Al Congresso Mussolini diede il suo viatico, ma non la sua presenza

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La sera del 18 settembre, la radio di Monaco di Baviera trasmette un discorso del Duce: “Camicie nere! Italiani e italiane! Dopo un lungo silenzio, ecco che nuovamente vi giunge la mia voce e sono sicuro che voi la riconoscete; è la voce che vi ha chiamato a raccolta nei momenti difficili e ha celebrato con voi le giornate trionfali della Patria […]”. Il discorso prosegue con un elogio rivolto a Hitler (“La parola fedeltà ha un significato profondo, inconfondibile, vorrei dire eterno nell’anima tedesca. E’ la parola che nel collettivo e nell’individuale riassume il mondo spirituale germanico”) e un attacco al re per il colpo di Stato del 25 luglio e il tradimento compiuto (“Non è il regime che ha tradito la monarchia, ma è la monarchia che ha tradito il regime, anche se oggi è decaduta nella coscienza e nel cuore del popolo”). Alla fine, c’è un riferimento al programma politico da realizzare, all’insegna della rottura e della continuità: “Lo Stato che noi vogliamo instaurare sarà nazionale e sociale nel senso più alto della parola, sarà cioè fascista risalendo così alle nostre origini. Nell’attesa che il movimento si sviluppi sino a diventare irresistibile, i nostri postulati sono i seguenti: 1. – Riprendere le armi a fianco della Germania, del Giappone e degli altri alleati. Solo il sangue può cancellare una pagina così obbrobriosa nella storia della patria. 2. – Preparare senza indugio la riorganizzazione delle nostre Forze Armate attorno alle formazioni della Milizia. Solo chi è animato da una fede e combatte per un’idea non misura l’entità dei sacrifici. 3. – Eliminare i traditori; in particolar modo quelli che sino alle ore 21.30 del 25 luglio militavano, talora da parecchi anni, nel Partito e sono passati nelle file del nemico. 4 – Annientare le plutocrazie parassitarie e fare del lavoro finalmente il soggetto dell’economia e la base infrangibile dello Stato. Camicie nere fedeli di tutta Italia! Io vi chiamo nuovamente al lavoro e alle armi […] Contadini, operai e piccoli impiegati! Lo Stato che uscirà da questo immane travaglio sarà il vostro, e come tale lo difenderete contro chiunque sogni ritorni impossibili. La nostra volontà, il nostro coraggio, la nostra fede, ridaranno all’Italia il suo volto, il suo avvenire, la sua possibilità di vita e il suo posto nel mondo. Più che una speranza, questa deve essere per voi tutti una suprema certezza. Viva l’Italia! Viva il Partito Fascista Repubblicano!” <566.
Nel discorso pronunciato da Mussolini sono presenti tutti i temi del feroce risentimento del momento e della astiosa polemica degli anni a venire: onore e disonore; fedeltà e tradimento; valore e viltà – e ancora – fede, sangue, sacrifici, eternità, immortalità, supremo interesse e supreme certezze. Manca, invece, la consapevolezza della sconfitta politica e militare. La guerra, d’altra parte, prosegue con rinnovato impegno e con maggiore determinazione <567.
Il 28 settembre 1943 si riunisce alla Rocca delle Caminate, “sotto la presidenza del Duce dello Stato Nazionale Repubblicano d’Italia, Capo del Governo”, il primo consiglio dei ministri al quale partecipa Mussolini dopo il suo rientro in Italia <568.
Le direttive che devono guidare l’azione di governo vengono impartite dallo stesso Mussolini: “Tener fede all’alleanza con le Nazioni del Tripartito, e per questo riprendere il nostro posto di combattimento accanto alle unità tedesche attraverso la più sollecita riorganizzazione delle nostre forze militari, a cominciare da quella della difesa contraerea e costiera”; punire, con “severe sanzioni”, il tradimento del 25 luglio e in particolare gli iscritti al Partito che “nascosero sotto un’adesione formale la loro falsità, ricoprirono talora per anni e anni alte cariche, ricevettero onori e ricompense ed al momento della prova, nelle giornate del colpo di Stato, passarono al nemico. Essi sono corresponsabili dell’abisso nel quale la Patria è caduta. Tribunali straordinari provinciali giudicheranno questi casi di tradimento e di fellonia. Ciò servirà di monito per il presente e per il futuro” <569.
L’aria che si respira è quella della resa dei conti, non solo nei confronti dei traditori, ma anche di coloro che in qualche modo rappresentano – per mentalità, ruolo, gerarchia, posizione politica – quella continuità con il passato che, nel nuovo clima di intransigente modernizzazione, non ha più ragione d’esistere. Lo scontro diventa subito totale ed assume il carattere della rissa continua di tutti contro tutti. Se ne ha conferma in occasione del Congresso del Partito che si tiene a Verona il 14 novembre 1943. A Verona ci sono proprio tutti: “squadristi collocati a riposo durante il regime, avidi di tornare alla brutalità del ’21, giustificandola con la necessità di eliminare i traditori; compagni messi da parte da un Mussolini che abbordava di volta in volta i più disparati vascelli, da quello della grande industria a quello della conservazione monarchica; avventurieri dell’estremismo accorsi all’odore di polvere; ingenui delle ultime leve su cui hanno attecchito gli slogan dell’onore e della patria identificata nel fascismo; disperati finiti al di qua della linea del fronte, in cerca di una qualsiasi sistemazione; ufficiali improvvisamente smobilitati e senza un domani che si scoprono all’improvviso sdegnati contro i Savoia e disponibili a un nuovo stipendio; funzionari rimasti nell’ombra per anni, che scelgono oggi la carta d’una impensata carriera […]. Abbondano gli ex combattenti che si mostrano tali anche nell’aspetto e nel continuo invocare il ritorno al combattimento. Ci sono fascisti che hanno sempre mandato a combattere gli altri senza mai muoversi dagli uffici e tuttavia senza mai rinunciare all’aria marziale degli eroi. Passano noti imboscati, che sperano di rimboscarsi fruttuosamente. Sono tanti i ragazzi […]. Ognuno si finge duro, impegnato, sicuro della vittoria, persuaso della formula che consentirà ciò che si sbandiera come la magica ricetta generatrice, il ritorno alle origini […]. In sala parlano e gridano tutti insieme, fanno a chi si mostra più estremista” <570. Se ne accorge anche Mussolini: “E’ stata una bolgia vera e propria! Molte chiacchiere confuse, poche idee chiare e precise […] Da tutte queste manifestazioni verbose si può facilmente arguire quanto pochi siano i fascisti che abbiano idee chiare in materia di fascismo. Ditemi voi, se possiamo avere delle speranze di ricostruire il paese! E nessuno, dico nessuno, di questi che hanno un bagaglio di idee da agitare, viene da me per chiedermi di combattere. E’ al fronte che si difendono le sorti della Repubblica… e non certo nei congressi!” <571. In realtà, il congresso ha il compito di rifondare il partito e rinvigorire il fascismo.
Per questo, pur nella confusione generale <572, viene approvato il Manifesto di Verona che in 18 punti enuncia le Direttive programmatiche per l’azione del partito.
I primi sette punti riguardano la “materia costituzionale e interna”. Si fa riferimento alla convocazione di una Costituente “che dichiari la decadenza della monarchia, condanni solennemente l’ultimo re traditore e fuggiasco, proclami la repubblica sociale e ne nomini il Capo”; alla “piena indipendenza” della magistratura; al Partito, “organismo di assoluta purezza politica” (“la sua tessera non è richiesta per alcun impiego od incarico”); alla religione della Repubblica (“cattolica, apostolica, romana”, anche se “ogni altro culto che non contrasti alle leggi è rispettato”). E’ generico il richiamo al sistema di nomina e rappresentanza politica mentre, all’opposto, è precisa e ben definita la posizione nei confronti degli ebrei: “Gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri. Durante questa guerra appartengono a nazionalità nemica”. Il punto numero 8 definisce le linee di politica estera: unità, indipendenza, integrità territoriale della patria; necessità di spazi vitali; realizzazione di una comunità europea sulla base dell’accettazione, in termini di principi e di adesione, della “a) eliminazione dei secolari intrighi britannici dal nostro Continente; b) abolizione del sistema capitalistico interno e lotta contro le plutocrazie mondiali; c) valorizzazione, a beneficio dei popoli europei e di quelli autoctoni, delle risorse naturali dell’Africa, nel rispetto assoluto di quei popoli, in ispecie musulmani, che, come l’Egitto sono già civilmente e nazionalmente organizzati”. Gli ultimi punti si occupano della materia sociale: individuazione del lavoro come base della Repubblica Sociale; proprietà privata garantita dallo Stato; esproprio delle terre incolte e delle aziende mal gestite che può portare alla lottizzazione e alla costituzione di aziende cooperative; diritto alla casa; adeguamento salariale per i lavoratori. Il documento si conclude con un appello al popolo italiano per “difendere le sue conquiste di ieri, oggi, domani: ributtare l’invasore schiavista delle plutocrazie anglo-americane, il quale, per mille precisi segni, vuole rendere ancora più angusta e misera la vita degli Italiani. V’è un solo modo di raggiungere tutte le mete sociali: combattere, lavorare, vincere” <573.
Il documento approvato a Verona rappresenta, nelle intenzioni del fascismo di Salò, l’atto costitutivo di un soggetto politico (lo Stato Nazionale Repubblicano) che, attraverso il “ritorno alle origini”, vuole mantenere il legame con il passato e – nello stesso tempo – rifondare lo Stato su nuove basi e su una politica sociale che sia espressione di un genuino spirito rivoluzionario. Tutto questo, attraverso la rottura repubblicana e la continuità della Patria e della Nazione, da contrapporre sia alla frattura eversiva di Casa Savoia attuata con il colpo di Stato del 25 luglio sia alla limitazione di sovranità conseguente al disonorevole armistizio dell’8 settembre <574.
[NOTE]
566 Opera Omnia di Benito Mussolini, vol. XXXII, cit., pp. 1-5.
567 Così come Vittorio Emanuele III, anche Mussolini si appresta a governare su un territorio ridotto (senza le “province del re”; senza i territori dell’Italia meridionale controllati dagli anglo-americani; senza Alto Adige, Friuli, Venezia Giulia, Istria, Dalmazia, annessi al Reich) e posto sotto la tutela tedesca.
568 Costituito il 23 settembre, non senza problemi dovuti al rifiuto di alcune personalità designate, alla difficoltà nelle comunicazioni, al condizionamento tedesco (e in particolare al ruolo esercitato dall’ambasciatore e plenipotenziario del Reich in Italia, Rudolf Rahn), alle “interferenze” di Mussolini (così come le definisce De Felice), il governo è composto da: Guido Buffarini Guidi (Interni), Rodolfo Graziani (Difesa nazionale), Antonino Tringali Casanova (Giustizia. Sostituito dopo nemmeno un mese, a causa di un infarto, da Piero Pisenti), Domenico Pellegrini Giampietro (Finanze), Silvio Gaj (Economia corporativa), Edoardo Moroni (Agricoltura), Carlo Alberto Biggini (Educazione nazionale), Fernando Mezzasoma (Cultura popolare), Carlo Peverelli (Comunicazioni). Mussolini tiene per sé la Presidenza e gli Esteri. Una prima riunione, senza Mussolini, si era tenuta lo stesso 23 settembre a Roma, presso l’ambasciata tedesca.
569 Verbali del Consiglio dei ministri della Repubblica sociale italiana. Settembre 1943-aprile 1945. Edizione critica a cura di Francesca Romana Scardaccione, Ministero per i beni e le attività culturali, Direzione generale per gli archivi, Roma 2002.
570 Silvio Bertoldi, Salò. Vita e morte della Repubblica Sociale Italiana, Rizzoli, Milano 2005 [1ª ed. 1976], pp. 31-33. Luigi Bolla racconta: “L’assemblea repubblicana di Verona, che doveva stabilire le basi o per lo meno i principi ispiratori del nuovo stato, si è svolta in modo turbolento come certe sedute del vecchio parlamento. E’ stata a più riprese reclamata la consegna e l’esecuzione di Ciano, la cacciata delle vecchie personalità fasciste, specie di Buffarini Guidi, anche di Pavolini e persino del Duce. E’ stata richiesta l’abolizione dell’etichetta “fascista” da ogni organizzazione. L’orientamento, se di orientamento può parlarsi per tale riunione, è stato nettamente di sinistra; ma conclusioni non ve ne sono state: c’è da stupirsi che se ne attendessero, date le circostanze”, Luigi Bolla, Perché a Salò. Diario della Repubblica Sociale Italiana, a cura di Giordano Bruno Guerri, Bompiani, Milano 1982, p. 118, citato da Renzo De Felice, Mussolini l’alleato II. La guerra civile (1943-1945), cit., p. 402. Sul Congresso, vedi: Marino Viganò, Il Congresso di Verona (14 novembre 1943). Documenti e testimonianze, Edizioni Settimo Sigillo, Roma 1994.
571 Giovanni Dolfin, Con Mussolini nella tragedia, cit., p. 97. Il 10 novembre 1943, Tempo presente, il giornale degli universitari fascisti di Pistoia, pubblica un articolo di Mafilas Manini dal titolo Rinascita: “[…] Ed una domanda ci viene subito spontanea: perché il Partito Fascista Repubblicano che è un Partito nuovo che niente ha a che vedere col defunto P.N.F., sorto con nuove idee e con uomini nuovi, suscita tanta diffidenza? Perché il popolo se ne tiene lontano e non crede a questo rinnovamento? Riconosciamolo francamente, perché tutto il rinnovo annunziato ancora non c’è, perché il clima puzza ancora di vecchio, perché gli uomini nuovi sono sempre, per dirla col popolo, le “solite facce” […] Ed il popolo ha ragione di diffidare, via i vigliacchi, via gli arrivisti, via i padreterni. Pulizia vogliamo, pulizia. Vogliamo uomini nuovi, ma nuovi sul serio, uomini dalla coscienza cristallina, senza ambizioni personali e senza esibizionismi che siano pronti a fare il loro dovere con devozione ed umiltà”, in Renzo De Felice, Mussolini l’alleato II. La guerra civile (1943-1945), cit., pp. 475-476.
572 “Chiude Pavolini dicendo che ha preso nota di tutto e riferirà al Duce, quindi fa approvare l’istituzione del tribunale straordinario speciale per condannare a morte i traditori del 25 luglio. Come all’improvviso, si ricorda del manifesto dei famosi 18 punti. Lo legge tutto d’un fiato, i diciotto punti vengono approvati per acclamazione”, Silvio Bertoldi, Salò, cit., p. 38.
573 Renzo De Felice, Mussolini l’alleato II. La guerra civile (1943-1945), cit., Documento n. 8, Il “Manifesto di Verona” (14 novembre 1943), pp. 610-613.
574 Il Manifesto di Verona è un documento scritto a più mani in cui la sintesi non sembra rispondere alle intenzioni originarie dei vari estensori, anche a causa del condizionamento tedesco. Il 16 dicembre, l’ambasciatore Rahn invia a Berlino il seguente telegramma: “Il manifesto del partito è stato steso con la mia collaborazione, e sono stato costretto ad attenuare le originarie tendenze molto accentuatamente socialiste nell’interesse del mantenimento dell’impresa privata nella produzione bellica, e inoltre a cancellare un pezzo inserito dal Duce sulla preservazione della integrità territoriale”, in: Silvio Bertoldi, Salò, cit., p. 32.
Antonio Gioia, Guerra, Fascismo, Resistenza. Avvenimenti e dibattito storiografico nei manuali di storia, Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Salerno, Anno Accademico 2010-2011

Alla caduta del regime fascista, nell’incapacità di organizzare una resistenza al colpo di stato monarchico, seguita dal rifugiarsi sotto l’ala dell’ambasciata tedesca di molti gerarchi fascisti, e la successiva fuga in Germania di molti di loro, si comprese chiaramente che il fascismo sarebbe rinato solo all’ombra della Germania nazista e solo se funzionale ai suoi obiettivi strategici. Infatti Hitler, insediatosi nel territorio italiano e consolidato il fronte, decise di ricostruire uno stato fascista, il quale non avrebbe potuto rinascere senza che a guidarlo fosse il suo capo‐fondatore: Mussolini.
Al Führer serviva un governo collaborazionista, in grado di pagare le spese belliche alla Germania e che contribuisse anche con disponibilità industriali, umane e desse un suo apporto al mantenimento dell’ordine in tutto il territorio occupato.
Seguendo questa strategia Hitler fece liberare Mussolini dalla sua prigione del Gran Sasso, quattro giorni dopo l’armistizio, il 12 settembre 1943 con un’operazione lampo di paracadutisti tedeschi, lo portò in Germania. Il 25 settembre lo fece rientrare in Italia con i suoi più stretti collaboratori: Pavolini, Farinacci, Buffarini Guidi, Preziosi.
La nuova Repubblica si ricreò in modo rapido e tempestivo, ma la nuova denominazione fu stabilita in forma ufficiale solo il 25 novembre 1943 dal Consiglio dei Ministri: Repubblica Sociale Italiana (R.S.I.). Il governo satellite dei tedeschi era nato e si impiantò saldamente nel territorio.
Laura Bosisio, Guerra e Resistenza in Alta Brianza e Vallassina, Tesi di Laurea, Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, Anno Accademico 2008-2009

La Repubblica di Salò volle darsi anche istituzionalmente un volto socialista. Era questa l’ultima disperata carta dell’ultimo disperato Mussolini, che ne affidò la realizzazione a un Congresso del Partito, convocato per il 14 novembre in un salone di Castelvecchio, a Verona. L’assemblea voleva essere il prologo di una Costituente. Pavolini precisò infatti che essa avrebbe dovuto pronunciarsi «sui più importanti problemi statali e su quelle nuove realizzazioni da raggiungere nel campo del lavoro le quali, più propriamente che sociali, non abbiamo alcuna peritanza a definire socialiste». Il manifesto del nuovo fascismo comprendeva 18 punti, frutto di una puntigliosa elaborazione. Sembra certo che alla prima stesura avesse posto mano Mussolini basandosi su un canovaccio di Nicola Bombacci.
Era costui un romagnolo, maestro come Mussolini, e come lui in gioventù socialista massimalista. Poi, mentre Mussolini veleggiava verso l’interventismo e fondava il fascismo, Bombacci aderì al neonato Partito comunista, nelle cui file fu eletto deputato. Dal Pci fu espulso nel 1927, e vivacchiò successivamente in posizione equivoca: un rivoluzionario di sinistra fiancheggiatore del regime. Ora riappariva in piena luce, come consigliere del Duce. La sua figura profetica -capelli bianchi e folti un po’ disordinati, barba imponente -acquistò rilievo nella Repubblica di Salò. Bombacci continuava a professarsi difensore del proletariato, il che lo metteva in sintonia con gli aneliti populisti del fascismo risorto e a questa impostazione aderiva il documento che aveva preparato. Il testo subì cammin facendo varie modifiche, anche per intervento diretto del proconsole tedesco Rahn che attenuò «le originarie tendenze molto accentuatamente socialiste nell’interesse del mantenimento della impresa privata nella produzione bellica» e cancellò «un punto inserito dal Duce sulla preservazione della integrità territoriale». Di questo i tedeschi non volevano sentir parlare; avevano già sostanzialmente annesso la Venezia Giulia, l’Alto Adige, e inoltre Zara, Fiume, Spalato, Cattaro, e spingevano le loro superstiti ambizioni ben oltre. Basterà citare un appunto di Gòbbels: «Col Fùhrer ho affrontato una questione seria e importante, domandandogli fin dove intenda espandere il territorio del Reich. Secondo la sua idea, noi dovremmo avanzare fino ai confini del Veneto, e il Veneto stesso dovrebbe essere incluso nel Reich in forma autonoma».
Subite queste limature e censure, i 18 punti ebbero il sì definitivo di Mussolini, cui erano stati sottoposti dopo un suo breve soggiorno alla Rocca delle Caminate. Il documento mescolava curiosamente fascismo e socialismo, garantismo e autoritarismo. Esso prometteva, anzitutto, che una futura vera Assemblea costituente avrebbe dovuto dichiarare la decadenza della Monarchia e proclamare la Repubblica sociale, il cui capo sarebbe stato eletto «dai cittadini» ogni cinque anni. Venivano quindi sanciti il diritto del cittadino a riottenere la libertà dopo sette giorni di arresto senza incriminazione, e l’indipendenza della magistratura. Nella Repubblica sociale si sarebbero svolte regolari elezioni ma il Partito sarebbe rimasto unico: l’appartenenza ad esso non sarebbe stata tuttavia richiesta per nessun ufficio o impiego. Religione di Stato la cattolica, rispetto per gli altri culti. Agli ebrei sarebbe spettato lo «status» di stranieri, e per la durata della guerra sarebbero stati considerati di nazionalità nemica. In politica estera la Repubblica sociale avrebbe perseguito l’ideale di una comunità europea risoluta a respingere gli intrighi britannici. Sarebbero stati anche realizzati «l’abolizione del sistema capitalistico interno e la lotta contro le plutocrazie mondiali». La Repubblica sociale si sarebbe «fondata innanzitutto sul lavoro manuale tecnico e intellettuale» ma «la proprietà privata sarebbe stata garantita dallo Stato». Il giorno prima che il Congresso si aprisse Mussolini scrisse che con la nuova Carta «il fascismo, liberato da tutto quell’orpello che ha rallentato la sua marcia e dai troppi compromessi che le circostanze lo hanno obbligato ad accettare, è ritornato alle sue origini rivoluzionarie in tutti i settori, e particolarmente in quello sociale».
Al Congresso Mussolini diede il suo viatico, ma non la sua presenza. Sentiva che quell’assemblea di desesperados sarebbe stata tumultuosa e critica, e che neppure il suo personale prestigio avrebbe potuto risparmiargli frecciate. Agli intervenuti indirizzò un proclama che amaramente riconosceva: «Non abbiamo più nulla, tutto è da ricominciare. Ci rimane soltanto la volontà accompagnata da una dogmatica fede. Bisogna passare il più rapidamente possibile da paese inerme a paese combattente». Assente il Duce, Pavolini presiedette la discussione, spalleggiato da Renato Ricci. Il truce Cosmin aveva predisposto il servizio d’ordine, assicurato con rozzezza da militi in maglione nero. In quell’atmosfera eccitata – di una Convenzione suicida – era assai scarso il rispetto per le gerarchie, e qualche notabile del vecchio fascismo lo sperimentò a sue spese (ha ricordato Bocca nel suo La repubblica di Mussolini che un generale della Milizia cercò di sedersi nelle prime file, ma fu affrontanto da Cosmin che gridò: «O torni indietro o ti faccio buttare fuori»). Non uno degli oratori, neppure Pavolini, riuscì a parlare senza essere continuamente interrotto dai delegati delle varie federazioni, tra i quali gli squadristi antemarcia erano mescolati a giovani fanatici acquisiti di recente al fascismo.
In quel torbido dibattito le invocazioni alla vendetta contro i traditori del Gran Consiglio, e soprattutto contro Ciano, fecero da contrappunto ai propositi di rifondazione del Partito. Fu invocata la costituzione di un Tribunale speciale che giudicasse i «rinnegati» del 25 luglio, e Pavolini promise di «portare questo voto al Duce, unico competente a decidere». I congressisti volevano il partito unico, e l’esercito politico, non di mestiere. Il segretario del Partito di Como chiese maggiori poteri per la Milizia («non vogliamo più essere fregati») e l’esteta Pavolini s’indispettì. «Queste sono espressioni da caserma», disse. «Questa è una caserma» fu l’aspra replica. L’approvazione dei 18 punti ottenne una sbrigativa unanimità, ma per il resto il Congresso si perse in battibecchi, e non risolse nessuno dei veri nodi del momento, a cominciare dalla funzione del Partito e da quella dell’Esercito.
Commentando, con il segretario Dolfin, la conclusione dei lavori, Mussolini disse: «E stata una bolgia vera e propria. Molte chiacchiere confuse, poche idee chiare e precise. Si sono manifestate le tendenze più strane, comprese quelle comunistoidi… E nessuno, dico nessuno di questi che hanno un bagaglio di idee da agitare, viene da me per chiedermi di combattere. E al fronte che si decidono le sorti della repubblica, e non certo nei congressi». Il Partito, con i suoi 250 mila iscritti («sono quantità e non qualità» aveva rilevato Buffarini Guidi) rimaneva un’accozzaglia di correnti e componenti eterogenee. Ancora Buffarini Guidi notava che «moltissimi iscritti, soprattutto i più in vista, rappresentano lo scarto di quello che fu il Partito fascista nel passato, e sono riguardati dalle popolazioni con disgusto, con disprezzo, e qualche volta con vero e proprio terrore».
V’era stato, durante il Congresso, un intermezzo drammatico. Pavolini si alzò, chiese silenzio, e annunciò che «il commissario federale di Ferrara, che avrebbe dovuto essere qui con noi, il camerata Ghisellini, tre volte medaglia d’argento, tre volte medaglia di bronzo, è stato assassinato con sei colpi di rivoltella». Dalla sala infiammata si alzarono grida di «tutti a Ferrara, vendichiamolo con il sangue». A stento Pavolini indusse l’assemblea a proseguire i lavori, promettendo che «quello che bisognerà fare sarà fatto, sarà ordinato, e lo faremo con il nostro stile spietato e inesorabile».
Ghisellini era stato trovato, la testa trapassata da sei proiettili, nella sua Fiat 1100, sulla strada di Castel d’Argile di Cento. Il prefetto Marola, il vicequestore Poli, il tenente dei carabinieri ebbero qualche perplessità sulla matrice partigiana dell’attentato perché i cristalli dell’auto risultavano frantumati dall’interno, e questo lasciava sospettare che lo sparatore fosse a fianco della vittima. Ghisellini non andava a genio anche ad alcuni ultra del fascismo, che gli rimproveravano d’essere moderato. Quando i tre espressero i loro dubbi ai fascisti che sopraggiungevano, pronti alla rappresaglia, furono investiti da insulti, e trascinati nelle carceri di Ferrara. In poche ore ottantaquattro persone cui erano rivolte generiche accuse di antifascismo vennero rastrellate e ammassate in uno stanzone della caserma Littorio. Altri ostaggi furono prelevati dalla prigione. Undici sventurati vennero messi a morte, parte in gruppo parte alla spicciolata.
Finirono presto, con questa strage, gli appelli alla concordia e l’illusione di alcuni fascisti che con la Repubblica se non socialista almeno sociale, si potesse arrivare a una riconciliazione degli italiani. La guerra civile dettò la sua legge sanguinaria, i GAP colpirono sempre più audacemente nelle città, tedeschi e fascisti risposero sempre più crudelmente.
Indro MontanelliMario Cervi, Storia d’Italia. L’Italia della guerra civile. Dall’8 settembre 1943 al 9 maggio 1946, Rizzoli, 1983

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