondo e Teresa Cavaglià, anni 19, nato a Torino il 02.03.1925, ivi residente, V divisione Garibaldi “Maffei”, 2^ brigata “Ermanno Angiono Pensiero”, partigiano, caduto il 13.03.1944
Strippoli Nunzio, “Talpa”, anni 18, di Luigi e Giuseppina Lops, nato a Corato (Ba) il 27.12.1925, residente a Tollegno (Bi), V divisione Garibaldi “Maffei”, 2^ brigata “Ermanno Angiono Pensiero”, partigiano, caduto il 13.03.1944
Agosti Ermanno, “Lupo”, di Evasio ed Enrichetta Pavese, anni 18, nato e residente a Vercelli, V divisione Garibaldi “Maffei”, 2^ brigata “Ermanno Angiono Pensiero”, partigiano, ferito in combattimento, muore per cancrena il 29.03.1944
Boneschi Giuseppe, nato il 09.09.1892, mutilato della prima guerra mondiale; una lapide posta dai familiari ne ricorda l’uccisione nello stesso giorno della strage, benché innocente. Non si hanno informazioni sulle circostanze della morte. Civile
Il Bocchetto Sessera e gli edifici che vi sorgevano, unitamente agli alpeggi vicini, svolsero la funzione di centro di raccolta e di smistamento di prigionieri alleati provenienti dalla pianura, in attesa di essere indirizzati verso la Svizzera attraverso la Valsesia, collegata tramite il colle della Boscarola che conduce all’alpe di Mera e a Scopello o i diversi passi che immettono nella valletta di Rassa. Nei pressi del Bocchetto sorgeva all’epoca un albergo che divenne una base dei partigiani del distaccamento “Bandiera”, fondato da giovani di Tollegno sul Moncucco, che vi si rifugiarono nel novembre del ’43. Molte delle località vicine sono legate alle vicende della lotta di Resistenza, soprattutto della prima fase, come le baite del Moncerchio, rifugio di militari sbandati dopo l’8 settembre e sede di una scuola di organizzazione politica della Resistenza nel tardo autunno del ’43; l’alpe Basto dell’Argimonia, nelle cui cascine avevano posto le basi i partigiani del distaccamento “Piave”; le baite di Oriomosso, dove si erano accampati i partigiani del distaccamento “Mameli”. Il 20 febbraio del ’44 iniziò contro queste basi una vasta offensiva delle truppe nazifasciste, che costrinse i partigiani a ritirarsi in Valsesia, nel territorio di Rassa, dove rimasero fino al 12 marzo, giorno in cui un nuovo attacco portato dalla strada per Alagna li obbligò, dopo aver resistito per ore, a tentare di riportarsi nel Biellese dal Bocchetto del Croso verso Piedicavallo, nell’alta valle Cervo, seguendo il sentiero della val Sorba. Il tentativo di ritirata fu disturbato, all’altezza dell’alpe Dosso, dal mitragliamento nazifascista, che provocò la morte di quattro partigiani; altri undici furono catturati e fucilati il giorno stesso. Nel disastro di morirono complessivamente diciotto partigiani.
Enrico Pagano, Episodio di Cimitero di Rassa, Rassa, 12-13.03.1944, Atlante delle Stragi Naziste e Fasciste in Italia

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Pensionato di Bordighera (IM)
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