Eh, l’arabo mi ha fatto il verbale

Il rimpatrio degli europei dagli ex-domini coloniali in Africa e nel continente asiatico, avvenuto fra il 1940 e la fine degli anni Settanta <1, ha posto un problema di ridefinizione della comunità nazionale per le madrepatrie europee, sia sotto il profilo di un’inclusione giuridica che sociale. Nel caso specifico del rimpatrio degli italiani dalle ex-colonie d’Africa e dalle comunità di Tunisia ed Egitto, se a livello formale il riconoscimento della civitas italiana non è stata oggetto di contesa, lo è stato invece l’inclusione effettiva nella società con l’adesione a modelli di vita specificamente peninsulari. Il reintegro in Italia ha dunque significato per questi rimpatriati la rinegoziazione della propria appartenenza nazionale, che si è giocata sul confronto coi locali e attraverso la necessaria correzione di una modalità di essere italiani percepita come differente e alternativa. La mia ricerca parte dunque dal presupposto che l’identità culturale degli italiani rimpatriati dall’Africa derivi dalla compresenza di diverse prospettive identitarie che fanno riferimento all’Italia e all’Africa e vengono percepite come distinte, sia dai rimpatriati che dai locali, al momento dell’incontro. L’intento è quindi quello di andare a verificare che cosa abbia significato, soprattutto in termini identitari, il processo di reintegro, ovvero se e come sia avvenuto l’allineamento a un’italianità peninsulare e che cosa resti oggi dell’identità africana.
I flussi di rimpatrio di cui mi occupo si sono verificati in un arco di tempo durato all’incirca per quarant’anni. Sono tuttavia individuabili alcuni momenti precisi, rispetto ai luoghi di partenza, in corrispondenza dei quali questa ininterrotta fuga di italiani dal continente africano ha registrato dei picchi. I rimpatri dalle ex-colonie italiane si sono verificati soprattutto durante la guerra e fino al 1952. Vi sono stati poi rimpatri negli anni ’70 dall’ex-Africa Orientale Italiana – provocati dalla guerra civile fra Eritrea ed Etiopia – e dalla Libia – in seguito al proclama di espulsione emesso dal colonnello Muammar Gheddafi. I rimpatri dall’Egitto si sono invece concentrati nel ’56 in concomitanza alla crisi di Suez e quelli dalla Tunisia soprattutto nel ’64, anno dell’editto di espropriazione dei terreni agli stranieri. Infine, i rimpatri degli ebrei libici si verificarono specialmente nel ’67 quando gli avvenimenti della guerra dei sei giorni provocarono di riflesso atti persecutori da parte dei libici nei confronti della comunità ebraica; mentre i ritorni degli ebrei egiziani si concentrarono nel ’48 e nel ’56 sempre come conseguenza di pogrom <2.
La rappresentazione che gli italiani all’estero hanno dell’Italia e dei suoi abitanti gioca un ruolo fondamentale nel plasmare il sentimento di appartenenza nazionale. Questa rappresentazione è l’esito di narrazioni mediate da una pluralità di soggetti a livelli diversi. Se la scuola italiana in Africa forniva, a coloro che l’avevano frequentata, conoscenze storiche, letterarie e geografiche sull’Italia; la famiglia trasmetteva invece racconti e immagini di una patria lontana, verso cui era legata da ricordi nostalgici e legami affettivi: «poi in Egitto l’amore per l’Italia era molto sentito, noi emigranti, non solo l’Egitto, tutti gli emigranti che partono […] l’Italia non va via dal cuore» [3. Altre testimonianze raccolte, così come la letteratura esistente, portano inoltre a credere che anche e soprattutto la propaganda fascista, sulla patria e i suoi abitanti ideali, influisse fortemente sull’idea che i rimpatriati avevano dell’Italia. L’immagine propagandistica di una grande Italia, influente sul piano internazionale e il modello di cittadino a cui conformarsi avevano verso gli italiani all’estero lo scopo preciso di far riemergere la loro italianità, in molti casi sopita dagli anni di permanenza fuori l’Italia, e parallelamente di far coincidere questa ritrovata appartenenza con la fedeltà al fascismo <4. Anche per gli intervistati sembra che l’adesione al fascismo non fosse tanto una scelta ideologica quanto piuttosto identitaria attraverso la quale riscoprire un’origine che fungesse da ulteriore collante all’interno della comunità in Africa: «Mio padre era sempre stato un antifascista sfegatato, se non che giù in Africa la componente fascista più che fascista era nazionalista. Essendo fuori dall’Italia si è più portati ad essere per l’italianità e quindi vedere tutto il resto come qualcosa di nemico» <5. Molte delle interviste, soprattutto a rimpatriati da Tunisia ed Egitto, testimoniano quindi una fascistizzazione totale delle comunità in Africa, concepita e raccontata in termini di italianizzazione, dove le ragioni di adesione all’ideologia politica scivolano in secondo piano <6. D’altra parte, nei racconti di oggi, persiste soprattutto fra gli ex-coloniali, l’esigenza di disgiungere o giustificare l’associazione fra colono e regime, probabilmente in ragione del fatto che loro più degli altri hanno rappresentato – e rappresentano ancora oggi – l’incarnazione della storia del fascismo <7.
Gli intervistati e le loro famiglie hanno dunque rivisto e stretto un nuovo legame con l’Italia durante il Ventennio – soprattutto nel caso degli italiani di Tunisia che spesso hanno introiettato la propaganda fascista per la Tunisia italiana, come una forma speciale di interessamento del Duce nei loro confronti.
Questa idea dell’Italia che i rimpatriati avevano in mente è andata poi a determinare l’impatto con la realtà al momento del ritorno e, assieme all’esperienza eccezionale della vita comunitaria in Africa, ha definito che cosa volesse dire per loro essere italiani. Le dinamiche di vita in colonia e nelle comunità in Egitto e Tunisia sembra infatti fossero definite secondo regole e valori specifici che non hanno trovato – tanto quanto l’idea fittiziamente costruita dell’Italia – corrispondenza sull’altra sponda del Mediterraneo. L’incontro con l’Italia è stato quindi esperito come uno scontro che ha palesato allo stesso tempo l’esistenza di varianti di italianità e l’esclusività della versione africana. Le fonti orali mettono a questo proposito in luce come il reintegro sociale in Italia dei rimpatriati sia stato possibile soprattutto attraverso la messa in secondo piano di quegli elementi culturali che i locali consideravano esotici. Come si vedrà in seguito, fra questi elementi, oltre a quelli più concreti, come la preparazione dei cibi e la lingua della comunicazione, inevitabilmente contaminati dal contatto con altre tradizioni; ci sono anche i modi diversi in cui si costruivano e mantenevano le relazioni personali, che credo siano invece da ricondurre alla specifica natura delle comunità di europei in Africa. Il grado di contaminazione varia a seconda dei casi. É sicuramente più basso negli italiani ritornati dalle colonie – per il semplice motivo che in colonia la cultura italiana si trovava in una posizione dominante rispetto a quella dei locali e delle eventuali altre minoranze presenti – è invece più elevato nei casi degli italiani d’Egitto e Tunisia – dove, soprattutto in Egitto, c’era una vastissima rappresentanza di minoranze linguistiche e culturali. Varia infine contestualmente al periodo di permanenza fuori dall’Italia, fino al caso estremo degli ebrei egiziani con passaporto italiano, il cui legame con l’Italia derivava spesso da una breve o lontana permanenza nella penisola, una fra le tante tappe dell’errante vicenda famigliare. Specialmente nel primo periodo in Italia, l’esigenza di allinearsi quanto più possibile a un modello peninsulare di italiano era dettata dall’imminente preoccupazione di cercare casa e lavoro in un paese che non sembrava disposto a dar loro fiducia, dove non di rado i rimpatriati si sentirono ghettizzati. Il confronto coi locali avvenne nella quotidianità e in particolare sul posto di lavoro e a scuola. È qui specialmente che si palesava la diversità fra le due attitudini e dove capitava ai rimpatriati di essere vittima di stereotipi come pure di blande forme di razzismo. Il racconto di questi episodi è oggi nella maggior parte dei casi filtrato dal successo, nel medio e lungo periodo, del reinserimento in società e di conseguenza è ripulito della carica razzista e di incomprensione che credo invece fosse spesso una componente effettiva dell’approccio dei locali. Come emerge nell’aneddoto raccontato da Silvano Mascari: «poi magari facevi un verbale per un divieto di sosta (e loro dicevano): “Eh, l’arabo mi ha fatto il verbale”» <8 vigile urbano ancora oggi conosciuto con questo soprannome a Latina.
Dall’altra parte riscontro invece un giudizio pressoché unanime dei rimpatriati circa il contesto di inserimento che ricordano come “provinciale”, per l’atteggiamento di curiosità misto ad una diffusa ignoranza sul loro conto ma anche per un’arretratezza dei costumi: «in Tunisia si andava in queste grandi gelaterie e bar, mia mamma ci andava con le sue amiche, chiacchieravano e consumavano e noi bambini a giocare, qui era impossibile perché solo se vedevano delle donne fumare quelle erano puttane». L’esperienza del reintegro tuttavia non è stata per tutti uguale. Alcuni fattori andarono ad incidere sul processo e sul suo esito, come l’esistenza di una rete di legami famigliari in Italia e la permanenza della rete di conoscenze africane, il tipo di educazione e le abilità acquisite in Africa. Il persistere di forti rapporti interni alle famiglie – riscontrabile fra gli ex-coloniali del periodo fascista – o di legami che tenevano uniti gli stessi rimpatriati – è questo specialmente il caso degli italiani di Tunisia residenti nella zona dell’Agro Pontino – ha evitato l’esperienza del campo profughi a molti fra gli intervistati. La permanenza prolungata in campo profughi giocava certamente a sfavore del reintegro sia perché psicologicamente deleteria, a causa della pessima qualità della vita che veniva assicurata, ma anche per il fatto che gli abitanti dei campi erano spesso mal visti dai locali <9. Similmente le competenze linguistiche andarono ad incidere sul processo di reintegro. Gli italiani d’Egitto conoscevano frequentemente sia il francese che l’inglese oltre all’italiano in quanto risulta fosse obbligatorio studiare le due lingue anche nelle scuole italiane; queste competenze valsero loro un veloce inserimento nel mercato del lavoro – che alla fine degli anni Cinquanta certo non pullulava di esperti nelle lingue – e spesso l’accesso a buone posizioni lavorative. All’estremo opposto l’esperienza degli italiani di Tunisia. Problema comune fra gli intervistati tornati dal paese nord-africano, che per la quasi totalità gestivano delle aziende agricole, è stata la scarsa conoscenza della lingua italiana o piuttosto la conoscenza di una sua declinazione dialettale specificamente siciliana. Questa situazione sembra essere stata l’esito da una parte dell’obbligo di frequentare scuole francesi dopo il ’43 e dall’altra di un’origine pressoché totale della comunità italiana – si intende qui quella delle migrazioni otto e novecentesche <10 – siciliana e pantesca. I rimpatriati dalle colonie parlavano invece un italiano tendenzialmente privo di cadenze regionali; avevano infatti frequentato scuole italiane, in un contesto definito da una non casuale mescolanza di origini regionali diverse. Nei ricordi dei rimpatriati, soprattutto quelli che frequentarono poi le scuole in Italia, molti degli episodi di scherno e razzismo sono proprio collegati alla questione della lingua. Se per gli italiani di Tunisia si trattava per l’appunto della derisione per il parlare strano, a volte le maggiori competenze dei rimpatri dalle colonie e dall’Egitto potevano favorire un sentimento di sospetto e di invidia fra i banchi di scuola e al lavoro: «mi dicevano: “te parli in cicara atenta a non cascare in piateo” e io ho chiesto spiegazioni, vuol dire che io parlavo in italiano, perché a casa parlavamo in italiano, allora le mie compagne pensavano che io parlassi in italiano per farmi vedere» <11.
L’atteggiamento di stupore e sospetto – che tuttavia non è stato sempre l’unico approccio dei locali ai rimpatriati – è andato a sparire col tempo e l’approfondirsi delle conoscenze personali. Per tutti i rimpatriati intervistati il reintegro in Italia, che è ormai effettivo da decenni, si può misurare anche sulla quantità di relazioni di stima e fiducia che hanno intessuto coi locali. Quello che risulta però particolarmente interessante è il fatto che generalmente continuino a distinguere le relazioni coi locali da quelle fra di loro, e che la distinzione avvenga in considerazione del bagaglio di esperienze collezionato in Africa – nonostante per molti dei rimpatriati siano gli anni in Italia quelli della formazione personale e soprattutto professionale – e della permanenza di uno scarto da loro percepito a livello dei valori che vengono messi in gioco nei rapporti. Sembra che le relazioni dentro le comunità in Africa fossero costruite come quelle di una grande famiglia estesa, quindi i legami con gli amici, solitamente ex-compagni di scuola, o i vicini di casa venivano a configurarsi letteralmente come dei legami fraterni, con un alto grado di intimità. All’interno delle famiglie questa dinamica risulta ancora più stringente e viene specialmente percepita dai figli di italiani rimpatriati dall’Africa coniugati con italiani locali. I figli di queste “coppie miste” notano un diverso grado di coesione nei rapporti interni alla famiglia del genitore segnata dal processo di integrazione: «mia madre chiamava la famiglia di mio padre “il clan”» racconta Michela Causarano «Quando dovevano prendere una decisione in famiglia si riunivano, chi da Bologna chi da Torino» <12. Questo è tanto più vero per la generazione dei genitori degli intervistati che avevano spesso fra i 40 e 50 anni al momento del rimpatrio. Per loro le relazioni africane sono rimaste le uniche d’amicizia in Italia – in particolare per le donne che non lavoravano. In un certo senso quindi la specificità delle relazioni fra i rimpatriati, che si caratterizzavano anche per una intensa frequentazione, qualificava i loro gruppi come comunità omogenee distinte, dov’era possibile ritrovare l’identità africana in Italia. Credo che un ruolo nella permanenza di queste dinamiche relazionali ce l’abbiano avuto anche le numerose associazioni che si formarono negli anni immediatamente successivi il rimpatrio. Queste associazioni combinarono l’intento pratico di rendere visibili la situazione e le istanze dei rimpatriati come nel caso dell’AIRL (associazione italiani rimpatriati dalla Libia), dell’ANIT (associazione nazionale italiani di Tunisia) o l’ANRRA (associazione nazionale reduci e rimpatriati d’Africa) solo per citarne alcune, ad una funzione memoriale e identitaria, che si sviluppò anche e soprattutto attraverso la pubblicazione di periodici – molto conosciuto è Mai Taclì edito da un gruppo di studenti universitari dall’Eritrea stabilitisi a Bologna <13. Nel corso degli anni molte fra le associazioni a vocazione più pratica sono state chiuse e nuove sono state aperte con lo specifico intento di mantenere attivi i contatti e viva la memoria di un’esperienza sulla quale in Italia non è mai stata costruita una memoria pubblica ufficiale <14. Credo sia comunque possibile parlare di uno spostamento generale delle associazioni dei rimpatriati verso questa funzione, dovuto anche alla preoccupazione per l’avanzata età della generazione dei testimoni. Nella sua intervista, Giovanna Ortu, fondatrice e presidente dell’AIRL – che è fra le associazioni la più strutturata – racconta dei tentativi che l’associazione sta facendo per coinvolge i figli dei rimpatriati i quali ad oggi non sembrano interessati alla storia famigliare. Tuttavia, la Ortu vede nell’interesse degli studiosi in particolare per la Libia un appiglio alla trasmissione della loro memoria. Nei ritrovi organizzati dalle associazioni così come nella miriade di gruppi più piccoli – ad esempio le associazioni di ex-compagni di scuola – spesso i rimpatriati agiscono la loro identità africana proponendo menù, musiche, performance di ballo appartenenti a tradizioni africane o esprimendosi in lingue alternative all’italiano. Sono soprattutto gli ebrei d’Egitto ad utilizzare normalmente altre lingue per comunicare fra di loro. Rispetto al gruppo conosciuto e intervistato a Milano posso dire che viene utilizzato un idioma prevalentemente francese intarsiato di termini inglesi e specialmente arabi, sfoggiati per condire battute e accattivarsi l’attenzione dell’altro. La dimensione associativa dei rimpatriati sembra tuttavia subire un processo di trasformazione, ormai sono soprattutto i piccoli gruppi a resistere, gli incontri nazionali si fanno sempre più radi – per ovvie ragioni – e parallelamente si sta sviluppando una dimensione virtuale che dai primi anni Duemila predilige i social ai blog dei rispettivi siti di associazioni e periodici. Questo tipo di socialità permette di mantenere i contatti anche con chi ha fatto scelte alternative al rimpatrio in Italia e quindi di serbare un’identità culturale che credo possa a ragione essere definita transnazionale. Anche in famiglia si ripropongono alcune delle performance agite negli incontri di gruppo. Sia gli italiani d’Egitto che quelli di Tunisia parlano tendenzialmente il francese coi famigliari a loro volta rimpatriati. Il francese è infatti per loro la lingua dell’intimità, quella in cui pensano e pregano e che in alcuni casi è stata trasmessa ai nati in Italia <15. C’è infine un altro contesto in cui avviene l’utilizzo di lingue diverse dall’italiano, ovvero quello degli scambi con gli immigrati africani residenti nelle città italiane. In questi casi la lingua utilizzata non è il francese ma l’arabo e l’intento – diversamente dal contesto famigliare dove la volontà è probabilmente di trasmettere una storia e un’identità intime – credo sia più legato alla volontà di performare e rivendicare pubblicamente un’individualità atipica e un’identità alternativa.
Lo scorso febbraio 2018 usciva l’ultimo numero di ASEI (Archivio Storico dell’Emigrazione Italiana) dedicato a: “Fuggitivi e rimpatriati. L’Italia dei profughi fra guerra e Decolonizzazione”. Nel numero, come riportato in introduzione da Patrizia Audenino, trovano spazio diversi nuclei tematici; a una prima parte sulla questione dei rifugiati – e della natura composita di questa categoria – in Italia nell’immediato dopoguerra, fanno seguito una serie di articoli sui rimpatri di italiani dalle ex-colonie italiane e non, chiudono infine due articoli di riflessione storiografica. Focalizzando l’attenzione sul secondo nucleo tematico – quello più pertinente all’argomento della mia ricerca – credo sia necessario sottolineare come il numero di ASEI rappresenti un elemento di novità e di accresciuta consapevolezza della storiografia italiana riguardo la complessità di questo fenomeno, e come d’altra parte sia il risultato di un interesse sviluppatosi specialmente negli ultimissimi anni, in coincidenza all’imporsi dell’Africa e dei suoi migranti all’attenzione pubblica internazionale […]

Collezione Giuseppe Bedondo

[NOTE]
1 Cfr. Andrea Smith (a cura di) Europe’s Invisible Migrants, Amsterdam, Amsterdam University Press, 2003, introduzione.
2 Cfr Romain H. Rainero, Le navi bianche: profughi e rimpatriati dall’estero e dalle colonie dopo la seconda guerra mondiale: una storia dimenticata (1939-1990), Mergozzo (VB), Sedizioni Diego Dejaco Edizioni, 2015 e Patrizia Audenino, La casa perduta: la memoria dei profughi nell’Europa del Novecento, Roma, Carocci editore, 2015.
3 Intervista a Fernanda D’Andrea Caiulo rimpatriata dall’Egitto, Roma 9 maggio 2017.
4 Cfr. Matteo Pretelli, Il Fascismo e gli italiani all’estero, Bologna, CLUEB, 2010.
5 Intervista a Domenico Causarano rimpatriato dall’Africa Orientale Italiana, Bassano del Grappa (VI) 26 novembre 2014.
6 Non discuto qui la veridicità delle testimonianze, la letteratura ha già messo in luce l’esistenza di gruppi e forze di opposizione al fascismo nelle comunità di italiani all’estero, cfr. Leila El Houssi, L’urlo contro regime: gli antifascisti italiani in Tunisia tra le due guerre, Roma, Carocci editore, 2014
7 Cfr Pamela Ballinger, Borders of nation, borders of citizenship: Italian repatriation and the redefinition on national identity after world war II, in ‘Comparative Studies in Society and History’ n. 47, 2007, pp. 713-741.
8 Intervista a Silvano Mascari rimpatriato dalla Tunisia, Latina 9 maggio 2017.
9 Cfr. Silvia Salvatici, Senza casa e senza paese: profughi europei nel secondo dopoguerra, Bologna, Il Mulino, 2008.
10 Cfr. Daniela Melfa, Migrando a Sud: coloni italiani in Tunisia 1881-1939, Roma, Aracne, 2008.
11 Trad. ‘stai attenta a parlare in tazzina che potresti cadere in piattino’, significato: non atteggiarti troppo perché potresti cadere in errore. Intervista a Elisa Pozza Tasca rimpatriata dalla Libia, Bassano del Grappa (VI), 17 novembre 2014.
12 Intervista a Domenico Causarano rimpatriato dall’Africa Orientale Italiana, e a sua figlia Michela Causarano nata in Italia, Bassano del Grappa (VI), 17 marzo 2018.
13 Cfr. Charles Burdett, Colonial Associations and the Memory of Italian East Africa, in Jacqueline Andall e Derek Duncan (a cura di) Italian Colonialism. Legacy and Memory, Berna, Peter Lang AG, 2005.
14 Cfr. Patrizia Audenino, op. cit.
15 Intervista a Italo Allelto, Liliana Salerno, Gioacchina Maria Salerno, Giovanni Antonio Catalano rimpatriati dalla Tunisia, Latina 12 maggio 2017.

Alessandra Vigo (Università degli Studi di Padova), I rimpatriati italiani della Decolonizzazione: ridefinire l’identità nazionale (1940 – anni Settanta), Storie in Corso XIII – Workshop Nazionale Dottorandi Sissco 2018

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Pensionato di Bordighera (IM)
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