La lotta partigiana trova nelle Langhe le condizioni necessarie e sufficienti per la sua mobilità

Il primo ciclo di rastrellamenti (dicembre ’43-gennaio ’44) ed il secondo (marzo-aprile ’44) avevano ampiamente dimostrato che il valore difensivo per la guerriglia del terreno montano era puramente illusorio, anzi aveva indotto spesso a difese statiche, il cui risultato era stata la distruzione delle formazioni partigiane (Boves, Val Casotto, Val Varaita) <3. Inoltre in montagna il problema logistico, in particolare per quanto concerneva il rifornimento di viveri e di indumenti (scarpe soprattutto) si era posto in termini tanto acuti da assorbire per lunghi periodi tutta quanta l’attività delle formazioni. Problema spesso complicato dalle necessità di rifornimento della popolazioni locali naturalmente anemizzate se non impedite dal nemico.
Radicalmente diverse erano invece le condizioni offerte dalle Langhe, cosiddette per la particolare disposizione delle colline che si allungano come «lingue».
Il valore difensivo di ogni costone era pari a quello del successivo, mentre i valloni offrivano larghe possibilità di scampo, essendo pochissimo esposti all’osservazione nemica [4.
L’assunto è ampiamente dimostrato quando a giugno del ’44 e dal 12 novembre al 20 dicembre dello stesso anno, il nemico investì le Langhe con un attacco concentrico sulla scala più ampia, e le formazioni estremamente numerose (ad esempio quelle di Mauri) riuscirono a sfuggire con poche perdite ai nazi-fascisti contrastando efficacemente ogni progresso nemico <5.
Soprattutto il problema logistico e di alloggiamento poteva essere risolto nelle Langhe con una facilità estrema.
Gli stessi indumenti ed in particolare le scarpe, potevano essere molto più leggeri. La lotta partigiana trova cioè, nelle Langhe, le condizioni necessarie e sufficienti per quella sua mobilità che è per la lotta stessa questione di sopravvivenza.
Motivava inoltre il trasferimento nelle Langhe, sempre sul piano militare, l’impossibilità di mantenere formazioni ad effetti molto consistenti nelle vallate alpine <6.
Infatti tutte le valli terminanti con valico rotabile erano state validamente occupate da forze nazi-fasciste che fronteggiavano quelle alleate appunto lungo la frontiera italo-francese. Restavano relativamente libere dal nemico le valli minori quali la Val Colla e la Val Grana ma la ristrettezza dell’area disponibile per i partigiani limitava di parecchio la consistenza degli effettivi stanziali.
Si rendeva pertanto necessario sgombrare altrove una parte del materiale e degli effettivi presenti in montagna all’inizio dell’anno 1944-’45. La medaglia aveva beninteso il suo rovescio, in quanto nelle langhe i rastrellamenti nemici potevano essere condotti in qualsiasi momento e senza adeguato preavviso, da truppe motorizzate e meccanizzate (il cui movimento era peraltro limitato dalla compartimentazione molto netta del terreno tipica della Langhe, con strade in cresta <7 e fondi valle impercorribili da mezzi meccanici.
Ciò imponeva ai partigiani un adeguato armamento specialmente consistente in mitra, fucili mitragliatori e mezzi contro-carro ma soprattutto richiedeva dalle formazioni una elevata omogeneità disciplinare e un solido inquadramento unito ad un minimo di addestramento preliminare. Tutte le qualità che le formazioni di montagna si trovavano a possedere, sia pure in misura diversa e che difficilmente potevano essere sviluppate sul posto ed improvvisate: le sole formazioni locali che diedero prova di una adeguata aggressività furono quelle che, per una ragione o per l’altra, potevano contare su un nucleo originale di partigiani di montagna (esempio tipico la formazione del Col. Toselli, poi VI Autonomi del gruppo «Mauri») <8.
In particolare il ricorso sistematico e obbligato alla guerriglia mobile comportava una tensione e pertanto una usura psicologica nei quadri molto superiore a quella della montagna, dove la sorpresa da parte del nemico era possibile per gravi ed eventuali deficienze organizzative di esecuzione da parte partigiana. Le ragioni politiche vennero ad innestarsi fino a prevalere su quelle militari, con l’avvicinarsi del momento insurrezionale, in vista del quale ogni formazione mirava oltre che alla massima espansione di territorio e di effettivi, alla rapida traduzione successiva del peso militare in peso politico. Tali ragioni influiscono spesso non solo sulla dilatazione delle forze senza più alcun riguardo alla qualità del reclutamento, ma anche nell’adozione di dispositivi ben poco organici, con distaccamenti molto distanziati ed enucleati semplicemente per prevenire le altre formazioni, divenute ormai più o meno apertamente vere e proprie concorrenti, nel controllo di determinati abitati e località <9. Il contraccolpo di tali criteri sul piano dell’efficienza militare fu sensibile anche se non del tutto negativo. Infatti da un lato diminuì molto l’offensività delle formazioni che ricorsero sempre più volentieri a una difensiva mobile limitata al puro e semplice sottrarsi all’attacco e si esposero persino, in alcuni casi, ad efficaci azioni di controguerriglia nemica condotta secondo modulo partigiano (pochi uomini – non in uniforme – di notte, condotti da indicatori locali).
Dall’altro canto però si realizzò quello che è uno dei fondamenti stessi di una guerriglia efficace per durata ed immobilizzo di forze nemiche: il controllo della maggiore area possibile mediante la diffusione capillare della presenza partigiana, ponendo il nemico nell’impossibilità pratica anche per la mancanza generica di forze disponibili, di condurre o soltanto di impostare una qualsiasi repressione di un certo peso ed entità.
I metodi di colonizzazione non differiscono tanto in se stessi, quanto per i tempi e le modalità di applicazione. Per tutte le formazioni essi consistevano principalmente nell’invio di una serie di gruppi di armati in località viciniori, dato che l’invio di un gruppo isolato presentava oltre che rischi molto maggiori, una scarsa capacità di irradiamento e di potenziamento. La attività di tali gruppi comprendeva principalmente due fasi: quella dell’insediamento e quella dell’irradiamento.
Della prima fase facevano parte:
1) La scelta di un accantonamento adatto, generalmente in margine all’abitato in località dove le comunicazioni anche minori fossero ridotte e minori pure fossero le possibilità di eventuali sorprese.
2) L’imbastitura di un sistema difensivo mediante la scelta delle postazioni per le vedette e per le armi maggiori, qualche volta la posa di un sistema di allarme passivo (trappole limitate al solo detonatore, fili con appese scatole metalliche vuote, quasi una posa di reticolati).
3) I primi contatti con la popolazione, generalmente tramite resistenti non partigiani, per il reperimento ed il prelevamento sia di viveri che di equipaggiamenti vari, ivi compreso il recupero di materiali militari che, ad un titolo o ad un altro fossero detenuti dagli abitanti.
4) L’attuazione di misure di polizia rivolte all’individuazione e conseguente eliminazione di spie locali, raramente condotte a fondo, con metodicità e conseguente acquisto di un buon grado di sicurezza <10.
Quanto a vere e proprie operazioni di repressione nei confronti dei fenomeni di banditismo che ivi si verificavano con una certa frequenza, giova ricordare come la pretesa fascista di assorbire i Carabinieri nella nuova Guardia Nazionale Repubblicana aveva provocato la soppressione materiale della maggior parte delle stazioni Carabinieri: i militi dell’Arma Benemerita avevano preferito la deportazione in massa nei «lager» nazisti, all’incorporazione nelle forze di polizia repubblichine.
L’attuazione della seconda fase (insediamento dipendeva in via assoluta dalla capacità di reclutamento di cui la «colonia» partigiana sapeva dar prova. Tale reclutamento concerneva in primo luogo l’assorbimento di elementi locali più o meno armati, limitatisi fino ad allora a tenere la macchia. Tale fonte dette un gettito estremamente variabile, più per il tipo di formazione, che per l’influenza delle particolari situazioni locali.
In genere, se gli elementi locali erano sufficientemente numerosi e armati rendevano ad una certa omogeneità e a conservare una certa autonomia, pur accusando un vero e proprio complesso d’inferiorità nei confronti dei «colonizzatori», molti dei quali erano in possesso di un passato partigiano notevole per durata ed importanza di azioni partecipate. È da rilevare inoltre che con tutte le debite e più rispettabili eccezioni, il reclutamento di elementi locali non si presentava mai qualitativamente molto solido, anche perché gli elementi migliori erano già partigiani.
La presenza in loco dei propri familiari, dei propri beni agiva da freno per una qualsiasi aggressività. Il tempo trascorso nella propria casa non favoriva certo la formazione di una coscienza e di una disciplina partigiana. Fra i «locali» però fu tratto in larga misura personale ausiliario (staffette, addetti ai rifornimenti, ecc.). La maggior fonte di reclutamento continuò ad essere rappresentata dai giovani in età militare della pianura o della città, là dove al nemico più agevole risultava la ricerca ed al giovane più difficile trovare un nascondiglio sicuro. La capacità d’insediamento era ovviamente strettamente collegata a quella di reclutamento. Nessuna formazione operò mai la concentrazione di una stessa località di effettivi, superiori ai 100 uomini, si tendeva piuttosto ad una forza locale massima fra i 30 ed i 70 uomini, per ragioni sia tattiche che logistiche. Dal punto di vista tattico, si trattava di non creare un ammassamento che attirasse di per sé, specie per la sua consistenza, la repressione nemica, da quello logistico di usufruire delle risorse locali. Sulle capacità di reclutamento e pertanto di irradiamento influì in modo determinante la disponibilità di aviolanci alleati, grazie ai quali era possibile equipaggiare e armare subito i nuovi arrivati, specie con armi automatiche leggere <11.
Naturalmente l’insediamento si traduceva nella creazione di altri distaccamenti più o meno tatticamente collegati a quello «madre» (o alla «madre patria»). Come già si è detto le Langhe offrirono spesso esempi di intersecazione dei tipi di formazione in quanto si andava là dove c’era posto: di ciò la III G.L.- «Langhe» fornì un tipico esempio.
Questo spiega come gli autonomi, giunti primi (fin dalla primavera del 1944) e largamente riforniti dagli inglesi raggiunsero la maggiore consistenza numerica che mantennero nelle Langhe fino all’insurrezione <12.
Quanto è stato detto sopra spiega la ragione per cui i G.L., che disposero quasi subito di aviolanci americani, pur essendo giunti nelle Langhe buoni ultimi, con un ritardo di mesi rispetto agli autonomi ed ai garibaldini, in una stagione di per sé sfavorevole, riuscirono ad affermarsi rapidamente, fino a conseguire una forza numerica di poco inferiore ai garibaldini, ai quali, per ovvi motivi di natura politica, gli aviolanci alleati mancarono quasi del tutto.
CHI ERANO I COLONIZZATORI
Occorre innanzitutto ribadire che la colonizzazione G.L. ebbe un carattere diverso sostanzialmente da quella dei garibaldini. Per gli «autonomi» non si può parlare di «colonizzazione» vera e propria, trattandosi più che altro dello sviluppo di formazione locali (es. II Div. Poli ecc.) o della creazione di una nuova formazione che dalla prima Val Casotto traeva soltanto una parte dei quadri e assai pochi uomini. I garibaldini infatti, non solo precedettero i G.L. sulle Langhe di diversi mesi ma il loro insediamento presentò, rispetto a quello dei G.L., una differenza notevole che può essere fatta risalire alla diversa consistenza delle strutture prettamente politiche che erano in buona parte preesistenti, la qual cosa dette luogo allo sviluppo di formazioni nelle quali le forze locali avevano un peso rilevante fino ad essere in alcuni casi preponderanti.
Mancavano invece tali strutture quasi completamente nel caso G.L., espressione armata del Partito d’Azione (partito nuovo, per quanto riguardava i quadri), che dovettero invece praticamente creare sul posto le strutture politiche d’appoggio sia, pure avvalendosi dell’opera di elementi locali che fino a quel momento peraltro, non avevano dato luogo ad una vera e propria strutturazione organizzativa paragonabile a quella del Partito Comunista Italiano. Per quanto concerne i garibaldini R. Battaglia <13 , riferisce esclusivamente circa l’invio in pianura di «squadre volanti» da parte della IV Brigata Garibaldi <14.
Si trattò cioè inizialmente di una esperienza concepita «in funzione della montagna», secondo le parole stesse dello storico, che peraltro assunse successivamente proprio ruolo e fisionomia ben distinti da quelli della montagna, secondo quanto è descritto da Maurizio Milan nel suo libro: «Fuoco in pianura».
Peraltro ci troviamo in presenza di operazione – e conseguente organizzazione delle formazioni – condotte nella pianura vera e propria secondo le modalità descritte in sede di premessa.
Erano dunque tutt’altro che facili e favorevoli le condizioni iniziali della colonizzazione G.L. anche per la presa limitata della linea d’azione politica su di una popolazione prevalentemente borghigiana, con uno sviluppo molto limitato e privo di una qualsiasi «intelligenthia» locale. Basta consultare le direttive di azione politica emanate all’epoca per rendersi conto di quanta difficoltà le parole d’ordine del P.d’A. incontrassero presso una popolazione che ad un analfabetismo politico locale univa spesso un notevole analfabetismo «tout-court».
Occorre tuttavia notare, secondo testimonianza unanime che i contadini della Langhe aiutarono in modo eccezionale tutti i partigiani ed in particolare i G.L. Le forze G.L. quindi, anche per gli appoggi locali, seppero affermarsi in modo cospicuo e raggiungere in breve tempo una posizione praticamente prioritaria rispetto alle altre formazioni esistenti nelle Langhe, grazie a due fattori fondamentali:
1) La disponibilità di quadri di elevato livello medio, specie nei quadri inferiori.
2) La disponibilità di aviolanci americani meno numerosi ma più ricchi specie in armi automatiche leggere e in armi portatili anticarro.
Le forze G.L. fornirono esempio più compiuto di colonizzazione vera e propria, dando cioè vita ai reparti attraverso un processo di enucleazione mediante il quale la struttura portante, fu costituita esclusivamente dai quadri colonizzatori. Caratteristica comune a tutti i colonizzatori era quella di una formazione partigiana «di montagna» con i suoi lati positivi e con quelli negativi.
Fra i lati positivi vanno sicuramente annoverati:
1) una notevole esperienza in combattimenti ripetuti e prolungati;
2) una gerarchia basata prevalentemente – non esclusivamente – per ovvie incidenze personalistiche e contingenti – su capacità organizzative o di comando già collaudate;
3) una disciplina relativamente dura, rispetto a quella in vigore presso le altre formazioni, un sicuro elemento di coesione dei reparti e di propaganda presso la popolazione che mal tollerava i casi d’indisciplina nei confronti della minore (o piccola) proprietà privata, abbastanza frequenti sia presso gli autonomi che presso i garibaldini;
4) una notevole coerenza e ponderatezza nello sviluppo organizzativo e nella tenuta morale dei reparti.
Fra i lati negativi, occorre invece annoverare:
1) una certa qual rigidità mentale che non consentì un adattamento rapido e subito molto efficiente verso le radicalmente mutate condizioni di lotta: ciò comportò una certa usura nei quadri così come è testimoniato nei frequenti avvicendamenti specie a livello di distaccamento ma anche di banda;
2) un certo complesso di superiorità che, subito avvertito dagli altri uomini, sensibilmente diminuì la forza di attrazione specie nei confronti di elementi locali di indubbio valore <15.
SITUAZIONE DEL BASSO PIEMONTE E DELLE LANGHE NELL’INVERNO ’44-’45
La situazione della Resistenza all’inizio dell’inverno ’44-’45 generale e riferita al basso Piemonte, è concordemente critica. Anche il primo inverno resistenziale aveva rappresentato un momento di crisi. Allora tuttavia era stata una crisi di crescenza, di presa di coscienza degli scopi e dei procedimenti della guerriglia che era stata superata con facilità relativa grazie principalmente al fatto che il nemico nazi-fascista non si era ancora riavuto dalla sorpresa nel vedersi affrontato apertamente con una guerra di bande mentre gli uomini della Resistenza affrontavano la lotta con energie fresche continuamente alimentate. Ora invece la crisi è diversa, più dura, più lunga. È ad un tempo una crisi di assestamento e di logoramento. Nei suoi termini più generali, Cadorna così puntualizza <16:
«Alle soglie dell’inverno, un inverno particolarmente rigido, le formazioni partigiane, erano state ovunque duramente provate. Le vallate Piemontesi erano state ripetutamente rastrellate: quelle confinanti con la frontiera Francese erano state permanentemente occupate da truppe tedesche e repubblichine obbligando i Partigiani a divallare in Francia o a disperdersi. Il problema del rifornimento nelle zone di montagna largamente sfruttate dalle requisizioni e distruzioni si faceva sempre più serio: altrettanto complesso era il problema dell’equipaggiamento perché, a parte gli indumenti aviolanciati dagli alleati, solo poche formazioni favorevolmente ubicate avevano potuto procurarsi vestiario invernale. Altrettanto grave la situazione nel Veneto e gravissima quella del Nord-Emilia».
L’accento è posto subito sulle difficoltà stagionali, ricordate unanimemente dai vari autori, costituenti di per sé grave ostacolo alla guerriglia soprattutto nei movimenti fuori strada, su terreni stemperati dalla pioggia o innevati, e per la mancanza di occultamento conseguente all’assenza di vegetazione. Esatto l’accenno ai ripetuti rastrellamenti, punto che verrà meglio sviluppato in seguito. Inesatta invece l’affermazione concernente la dispersione dei partigiani delle vallate Piemontesi non passati in Francia. Non si erano disperse le formazioni delle Valli Grana, Maira, Varaita, Po, come non si erano dispersi quelli della Val Pesio o della Valle Chisone <17.
Tutte le opere maggiori sulla Resistenza fanno risaltare le condizioni estremamente critiche in cui fu proseguita la lotta partigiana all’inizio dell’inverno.
R. Battaglia <18 così sintetizza il quadro:
«Nel giro di una settimana non rimase più un angolo dell’Italia partigiana che non fosse sconvolto, messo a ferro e fuoco dai rastrellamenti: almeno la metà delle forze tedesche e tutte le forze repubblichine, furono impegnate contemporaneamente e in tutti i settori per schiacciare la Resistenza. Così forte fu l’urto, che quasi dovunque sembrò di essere tornati, disperse le formazioni, bloccati inesorabilmente i fuggiaschi, terrorizzate le popolazioni civili, al punto di partenza, alla situazione del primo inverno ’43…. Per chi svolge lo sguardo a questo periodo la Resistenza Italiana sembra ormai ridotta a una frana che si ingrossa sempre più scendendo la china prima dell’ultimo balzo sospinta verso la rovina non solo dall’urto diretto, dai rastrellamenti e dalle persecuzioni poliziesche, ma anche la forze più lontane ma non meno gravi ed insidiose».
La stasi delle operazioni alleate sugli Appennini come sulle Alpi aveva concesso ai tedeschi una disponibilità di forze per la lotta anti-partigiana quale non avevano mai conosciuta. Tale disponibilità si vedeva singolarmente incrementata dal fatto che trovandosi la maggior parte delle zone partigiane nelle retrovie del fronte, i comandi tedeschi potevano impiegare direttamente le loro riserve operative. Ciò è precisato esplicitamente nelle disposizioni emanate dal Feldmaresciallo Kesserling a ottobre e riportate dal Bocca <19: «Per queste operazioni sono da impiegare, oltre ai reparti di lotta antibande del corpo supremo delle SS. e della polizia in Italia, anche tutte le riserve tattiche che si trovano nella zona». Kesserling, è vero, aveva preventivato «una settimana di lotta» contro le bande, tale «settimana» in realtà durò molto di più e non iniziò dappertutto alla stessa data. Per esempio Domodossola ricadde nelle mani dei Nazi-fascisti il 14 ottobre ed Alba il 2 novembre; Pradleves in Val Grana fu rastrellata il 28 dicembre.
Tale azione a fondo contro le bande partigiane si inseriva in un particolare momento psicologico, poiché tale fattore rivestiva una importanza specialissima nella particolare forma di guerra. Il momento psicologico era determinato da un lato della depressione che aveva seguito il tramonto delle speranze di una rapida conclusione del conflitto, evidenziato dal proclama «Alexander» e dall’altro da una massiccia offensiva propagandistica da parte del fascismo di Salò <20. Com’è noto la grande ondata dei rastrellamenti invernali pur provocando sensibili disagi, sofferenze e gravissime perdite (valga per tutte quella di Duccio Galimberti trucidato da militi fascisti nei pressi di Centallo il 4-12-1944) non pervenne a scardinare l’organizzazione partigiana. E tanto meno quanto questa era scaltrita ed agguerrita. Tuttavia un effetto certo lo produsse, quello che Angela Trabucco <21 menziona a proposito della Val Chisone ma che vale in pratica per tutte le formazioni: «a quell’epoca le file partigiane si erano molto assottigliate ma non perché fossero state concesse licenze: le azioni offensive e i continui rastrellamenti avevano provocato morti e feriti, creando un clima tale di allarme e pericolo, che i meno coraggiosi avevano preferito ritirarsi dalla lotta». In realtà l’affermazione sulla non concessione delle licenze è troppo recisa e del resto contraddetta per quanto riguarda la stessa Val Chisone da una dichiarazione del suo comandante Marcellin, riportata poche righe prima.
G. Bocca afferma in proposito <22:
«la parziale mobilitazione prevista dal Generale <23 si effettua agli inizi dell’inverno: molti partigiani estivi tornano a casa con la giustificazione della licenza: i comandanti militari quasi sempre vecchi del ’43 gliela concedono frenando a stento il dispetto e la rabbia…. Gli 80.000 di cui parla il CVL in ottobre, si riducono nel dicembre a 50.000, forse meno».
«Ce la faremo, col freddo, con la decisione nemica di farla finita prima che sia troppo tardi, con la stessa nostra estensione organizzativa che da sola, col suo stesso esistere, ci pone compiti ed interrogativi sempre nuovi e sconcertanti?» <24.
Era infatti avvenuto che il ritmo dell’offensiva alleata sui nuovi fronti durante l’estate aveva convinto moltissimi che la fine della guerra fosse ormai a portata di mano. Ciò aveva determinato una dilatazione improvvisa e massiccia delle formazioni partigiane che in qualche caso (vedi appunto Domodossola ed Alba) avevano assunto un vero e proprio assetto pre-insurrezionale. Ora è ben noto che nella guerra partigiana l’aumento quantitativo delle bande non si accompagna affatto ad un incremento qualitativo: anzi quasi sempre si verifica esattamente il contrario. Capi improvvisati, gregari privi sia del più elementare addestramento al combattimento che di un grado sufficiente di coesione morale, disciplinare e servitù logistiche imponenti rendono estremamente aleatoria l’efficienza bellica delle formazioni. Ciò proprio al momento in cui le formazioni stesse, appunto per la dilatazione degli effettivi presentano il massimo grado di vulnerabilità, ad un nemico che come è stato detto sopra disponeva delle maggiori forze per i rastrellamenti. È questo rapporto di forze, quantitativo e qualitativo che spiega meglio di ogni altra cosa la violenza e la profondità della crisi invernale. Così come ne spiega il superamento.
[NOTE]
3 Testimonianza di Ezio Aceto – ufficiale in SPE, partigiano della Banda «Italia Libera», poi ufficiale della Banda di Boves, poi Comandante I Settore e da ultimo ufficiale delle Formazioni Autonome del Monregalese.
4 Le Langhe, per la loro configurazione hanno offerto anche in altri tempi luoghi per un particolare tipo di guerriglia. L’archivio Comunale di Albaretto Torre, ad esempio conserva una lettera datata 29 maggio 1799, a firma «Branda de Lucioni Maggiore Imp. e comandante della massa cristiana piemontese», in cui intima alle comunità di Rodello, Serravalle, Bossolasco e Murazzo di prendere contatto con lui ed uniformarsi a precise tattiche di guerriglia: «avviso quelle masse che si trovano nelle vicinanze del nemico di non far altro se non che d’invigilare sopra d’esso quali movimenti esso faccia, conoscere tutte le forze immaginarie, nella vicinanza ma il tutto imboscato e principalmente nei «grani» dove vi sono delle strade da parte in parte alquando il nemico con la fanteria o sia cavalleria volesse passare per queste strade non li hanno che lasciarli entrare sin tanto che il nemico sia giunto in mezzo alla imboscata, questi corricati contadini cominciano alla testa a lanciare schioppettate contro questi francesi da una parte e poi dall’altra, e restano sempre coperti, se poi le lotte dei contadini obbligassero i francesi a fuggire in questo caso se le frapporrà dell’impedimenti alla fuga per mezzo d’alberi, e frattanto si seguiterà contro il nemico il fuoco. Tutti devono avere una lancia od una pertica o tridente e non faranno alcuna schioppettata se non a buon tiro e l’uno dopo l’altro, avverto che tutte le Com.tà devono avere del giorno tre uomini sul campanile, due dormono ed uno vigila, vedendo il nemico si suona campana e martello e due di questi uomini vengono abbasso e danno avviso qual seguirà da un luogo all’altro, e dove si vede nemico si continua a dare la campana e martello acciò, tutta la massa vede contro il nemico, di notte, poi ciascheduna Com.tà, meriterà dei picchetti, e battaglie in vigilanza del nemico per darne avviso anche da un luogo all’altro, ed un pronto avviso alla mia persona secondo ho ordinato per mezzo delle due persone a cavallo – per copia conforme, all’originale». «Ogni Com.tà prenderà copia della p.te e farà andare avanti l’originale». cit. in Dorni Giagnolio «Invito alle Langhe», Torino, 1966, p. 325.
5 ENRICO MARTINI MAURI, Con la libertà e per la Libertà.
6 Testimonianza di Faustino Dalmazzo – avvocato, ufficiale del Comando della Compagnia Rivendicazioni Caduti, poi Comandante della XX e XXI Brigata G.L. ed infine anche Commissario politico della I Div. Alpina G.L.
7 Nelle memorie di viaggio del Duca di Chiablese, in seguito ad una sua venuta nelle Langhe, il 25-11-1792, è annotato quanto segue: «Ils ont dit que le chemin est bon et qu’il fait tout par Langa, c’est-à dire par la crête», cit. In DORNI GIACOGLIO, Invito alle Langhe.
8 Testimonianza di Ezio Aceto.
9 Testimonianza di Giannetto Asteggiano, partigiano della Banda «Italia Libera» poi comandante di distaccamento e quindi di banda della Brigata «Valle Grana», in ultimo Comandante della Brigata di Formazione della III Divisione G. L. «Langhe».
10 Testimonianza di Ezio Aceto e Giannetto Asteggiano.
11 Testimonianza di Alberto Bianco, comandante della V Banda, poi della Brigata «Valle Grana» e infine della III Divisione G.L. «Langhe».
12 E. MARTINI MAURI, op. cit., e Partigiani, penne nere
13 R. BATTAGLIA, Storia della Resistenza Italiana, ediz. 1964
14 Poi I Divisione.
15 Testimonianza di Ezio Aceto e Giannetto Asteggiano.
16 R. CADORNA, La Riscossa, ediz. Rizzoli 1948, pag. 200
17 Testimonianze di Faustino Dalmazzo.
18 R. BATTAGLIA, op. cit., Torino 1953, pag. 457.
19 GIORGIO BOCCA, Storia dell’Italia partigiana, Bari 1968, p. 505.
20 G. BOCCA, op. cit., p. 526 e segg.
21 ANGELA TRABUCCO, Partigiani in Val Chisone, p. 118
22 G. BOCCA, op. cit., p. 516
23 Alexander.
24 LUIGI LONGO, Un popolo alla macchia, Milano 1947, p.331.
Franca Asteggiano, GL cuneesi: la pianurizzazione, Quaderni della FIAP, n. 7, 1972

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