Borghese non mentiva su nessuno dei tre punti

La X° Flottiglia MAS fu un’unità speciale della Regia Marina italiana, istituita nel 1939 come I° Flottiglia MAS, una delle tre flottiglie MAS in forza alla Marina all’inizio del Conflitto. Questa cambiò il suo nome il 14 marzo del 1941. <63
Inizialmente non riscosse particolari successi subendo numerosi decessi tra i componenti, ma si riscattò in occasioni successive, come accadde nella battaglia alla Baia di Suda, il 25 e il 26 marzo 1941 o nell’impresa di Alessandria, effettuata il 19 dicembre dello stesso anno. Fu in grado quindi di limitare per un lungo periodo le attività della Royal Navy nel Mediterraneo a causa delle ingenti perdite di navi da guerra che aveva causato.
Dopo l’11 settembre del 1943 visse un periodo di inattività fino a che non venne riorganizzata ed inglobata nella Marina Nazionale Repubblicana, almeno una parte. La parte rimasta nei territori meridionali del paese venne, anche questa riorganizzata, prese il nome di Mariassalto, stanziata a Taranto e comandata dal capitano di fregata Ernesto Forza, continuò a combattere a fianco degli alleati. Nell’equipaggio erano stati reintegrati anche molti soldati che erano stati catturati. <64
La X° Flottiglia MAS il 1º maggio 1944 divenne la Divisione fanteria di marina X° <65 ma passò alla storia come X° MAS, comandata dal capitano di fregata Junio Valerio Borghese che dopo Cassibile si alleò con il capitano di vascello Berninghaus della Marina tedesca.
L’attività però non si limitò solo al conflitto bellico, ma si dedicò anche all’inibizione della Resistenza: i metodi furono estremamente repressivi e violenti ed in seguito furono molte le denunce di crimini di guerra alle quali i membri dovettero rispondere. <66
Agì anche ai confini con la Jugoslavia nel tentativo di mantenere il dominio italiano contro la politica annessionista dei tedeschi che era sostenuto da collaborazionisti sia Serbi, croati e sloveni <67.
Apparentemente la Decima risultava apolitica ed apartitica e per entrarvi non era neppure necessaria l’iscrizione al Partito Fascista Repubblicano (PFR). In seguito al rinnovamento di Borghese, vi furono numerose adesioni, come ad esempio 200 ufficiali stanziati nella città della Spezia. Ma non solo, in poco tempo si unirono a loro altri 300 ufficiali comandati dal capitano di corvetta Umberto Bardelli <68. Subito dopo la nascita della RSI furono molti i giovanissimi, a volte anche minorenni, che si presentarono come volontari, ammirati dalle gesta miticizzate degli uomini della Decima, chiamati maiali e della figura mitica del loro comandante. Si giunse quindi a 20.000 uomini <69.
L’ordinamento interno ufficioso della Decima contribuiva ad attirare molti volontari, per il peculiare cameratismo che sussisteva anche tra ufficiali e marinai, che avevano persino la medesima uniforme, un rancio unico e un ambiente non determinato dal solito conformismo militare. Vi era inoltre la possibilità di venire promossi per merito nelle azioni, e non solo per concorsi o anzianità.
La visione dei volontari, soprattutto i più giovani era caratterizzata dal desiderio della famigerata concezione di “bella morte”, di azioni eroiche atte al riscatto dell’onore italico demolito dal Re e da Badoglio. Il loro stemma principale era un teschio con una rosa in bocca voluto specificatamente dal capitano di corvetta Salvatore Todaro, che in punto di morte chiese di creare un distintivo per la X che riconducesse la morte in combattimento ad un atto caratterizzato dalla dolcezza del profumo di una rosa <70.
A differenza delle altre organizzazioni della RSI, la Decima fu peculiare, giacché partì con l’intento di partecipare ad una guerra di liberazione del paese dagli invasori (gli Alleati), ma vennero utilizzati dai tedeschi per la contro guerriglia contro la Resistenza.
Ciononostante gli ufficiali godevano di una certa libertà; infatti, avevano la possibilità di congedarsi senza esiti negativi, nel caso non se la sentissero di combattere contro gli italiani <71.
Paradossalmente, nonostante i membri non lesinassero la violenza, i soprusi, le torture di partigiani o presunti tali, e l’arresto di civili utilizzati come ostaggi, tanto da macchiarsi di numerosi crimini di guerra, vi fu una sorta di adeguamento alla convenzione dell’Aja, almeno negli intenti iniziali, che non consentiva la fucilazione di prigionieri e l’imprigionamento di ostaggi fra i civili per rappresaglia.
Vi furono anche alcuni casi di accordi tra reparti della Decima e gruppi partigiani, atti alla contrapposizione contro i tedeschi e contro le forze jugoslave. Come anche degli accordi per lo scambio dei prigionieri, sebbene se un membro della Decima fosse passato dalla parte dei partigiani, sarebbe stato fucilato, cosa che si verificò in più occasioni.
La X° MAS di Borghese crebbe rapidamente sia attraverso regolari arruolamenti, sia accogliendo disertori di altri reparti ed in qualche caso è stata segnalata anche la presenza di ex partigiani. Non vi furono molte diserzioni, giacché Borghese aveva istituito la pena di morte ben prima delle altre Forze Armate per mantenere alto il senso dell’onore <72.
Le problematiche della mancanza di risorse colpì anche la Decima, ma Borghese risolse il problema trattando direttamente con le forze tedesche che lo tenevano in alta considerazione, cosa che creò dei contrasti con alcune autorità della RSI, che non la consideravano pienamente come parte delle Forze Armate della Repubblica Sociale, ma il sostegno e l’autonomia concessa dai tedeschi ne fece un vero e proprio Corpo Franco, che addirittura non usava il saluto al Duce, ma solo un saluto alla Decima <73.
Si giunse persino a sospettare che Borghese potesse organizzare un Golpe nei confronti di Mussolini, tanto che venne arrestato il 14 gennaio 1944. La reazione della Decima fu pesante, tanto che ipotizzò persino di marciare contro il governo di Salò e si pensa che la cosa venne risolta grazie all’intervento dei tedeschi che tutto volevano meno che una ulteriore scissione all’interno delle file italiane <74. Borghese fu liberato e gli venne assegnato il ruolo di sottocapo di Stato Maggiore con ai suoi ordini le attività operative di Marina <75.
Durante la Repubblica di Salò quindi la Decima ottenne molti successi nei combattimenti contro gli Alleati e nel 1945 Borghese riorganizzò la Divisione Decima in Veneto dando vita a due Gruppi di Combattimento, per recarsi a Trieste e Fiume e resistere a Tito. L’azione venne impedita dal tracollo del Conflitto, per cui i reparti rimasero inattivi fino alla resa agli alleati con l’onore delle armi nel periodo tra il 29 aprile ed il 2 maggio 1945.
Come abbiamo detto, però, la Decima si distinse nella lotta civile, che vide il suo inizio dopo il 23 gennaio 1944, in seguito ad un attacco dinamitardo che fece saltare alla Spezia il tram che collegava il centro cittadino con la sede della Decima nella Caserma San Bartolomeo, provocando la morte di tre fucilieri di marina e due cittadini. A questo punto però i suoi appartenenti furono posti di fronte alla scelta di congedarsi o continuare con la guerra civile. In seguito a questo episodio, la Decima inviò dei reparti in supporto ai tedeschi per un rastrellamento nelle montagne della zona, durante il quale non si ebbero scontri a fuoco, ma solo sequestri d’armi. La prima azione violenta nei confronti della Resistenza avvenne nel marzo dello stesso anno, in seguito al blocco da parte dei partigiani di un convoglio che da La Spezia avrebbe dovuto trasportare dei prigionieri a Parma. Nell’attacco morirono alcuni esponenti della Decima <76, che per rappresaglia organizzò un rastrellamento che portò alla morte di 12 partigiani.
La contrapposizione nei confronti della Resistenza assunse toni repressivi caratterizzati da una violenza estrema. Ma la Flottiglia non si limitava alla battaglia contro i partigiani: vi furono casi di vessazioni, requisizioni, violenze anche nei confronti dei civili, tanto che lo stesso Governo si lamentava di tali comportamenti. In un appunto per Mussolini da parte di Mario Bassi, si legge infatti: “continuano con costante preoccupazione le azioni illegali commesse dagli appartenenti alla X° Mas. Furti, rapine, provocazioni gravi, fermi, perquisizioni, contegni scorretti in pubblico, rappresentano quasi la caratteristica speciale di questi militari. Anche il 12 novembre 1944, tra l’altro, verso le ore 20 quattro di essi si sono presentati in un magazzino di stoffe: dopo aver immobilizzato il custode ne hanno asportato quattro colli per un ingente valore […]. La cittadinanza, oltre ad essere allarmata per queste continue vessazioni, si domanda come costoro, che dovrebbero essere sottoposti ad una rigida disciplina militare, possano agire impunemente e senza alcuna possibilità di punizione […]. Sarebbe consigliabile pertanto, che tutto il reparto, comando compreso, sia fatto allontanare da Milano” <77.
Tra gli innumerevoli episodi di violenza, possiamo ricordare il caso del partigiano Ferruccio Nazionale, che venne catturato mentre attentava al cappellano militare della Decima. L’uomo che aveva solo 22 anni, venne impiccato in piazza oramai in fin di vita a causa del violento pestaggio subito ed il corpo venne lasciato esposto per giorni nella piazza di Ivrea, come monito alla popolazione che gli venne fatta sfilare davanti. Al cadavere avevano attaccato un cartello con su scritto: “aveva tentato di colpire con le armi la Decima”. Tale foto è passata alla storia per la sua efferatezza, a dimostrazione della condotta feroce di tale formazione. Il corpo martoriato di Ferruccio Nazionale venne fatto portare via da un ufficiale del battaglione, sconvolto da così tanta ferocia da parte dei suoi stessi uomini.
Si sono registrate anche una serie di uccisioni contro i civili che venivano ritenuti fiancheggiatori dei partigiani: la Decima in più di una occasione fece irruzione nei paesi, facendo seguire rastrellamenti, violenze, stupri, esecuzioni sommarie ed in seguito i paesi venivano saccheggiati e dati alle fiamme.
Si deve sottolineare il coinvolgimento, che venne però fuori solo negli anni Sessanta, attraverso una serie di documenti, con la strage delle Fosse Ardeatine.
Alla fine della guerra, vennero effettuati numerosi processi per crimini di guerra: nel caso di Borghese però, ci si mosse solo con l’accusa di “collaborazione militare” e venne condannato a 12 anni di carcere e all’interdizione dei pubblici uffici.
Una volta tornato libero fiancheggiò organizzazioni terroristiche di estrema destra, tanto che si sospetta che vi sia stato un suo coinvolgimento con le stragi fasciste avvenute negli anni di piombo.
[NOTE]
63 Giorgio Bocca, op. cit.
64 Ibidem.
65 Antonio Pietra, Guerriglia e contro guerriglia: un bilancio militare della Resistenza, 1943-1945, Rossato editore, Valdagno, 1997, p. 67.
66 Giorgio Bocca, op.cit
67 Guido Bonvicini, Decima Marinai! Decima Comandante!, Mursia, Milano, 2016.
68 Giorgio Pisanò, Storia della guerra civile in Italia, CED, Milano 1964.
69 Ibidem.
70 Emanuele Mastrangelo, I canti del Littorio, Lo Scarabeo, Bologna, 2006.
71 Guido Bonvicini, op. cit., p. 79.
72 Emanuele Mastrangelo, op. cit.
73 Aurelio Lepre, La storia della Repubblica di Mussolini. Salò: il tempo dell’odio e della violenza, Mondadori, Milano, 1999.
74 Aurelio Lepre, op. cit.
75 Ibidem.
76 Archivio di Stato della Spezia, Gabinetto prefettura, busta 51, fasc.n.d.
77 Archivio di Stato della Spezia, Gabinetto prefettura, busta 51, fascicolo n.d.
Marco Bardi, La Repubblica Sociale Italiana alla Spezia tra pratiche repressive e punizione dei crimini, Tesi di laurea magistrale, Università di Pisa, 2019

Prima pagina della relazione del capitano Marceglia in proposito della sua missione presso il comandante Borghese
Altra pagina della relazione di Marceglia
Ultima pagina della relazione di Marceglia

Non si capirebbe granché delle vicende della X MAS repubblicana – un Corpo che giunse a raccogliere sotto le sue bandiere più di ventimila uomini (e secondo alcuni, anche 50 mila) – se non si tenesse conto, prima, della singolare personalità del suo comandante, il principe Junio Valerio Borghese, rampollo di una illustre famiglia dalle lontane origini senesi, che contava nelle sue ascendenze tre cardinali, un papa, Paolo V, e – per via di matrimonio – anche la bellissima Paolina, sorella di Napoleone. Un elenco completo dei titoli nobiliari spettanti a Junio Valerio occuperebbe parecchie decine di righe: ma può essere compendiato dalla semplice constatazione che, quando egli aperse gli occhi alla vita, si trovò automaticamente imparentato con mezza Europa. Quella che contava, naturalmente.
Aristocratico e passabilmente cinico, coraggioso ed assolutamente incurante del denaro, nel senso che il non averlo non gli impediva minimamente di spenderlo, Junio Valerio aveva scelto di essere uomo di mare ed ufficiale di mestiere. Entrato nella chiusa Accademia di Livorno, ne era uscito in tempo per partecipare, sul sommergibile Tricheco, alla campagna d’Etiopia del 1935-36, come ufficiale in seconda. Poi era passato sull’Ametista, quindi sul Vettor Pisani ed infine sullo Sciré, il primo sommergibile, assieme al Condar, destinato al sostegno continuativo delle esercitazioni e delle operazioni ultrasegrete dei «mezzi d’assalto» della Marina.
Borghese non era nuovo ad un tal genere di guerra: sia perché aveva il brevetto di palombaro da molto tempo, sia perché con l’Ametista, nel gennaio 1940, aveva appoggiato nel Golfo di La Spezia la primissima prova ufficiale di tre «maiali». Era rimasto molto impressionato da quel muoversi a corpo quasi nudo in un mare freddo ed ostile, per colpire il nemico nelle sue basi più sicure: e turbato, fin dal primo momento, dalla forte personalità di Teseo Tesei, il «padre» dei mezzi d’assalto, il quale soleva dire come l’esito della missione, o quello stesso della guerra, non avessero nessuna importanza: l’importante – diceva – era morir bene, da uomini.
Senza dubbio Borghese sentì profondamente questo tipo di azione per l’azione, questa morale oltre la morale, questo individualismo esasperato. Gli piacque l’atmosfera spreta (anche verso i comandi superiori) della foce del Serchio, nel cuore della tenuta del Duca Salviati (altro suo parente), dove si tenevano allenamenti ed addestramento degli equipaggi. Gli piacque, soprattutto, la possibilità di raggiungere grandi successi con minimi mezzi, su una base quasi essenzialmente individuale.
Qui, l’uomo decideva veramente tutto. Ma rimaneva pur sempre un principe, con nel sangue e nell’abitudine di generazioni un individualismo vero e non di maniera. Attorno a lui, l’atmosfera era severa, quasi mistica: ed in un certo modo lo rimase sempre, anche durante il periodo della Repubblica di Salò, poiché il conformismo dei «buoni sentimenti», dell’amor di patria, dell’onore e combattimento fu sempre fortissimo in tutti: ma non in Borghese che era in certo modo superiore a queste cose, comunque molto distante.
Esaminando i suoi atti e le decisioni che prese, si comprende molto bene che né il fascismo e neppure Mussolini, neppure la sorte della patria ebbero mai per lui molto significato, in quella specie di «gioco da salotto» in grande che stava conducendo.
Finché questo fu coperto dalla verbalità di maniera di quel triste periodo, nessuno, dei suoi, se ne accorse: ma al momento del dunque, quando Borghese si allontanò silenziosamente, piantando in asso e fascismo e Repubblica e persino la X, e persino gli amici, proprio come il principe che fa un gesto di noia e dice al vetturale «via, via, andiamo via, cos’è questa rissa di ubriachi?», allora, in quel momento, vi furono tra i suoi fedeli tragiche crisi di coscienza e pianti e maledizioni, che durano ancor oggi non sopite. Perché il fascino di Borghese, del modello di vita che egli propose, fu grandissimo: e la caduta dell’idolo altrettanto.
[…] Il contatto tra Borghese ed il Sud non fu mai perso del tutto, ed anzi, col passar, del tempo, divenne faccenda importante. La X aveva potenti radio, poteva ascoltare chi voleva, ed anche trasmettere: inoltre c’era sempre gente del reparto che dal Sud veniva al Nord, ed anche che dal Nord andava al Sud, in una miriade di casi personali, familiari, di coscienza, il cui pregio maggiore era quello di non far mai mancare informazioni a nessuna delle due parti.
Poi c’era il tenace cemento di tre anni di vita comune, anche se ora si era divisi da una linea di combattimento. Quando Durand de la Penne, che era con la X ricostituita al Sud, la X Regia, appoggiò l’attacco subacqueo a La Spezia contro due incrociatori italiani che vi si stavano rattoppando, lasciò in mare una borraccia con un biglietto per Borghese, mezzo ironico, mezzo cameratesco: «Saluti da quelli della X SUD».
Questo il 22 giugno 1944, ma la stessa cosa era stata fatta da altri il 19 maggio precedente, quando la X SUD attaccò nel porto di Genova la non finita portaerei Aquila, sabotandola gravemente.
Da quel momento le due X si salutarono sempre, in un modo o nell’altro, nel corso delle rispettive imprese. Vi è anche la prova che in almeno due casi, uno per parte, si chiusero gli occhi, dopo altrettante imprese, sul pacifico e non disturbato ritorno tra le linee amiche degli equipaggi che avevano preso terra dopo l’azione. E d’altra parte – per quanto oggi possa sembrare piuttosto strano – le «missioni» della X NORD al Sud furono molto spesso ospitate dai loro vecchi colleghi. Ugualmente accadde per gli agenti paracadutati al Nord, che poi furono 300. C’è una buona ragione, se i tedeschi riuscirono ad arrestarne ed a giudicarne soltanto dieci. Una guerra «con salvo il quartiere», insomma, come usava prima della battaglia di Rocroy.
Con l’estate 1944, i contatti divennero espliciti e programmati. L’iniziativa venne presa dallo Stato Maggiore della Marina del Sud, che fece sbarcare da un sommergibile ad Jesolo il tenente di vascello Giorgio Zanardi, con un incarico
speciale per Borghese da parte del Capo ufficio Informazioni della Marina, il comandante Calosi. Zanardi prese terra regolarmente, si diresse a Venezia, dove l’ammiraglio Franco Zannoni aveva il delicato compito di funzionare da
intermediario e da «controllore» delle parole d’ordine, e poi fu condotto da un ufficiale della X a Valdagno, sede del Comando di Borghese.
Questo «uomo venuto dal mare» sollevò un certo chiasso negli ambienti integralisti della X, i quali sospettarono subito che, oltre alla missione ufficiale, ve ne fosse una anche privata, per il loro comandante. Ma Borghese mise rapidamente tutto a tacere, e poi si dedicò a lunghi colloqui con lo Zanardi.
Le «avances» del Governo del Sud (si deve supporre che la Marina non abbia fatto completamente di testa sua) concernevano due punti principali ed uno sussidiario. I principali erano la salvaguardia delle attrezzature industriali dell’Alta Italia e soprattutto dei porti, segnatamente Genova; e la questione della Venezia Giulia, nella quale il IX Corpus jugoslavo stava spingendo rudemente, alla periferia di Gorizia e di Udine, per non parlare di Trieste. Il terzo punto riguardava le attività che Borghese volesse e potesse svolgere per il recupero dai campi di concentramento tedeschi di un notevole numero di ufficiali di Marina che vi erano rimasti intrappolati. Non si sarebbe potuto richiamarli, col pretesto di arruolarli nella X NORD, per travasarli poi al Sud?
Zanardi rimase alquanto stupito quando apprese che queste preoccupazioni ed iniziative non soltanto non avevano bisogno di illustrazione, per Borghese, ma erano già fatti concreti. Il principe era al corrente da molto tempo dei programmi «terra bruciata» dei tedeschi, ed aveva raccolto da alti prelati e porporati di Genova pressanti appelli perché venisse evitata quella distruzione del porto che i genieri tedeschi stavano già meticolosamente preparando con non meno di duecento grosse mine affondate in luoghi segreti lungo i moli e gli edifici principali. Al momento opportuno i sommozzatori della X, inviati appositamente, avrebbero disinnescato le mine: per ora si procedeva a localizzarle, mano a mano che i tedeschi le deponevano.
Per la Venezia Giulia, Borghese disse che era previsto l’impiego della X nella zona di Gorizia a partire dall’ottobre. Qui le cose erano meno facili, perché i tedeschi si opponevano a qualsiasi intrusione di unità regolari italiane in una zona, quella del «litorale Adriatico», che consideravano di esclusiva loro pertinenza. Comunque si sarebbe fatto il possibile. Quanto ai «recuperi» in Germania, molti ufficiali, e ne fece i nomi, erano già stati fatti ritornare: altri erano per la strada. Prima dell’inverno – concluse – tutti gli ufficiali di Marina ancora in Germania sarebbero rientrati in Italia.
Borghese non mentiva su nessuno dei tre punti. Aveva effettivamente disposto per una accurata sorveglianza a Genova dei preparativi tedeschi, ed aveva già dato ordini preliminari per lo spostamento di quasi tutte le sue unità dal Piemonte alla Venezia Giulia, forse perché le sue informazioni sui tentativi tedeschi, o meglio austriaci, per snazionalizzare la zona, erano più precise e più gravi di quelle che si potevano ottenere al Sud. Sette giorni dopo l’armistizio, infatti, era stata costituita dai tedeschi la «Zona di operazioni del Litorale Adriatico», sul modello di quella Adriatisches Kùstenland che la restaurazione asburgica aveva creato dopo la caduta di Napoleone, conglomerando la Contea di Gradisca e Gorizia, il Governatorato di Trieste, il Margraviato d’Istria ed il Distretto di Castua.
A comandare la nuova edizione del «Litorale», era stato mandato il Supremo Commissario Friedrich Reiner Stahel, un austriaco di Klagenfurt, che si era portato dietro uno stuolo di vecchi funzionari della Carinzia, del Tirolo e del Voralberg, molti dei quali avevano esercitato le loro mansioni, sotto l’aquila asburgica, negli stessi luoghi nei quali vennero reinsediati. A questo, Reiner Stahel accoppiava un’indubbia propensione per i partigiani «ustascia» croati, per i «cetnici» e per i «domobranci» sloveni, senza dubbio perseguendo il sogno, piuttosto fuori calendario, di uno stato mitteleuropeo che, in caso di vittoria tedesca, avrebbe potuto sorgere lì, riunificando austriaci, tirolesi, sloveni e croati. I primi reparti della X giunsero in zona all’inizio di ottobre del 1944, con comando a Maniago. Poco più tardi arrivarono gli altri, ed allora il Q.G. venne spostato a Gorizia, con una forza non trascurabile: erano ai suoi ordini i battaglioni «Barbarigo», il «Nuotatori – Paracadutisti», «Sagittario», «Fulmine» e «Valanga», il battaglione del Genio «Freccia» e due gruppi d’artiglieria, cioè l’equivalente di una Divisione leggera.
Rimasero sugli stessi luoghi delle grandi battaglie di trent’anni prima, la Selva di Tarnova, il San Gabriele, Chiapovano, la Bainsizza fino al 9 di febbraio, quando vennero ritirati per ordine diretto di Berlino.
Ma in quei due mesi, non c’è dubbio che la loro sanguinosa azione valse a fermare il IX Corpus jugoslavo. Ed è ancora difficile mettere a fuoco, oggi, quali fossero i reali intendimenti di Tito in questo delicatissimo settore: ma possiamo dedurlo con una certa sicurezza dal fatto che anche la Resistenza, anche il Partito Comunista italiano giudicarono, in quell’autunno 1944, la situazione ad oriente con preoccupazione.
Da Borghese arrivò una seconda missione dal Sud, alla vigilia della fine, impersonata da uno dei più valorosi affondatori della X, che chiameremo semplicemente Antonio [n.d.r.: in effetti si trattava del capitano del Genio Navale Antonio Marceglia, che fece in proposito una relazione di 29 pagine, documento desecretato della CIA, rinvenibile in Rete, relazione di cui qui si riproducono alcune immagini], poiché la sua identità reale non ha poi una grande importanza. Antonio, mandato dall’ammiraglio De Courten, Capo di S.M. del Ministro della Marina, sbarcò con altri a Marina di Carrara nella notte del 10 marzo 1945, e prese contatto coi partigiani locali. L’albergo nel quale essi lo condussero era però sotto sorveglianza delle SS, per cui venne immediatamente arrestato e portato in prigione a La Spezia. Da qui ottenne di telefonare a Borghese, a Valdagno: poche ore dopo, giungeva da Genova il tenente della X Ongarillo Ongarelli che lo scortava prima a Genova e poi a Milano. Qui il 30 marzo, in Piazza Principessa Clotilde 6, dove Borghese aveva il suo privato quartiere, si ritrovarono a pranzo Antonio, lo stesso principe, l’ammiraglio Giuseppe Spartani, Sottosegretario della Marina repubblicana, il capitano Gennaro Riccio, uno dei fedelissimi di Junio Valerio, e Luigia Bardelli, moglie del defunto capitano di corvetta Umberto Bardelli e capo delle ausiliarie della X. La discussione ebbe anche toni aspri, perché ognuno sentiva il correre veloce del tempo, ma si giunse ad un accordo: poiché De Courten chiedeva che la X facesse uno sforzo particolare in direzione della Venezia Giulia, nonché in quello degli impianti di Genova, Borghese – dopo aver detto che secondo lui non c’era più assolutamente modo – prese l’impegno di recarsi sul posto per vedere cosa si poteva fare. Per Genova, avrebbe dato gli ordini esecutivi immediatamente.
Antonio ed il principe partirono quasi subito per Venezia, dove si separarono. Borghese si recò in ispezione ai battaglioni che aveva sul fronte del Senio, mentre Antonio fece un lungo giro per Trieste e Cormons, dove la X manteneva una serie di piccoli reparti speciali, con molto materiale di notevole importanza. I due si ritrovarono a Venezia il 20 aprile e rientrarono a Milano immediatamente, persuasi che non fosse possibile, in quel momento, dar corso al benché minimo spostamento di unità.
Mussolini era già a Milano, e per quanto tutto fosse esteriormente calmo e tranquillo, pure l’atmosfera era già quella del «si salvi chi può». Perciò Antonio si recò dal suo contatto milanese, l’ingegner Giorgis dell’Alfa Romeo, che aveva un fratello ufficiale di Marina e che anzi era stato l’inventore dei motoscafi d’assalto della X: benché l’uomo non fosse presente, riuscì ugualmente a mandare al Sud il suo messaggio informativo che, come egli ora ricorda, «era piuttosto negativo».
Borghese in realtà la sapeva molto più lunga di quanto Antonio in quel momento non immaginasse, perché il 13 aprile aveva visto a Rasano il generale delle SS Karl Wolff, controversa e potente personalità che non ha bisogno di illustrazioni. Wolff stava trattando da mesi, si può dire, con i servizi segreti americani in Svizzera, ed in particolare con Allen Dulles, per la resa tedesca di tutto il teatro italiano, ovverosia di ottocentomila uomini.
La cosa era tanto top secret che lo stesso Mussolini non ne seppe nulla finché la bomba non scoppiò in Arcivescovado, il 25 aprile, mentre egli stava a colloquio con i rappresentanti del C.L.N. Ma con il principe Borghese – ed il particolare è di rilevantissima nota – Wolff fece uno strappo, l’unico di quei tragici giorni. Guardandolo fisso, gli disse: «Stiamo facendo un tentativo per andarcene. Sparerete su di noi?» Borghese volle saperne qualcosa di più, e Wolff glielo disse senza reticenze. Poi Junio Valerio chiese con un sorrisetto: «Ed a Mussolini, non direte nulla?» Wolff fece un gesto di noia: «Se glielo dicessimo lo andrebbe a raccontare subito o a Claretta o a Rachele: e allora, dopo cinque minuti, addio segreto. Non gli diremo nulla». Questo colloquio fu la base del successivo atteggiamento del comandante della X. Il giorno dopo comunicò tranquillamente a Pavolini che la sua unità non avrebbe seguito Mussolini in Valtellina, secondo il progetto tante volte rispolverato del generale Onori. E quando Pavolini furibondo chiese che cosa la X allora avrebbe fatto, Borghese rispose senza scomporsi: «Ci arrenderemo, ma a modo nostro, e dove ci parrà più conveniente».
Per la resa, Borghese aveva idee chiare da tempo, perché da qualche settimana il suo Ufficio «affari riservati» stava trattando con il Partito Socialista, e segnatamente con quel Sandro Paini («Oliva») che era il Comandante «in pectore» della Piazza di Milano, ed il braccio destro di Sandro Pettini. I contatti erano straordinariamente facilitati dal fatto che Sandro Paini abitava al primo piano di quel palazzo di Piazza Principessa Clotilde 6, in cui abitava lo stesso Borghese. Un piano più sotto, del resto, abitava quel capitano Gennaro Riccio che aveva avuto l’incarico dei primi contatti esplorativi. Ma le persone adibite a questa «missione speciale» erano parecchie, con un unico segno di riconoscimento: un biglietto da una lira tagliato in due. Sandro Paini o il tenente Nino Pulejo ne avevano una metà, l’altra era in mano al capitano Riccio o al suo collega, capitano Guido Del Giudice. Condotti con discrezione e senza dar nell’occhio, approvati sia da Borghese sia dal Partito Socialista, i contatti dettero ben presto qualche risultato. Una compagnia della X, di cento uomini, avrebbe abbandonato la sua caserma al momento opportuno, per mettersi a disposizione del Comando Piazza. Un distaccamento avrebbe occupato la Radio, cedendola poi ai reparti della Resistenza: in generale, si previde che vi sarebbe stato un accordo diretto tra X e C.L.N., naturalmente in cambio del suo atteggiamento passivo al momento tragico del trapasso. Ancora una volta Borghese mirava ad un accordo personale, poco fidandosi delle «superiori gerarchie».
Accettando questi incontri, il C.L.N. non fece affatto un cattivo affare, anche se poi i contatti stessi vennero negati, o messi in una luce puramente episodica. In effetti la X sarebbe stata un osso duro da rodere, come dimostrò palesemente il fatto che alle 17 del giorno 26 aprile essa era ancora al gran completo, perfettamente alla mano e potentemente armata.
Le prime consistenti forze partigiane non arrivarono a Milano che il 27 aprile, provenendo dall’Oltrepò, e quelle di Moscatelli vi giunsero addirittura il 28. La resa della X significò probabilmente molto sangue in meno per Milano e per la Resistenza. Ed in un certo qual modo servì egregiamente a confermare che realmente tutto era finito il 25 aprile.
Così, nei vasti cortili dei caseggiati di sinistra di quella che oggi è Piazza della Repubblica a Milano, la X conobbe la sua ultima giornata. In mattinata erano state perfezionate nei locali del Credito Lombardo, a via Manzoni, le trattative finali di resa, tra il capitano Riccio ed il capitano De Martino da una parte, ed il maggiore Argenton, assistito dal capitano Federico Serego degli Alighieri dall’altra, per il C.V.L. I due ultimi ufficiali si ripresentarono alle 14,45 al Comando della X accompagnati dal maggiore Bocchia, del Comando Piazza, per le consegne amministrative. Dieci minuti dopo Borghese tenne in cortile l’assemblea generale, attorniato dal sottosegretario alla Marina Repubblicana, da Gelormini, che sarebbe poi finito a piazzale Loreto, da Carlo Borsani, da quella Maria Pasquinelli che il 10 febbraio 1947 avrebbe steso con tre rivoltellate, a Trieste, l’inglese De Winton. Fece un pacato discorso, comunicando che il Comando Piazza garantiva per la vita di ciascuno e poi, alle 17, ordinò l’ammainabandiera. Quindi si congedò da tutti, rientrando con Luigia Bardelli in Piazza Clotilde 6. A Milano non fu più rivisto, se non dalle tre o quattro persone che lo ebbero in custodia. Poiché, in effetti, Borghese si consegnò proprio a Sandro Paini e Nino Pulejo, con perfetta fiducia. Ce n’era motivo. Qualche mese prima, l’aristocrazia romana, che aveva trovato piuttosto coriacei i britannici del Governo Militare Alleato, aveva avuto dalla sorte un insperato dono, nei panni bonari e vecchiotti dell’ammiraglio Ellery Wheeler Stone, nuovo Governatore Militare Alleato in sostituzione di Mason McFarlane. Con Stone, le cose erano andate subito straordinariamente bene, innanzi tutto perché era un militare per modo di dire, provenendo dalla Direzione generale delle Poste e Telegrafi statunitense, e poi perché l’aria di Roma aveva operato una sorprendente doppia svolta nella sua vita.
Franco Bandini, Perché Borghese fu consegnato agli alleati in Misteri d’Italia

Nei suoi romanzi autobiografici, Carlo Mazzantini <81 concentra la narrazione sulla propria volontà attivistica da porre al servizio della patria, nei momenti immediatamente successivi all’armistizio; la propensione del diciottenne Mazzantini si concretizzerà nell’arruolamento volontario nella GNR e in particolare nella tristemente nota Legione “Tagliamento” <82. Tuttavia, per l’autore i richiami patriottici fanno riferimento ad un’altra sua certezza, ovvero che La RSI non (fosse) la continuazione del fascismo <83; tale atteggiamento è naturalmente finalizzato a rifiutare i difetti insiti nel regime, e a dare un significato originale all’esperienza della RSI nella storia d’Italia <84. In una visione scientifica, l’unicità della RSI fa al contrario riferimento ad una reticenza particolare in relazione al biennio: la narrazione o, meglio, la mancanza di descrizioni storiche della politica antisemita portata avanti dal l’ultimo governo fascista. Nella memorialistica dei protagonisti della Repubblica sociale sono molto rari gli accenni alla politica di persecuzione della componente ebraica dello Stato italiano.
[…] Tra il 1981 e il 1983, Ricciotti Lazzero che aveva vissuto l’epopea partigiana in prima persona <122, unendo documentazione d’archivio ad opere edite, completò la descrizione di tre tra le più famigerate formazioni militari e paramilitari del biennio: la Legione Italiana delle SS <123, le già citate Brigate Nere <124 e la “Decima Flottiglia Mas” del principe Valerio Junio Borghese <125.
[…] Gagliani intende in tal senso approfondire la natura interna del fascismo repubblicano, definendone alcune categorie generali di componenti: ad un’anima “squadrista e totalitaria”, comunque influente nei 600 giorni, si affiancarono una visione “nazionalista” e “combattentistica”, propria ad esempio del principe Borghese, ma anche di ampie parti dei funzionari ministeriali ed amministrativi della penisola, un’interpretazione del fascismo condivisa dai cosiddetti “riformisti-innovatori”, in forte contrasto con lo “staracismo” e lo stesso squadrismo, e, infine, una tendenza che connotò l’anima “sindacalista e socializzatrice” dell’ultimo fascismo.
[…] Ad un’attenzione scientifica accresciuta nei riguardi delle violenze commesse dai reparti germanici in Italia, nel corso del primo decennio degli anni 2000, si sono affiancati alcuni studi inerenti formazioni italiane, preposte alla repressione dell’antifascismo.
Per quanto riguarda le opere relative a tale materia, dobbiamo far riferimento ad alcune impostazioni generali: da una parte possiamo porre monografie che si concentrano sulla formazione e la condotta di reparti armati particolari, come gli studi di Primo de Lazzari sulla Legione di SS italiane <267, e quelli di Jack Greene e Alessandro Massignani sulla X Mas ed il suo leader, Junio Valerio Borghese <268; dall’altra, possiamo aggiungere a queste, alcune monografie che, pur partendo dalla descrizione di bande e formazioni repubblicane aventi compiti di polizia, vadano a identificare alcuni caratteri peculiari della struttura statale e dell’equilibrio politico della RSI.
[…] Informative come quella già accennata su Farinacci andavano a colpire differenti ministri e comandanti repubblicani, come Pavolini e Junio Valerio Borghese, sospettato di voler avviare un di colpo di stato contro il governo di Gargnano <374.
[…] I contrasti derivanti da differenti condotte e prospettive di lotta per il fascismo, oltre che dai “soliti” passaggi sregolati tra reparti sono palesi anche nelle telefonate che trattano dell’esercito di Graziani e della X Mas; il comandante di quest’ultima, Borghese, viene definito dai comandi della LAM un “disfattista”, come disfattisti sono considerati i suoi uomini.
[…] Una fiducia nelle sorti belliche che, per quanto probabilmente falsa ed affatto esteriore, veniva usata come strumento politico per delegittimare autorità differenti, preposte agli stessi servizi di controllo e repressione della LAM, come il comandante della X Mas, Borghese, investito dagli insulti di Colombo perché non credeva nella riconquista di Roma, nel gennaio del ’45 <467.
[NOTE]
81 C. Mazzantini, A cercar la bella morte, Mondadori, Milano, 1986 e I Balilla andarono a Salò, Marsilio, Padova 1995.
82 C. Mazzantini, A cercar, op cit. pg. 14 e seg.
83 Id. I Balilla, op. cit. pg. 77.
84 Ibidem. Sullo stesso piano possiamo inserire la testimonianza di Junio Valerio Borghese, comandante della formazione di fanteria di marina “X Mas”, e tra i primi a richiamarsi alla apoliticità della propria esperienza saloina. Cfr. G. Pansa Borghese mi ha detto, Palazzi, Milano, 1971, pg. 54, 55.
123 R. Lazzero, Le SS italiane. Storia dei 20.000 che giurarono fedeltà a Hitler, Milano, Rizzoli, 1982.
124 Id. Le brigate nere. Il partito armato della Repubblica di Mussolini, Milano, Rizzoli, 1983.
125 Id. La decima MAS. La compagnia di ventura del “principe nero” Milano, Rizzoli, 1984.
267 P. De Lazzari, Le SS italiane, Teti, Milano, 2002.
268 J. Greene, A. Massignani, The Black Prince and the sea devils, the story of Prince Valerio Borghese and the elite commandos of the Decima MAS, Da Capo Press, Cambridge, 2004. (poi tradotto in italiano con il titolo Il principe nero: Junio Valerio Borghese e la X mas, Mondadori, Milano, 2007).
374 Informativa di Koch su Borghese, sd. sa. In NARA, Rg. 226, e. 174, f. 152/1.
467 Intercettazioni-CVL, n° 782 del 21 gennaio 1945, cit. in NARA…
Jacopo Calussi, Fascismo Repubblicano e Violenza. Le federazioni provinciali del PFR e la strategia di repressione dell’antifascismo (1943-1945), Tesi di dottorato, Università degli Studi Roma Tre, 2018

Tra le forze armate della R.S.I., la Decima Mas risulta particolarmente attiva in una serie di operazioni volte ad assicurare la presenza di truppe italiane in Venezia Giulia ed in Istria al momento della fuga dei tedeschi: avrebbe tale significato la visita compiuta in queste terre dal comandante della Decima, Junio Valerio Borghese, nel dicembre del 1944, visita tra l’altro ostacolata dal Supremo Commissario, così come la presenza della Divisione Decima, impegnata a combattere in Carnia e nel Goriziano. Nel capoluogo giuliano si trova il Comando dei Mezzi d’Assalto dell’Alto Adriatico, agli ordini del triestino Aldo Lenzi, che, secondo le direttive di Borghese, è impegnato nel raccogliere informazioni riguardanti la Zona di operazioni Litorale Adriatico e la possibilità di organizzare un intervento italiano.
Questo servizio segreto della Decima Mas, che si occupa di stilare documenti sull’attività nella Venezia Giulia di tedeschi, austriaci, sloveni, croati, serbi e russi <42, si serve della collaborazione di un’organizzazione chiamata “Movimento Giuliano”, diretta, secondo una fonte, da Italo Sauro <43, secondo altre invece da Nino Sauro <44. Il “Movimento Giuliano” si occupa della diffusione nella Venezia Giulia di giornali clandestini aventi carattere nazionale e fonda a Venezia un Istituto per gli Studi sulla Venezia Giulia, che ha il compito di tener sveglio l’interesse dell’opinione pubblica italiana sulla situazione della Venezia Giulia, pubblicando articoli informativi e di propaganda su questo tema sui giornali della R.S.I. <45.
Il comandante Lenzi è in contatto anche con il prefetto Coceani ed il federale Sambo, ma niente di concreto potrà essere realizzato, a causa dell’intransigente opposizione da parte dell’autorità tedesca alla presenza di reparti militari italiani nel Litorale Adriatico, opposizione che verrà mitigata quando ormai sarà troppo tardi. L’illusione di far rimanere la Divisione Decima sul territorio della Venezia Giulia è destinata ad infrangersi presto: alla fine della battaglia di Selva di Tarnova, nel gennaio 1945, il Supremo Commissario Rainer chiede ed ottiene dal generale Wolff, comandante delle forze armate tedesche in Italia, l’allontanamento della Divisione dal confine orientale. In Istria
rimangono alcuni presidii della Decima Mas, che difenderanno le loro postazioni fino alla fine della guerra, mentre la Divisione Decima si attesta in Veneto, fra Thiene e Bassano, da dove Borghese spera di farla arrivare nella Venezia Giulia non appena se ne presenti l’occasione. Verso la fine del marzo del 1945 avvengono gli ultimi due, inconcludenti, incontri tra Borghese e gli emissari del ministro della Marina del governo italiano del Sud, l’ammiraglio de Courten; il capitano Marceglia si reca anche a Trieste e viene messo in contatto con Itala Sauro, solo per venire a sapere che non esiste nulla di organizzato.
[NOTE]
42 G. BONVICINI, Decima marinai! Decima comandante!, p. 227. S. NESI, Decima Flottiglia nostra, p. 133. M. BORDOGNA, Junio Valerio Borghese, cit., p. 189.
43 R. LAZZERO, La Decima Mas. La compagnia di ventura del “principe nero”, Rizzoli, Milano 1984, p. 147, riporta il fatto che Italo Sauro collabora, assieme a Maria Pasquinelli, con il servizio informazioni della Decima, ma l’organizzazione “Movimento giuliano” non viene però nominata. G. BONVICINI, Decima marinai! cit., p. 227, parla invece esplicitamente di Italo Sauro quale promotore e direttore del “Movimento giuliano”.
44 S. NESI, Decima Flottiglia nostra cit., p. 133. L. GRASSI, Trieste cit., p. 127, dove si parla però di un “Movimento Istriano Clandestino”. M. BORDOGNA, Junio Valerio Borghese, cit., p. 143 e p. 189.
45 G. BONVICINI, Decima marinai! cit., p. 227. M. BORDOGNA, Junio Valerio Borghese, cit., p. 189. E’ possibile che di iniziative del “Movimento Giuliano” parli l’organo del P.F.R. di Trieste, l'”Italia Repubblicana”, nel suo ultimo numero, che porta la data del 25 aprile 1945, riferendosi all’indirizzo di cittadini della Venezia Giulia e della Dalmazia residenti a Venezia e Milano e riguardante l’inviolabilità dei confini della regione. I due testi citati riferiscono anche che una parte del materiale raccolto dal “Movimento Giuliano”, in particolare sul massacro degli italiani avvenuto in Istria dopo l’ 8 settembre 1943, si trovava nell’Ufficio stampa del Comando della Decima, situato proprio a Milano.
Raffaella Scocchi, Il Partito Fascista Repubblicano a Trieste, Tesi di laurea, Università degli Studi di Trieste, Anno accademico 1995-1996

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Una risposta a Borghese non mentiva su nessuno dei tre punti

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